DONI

SFOGLIANDO IL DIARIO…

26 dicembre 2008
Santo Stefano
ore 6:17.

“Chi persevererà fino alla fine sarà salvato.”(Mt 24,13)

Ieri sera ho concluso la giornata chiedendomi se il Natale era tutte quelle cose che erano successe, quei no con i quali mi ero dovuta scontrare, se il Natale era il dolore la sofferenza, la percezione del mio limite e di quello degli altri.
Me lo sono chiesto anche se dentro avevo la pace e la serenità che può dare solo il Signore.
Mi meravigliavo che fosse così, perché non mi sentivo per niente brava, capace, ma Dio era dentro di me.
Lo sentivo che mi parlava, mi sosteneva, mi incoraggiava, mi consolava.
Lo sentivo che mi guardava come quando io guardo i bambini anche quando fanno i macelli, che mi viene di divorarli di baci.
Sentivo che avevo un Padre che si preoccupava di me, che vigilava sul mio cammino e continuava a ripetermi: “Non temere io ho vinto il mondo”.
Le sue parole di speranza risuonavano dentro il mio cuore, offuscando e coprendo le mie di autocommiserazione, di rivalsa e di lamento per le cose che avrei voluto dire, fare, pensare.
Perciò ieri sera mi chiedevo in cosa consistesse il Natale, ma non ho trovato risposta.
Avevo vissuto giorni di grande tensione verso questa che è la festa più bella dell’anno.
Il dolore mi aveva accompagnato, tormentato, logorato, schiacciata, schiantata.
Ho toccato l’apice la vigilia a sera, proprio come quando si partorisce che le forze di vengono meno e ti viene meno il respiro e non sai più che dire e non puoi più fare, perché la schiena ha detto basta.
Sono stata seduta, incollata alla sedia, la sera della vigilia, dopo aver fatto tutto, compreso togliere i frammenti delle uova sode cadute sul tappeto.
La Madonna stava per partorire nella grotta il Bambinello.
Ho pensato che stavo male, ma non ho associato il mio al suo dolore.
Mi sarebbe peraltro sembrato blasfemo.
Davanti agli occhi gli incarti dei troppi regali, le coccarde, i fiocchi, la confusione hanno contribuito a rendermi triste, perché in tutto quel ben di Dio riscontravo la nostra incapacità a vivere il Natale in modo autentico e vero.
Mi chiedevo perché il Natale dovesse essere per forza così, perché aumentare il numero delle portate a tavola o il numero delle cose inutili che siamo abituati a comperarci.
Perché aumentare il numero delle cose che abbiamo fino a farci venire la nausea?
Era quello il Natale?
Mangiare di più, comprare l’inutile, il superfluo per sé e per gli altri?
Perciò ero triste.
Ho detto alla fine della giornata di ieri, il 25. ” Il prossimo Natale voglio che vada liscio, senza supplemento di cibo o di regali, perché siamo già sazi di tutto. Perché abbuffarci per farci venire la nausea e stare male? Il prossimo anno voglio andare alla messa di mezzanotte come fossi una sposa fresca e pura a incontrare il mio Signore, a condividere la gioia di una rinascita dall’alto di cui sento tanto il bisogno”.
Era triste anche Giovanni quando ha visto quel ben di Dio.
Tanto che mi ha chiesto di andarcene in disparte a parlare un po’.
Il suo problema era come gestire il troppo che per lui non era tanto il cibo (ha mangiato solo quello che è abituato a mangiare. I dolci non gli piacciono e poi non è un mangione) quanto i regali.
Troppi!
Si sentiva smarrito Giovanni nel vederli e nel sentirsi tanto, troppo fortunato.
Così abbiamo parlato di felicità, di cosa rende felice un bambino.
Mi ero ricordata di quando, alla domanda su cosa rendesse felici (dopo una giornata da incubo a scartare i regali del compleanno) rispose: “un bacio un abbraccio o qualcuno che ti voglia bene o quando ti mostra il paradiso” e lo disegnò.
Erano le mie braccia tese quando gli davo qualcosa o la mia mano quando stringeva la sua nel momento del dolore e della sofferenza.
Il paradiso Giovanni ha capito in cosa consiste.
Del resto quando cominciò a voler disegnare, il suo pallino era di essere aderente alla realtà, di non trascurare nessun particolare, di comunicare ciò che aveva dentro.
Mi chiese di Dio come era fatto, poi decise che era luce e usò sempre il giallo per indicarlo, poi cominciò a mettere raggi dorati intorno agli angeli o ai personaggi buoni che erano però sempre sollevati da terra.
Dio era in quel giallo, in quei raggi.
Dio lo espresse in azione, a portare grande pace e serenità.
Così anche la nave che toglie dalle acque i rifiuti e li sputa nell’aria, mostra un pezzo di paradiso, quello dei pesciolini contenti, come i fiori che escono dal fucile dell’uomo bionico, servo di Erode, per far felici gli uomini, o quando tutti vanno d’accordo.
Giovanni non fa che disegnare il paradiso che ha un’unica faccia: quella del bene che vince il male, dell’amore che vince l’odio, dell’unione tra le persone.
La notte di Natale sul grande lettone, quando Gianni se n’è andato alla messa con gli altri io e Giovanni abbiamo vissuto il paradiso, parlando di cosa rende felici, parlando di amore, di Gesù, di babbo Natale.
Giovanni per la prima volta mi ha chiesto di chi è figlio babbo Natale, da dove è venuto, dopo che io gli ho detto che ai miei tempi non c’era, che c’era solo la Befana.
Le letterine le scrivevamo a papà e le mettevamo sotto il suo tovagliolo di nascosto.
In quella letterina promettevamo di fare i buoni.
Il Natale era il momento dell’esame di coscienza, del pentimento e della promessa.
Eravamo in linea, adesso che ci penso, con ciò che la liturgia ci ha fatto vivere.
Il richiamo di Giovanni Battista al pentimento per preparare la via del signore.
Giovanni questo non l’ha capito, ma avrà tempo per farlo.
Io l’ho capito solo ora il senso di quanto facevo sessant’anni fa.
Non è mai tardi per ringraziare il Signore di quella povertà che ci faceva gustare il Natale come un dono speciale che viene dal cielo e che tangibilmente mi dava anche la percezione del buono, del bello, dell’abbondante dove ogni giorno combattevamo con la miseria più nera.
Come recuperare o far recuperare il senso del Natale?
Quest’anno è venuta la crisi e non a caso la storia si vendica e ci induce a riflettere su cosa sia essenziale.
Dicevo di questo Natale alla rovescia per poi imbattermi il giorno dopo nel martirio di Santo Stefano.
Allora ho detto che, se non ho fatto in tempo, non ho avuto modo di vivere il Natale autenticamente, non c’è speranza.
La festa è già finita.
Dalla capanna alla croce. Dalla speranza alla morte.
Un bel mistero!
Ma mi ha colpito il martirio di Stefano quando, mentre effondeva la vita diceva: “Ecco io contemplo i cieli aperti e il figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio”.
Dicevo del partorire nel dare vita, di quello che ho sentito la notte della vigilia.
Il Natale è un partorire, un dare vita. Ecco perché il martirio di Santo Stefano a continuare a celebrare il Natale, fare festa davanti al Signore, gioire con lui perché la morte e la resurrezione sono la faccia di una stessa medaglia.
“Una spada ti trafiggerà l’anima”.
Anche Maria nella notte fatata meditava tutte queste cose in silenzio quanto dicevano del suo Signore.

C’è ancora speranza?
Anzi adesso faccio come suggerisco alle coppie: “La fedeltà come il perdono sono doni dati, che ci toccano, non ce li può togliere nessuno. Allora Signore ti chiedo, pretendo (che brutta parola perdonami!) che tu mi dia ciò che già mi hai dato, ma che ho dimenticato come si usa, anche perché ho dato per scontato che avrei ricordato le istruzioni.
Signore ti prego non dimenticare il dono, ti prego aiutami a usarlo nel miglior modo possibile.

Dono e perdono

Meditazioni sulla liturgia di
martedì della III settimana di Pasqua

“Signore non imputare loro questo peccato” (At 7,60)

Stefano così conclude la sua preghiera prima di essere ucciso.
Come Gesù dona il perdono ai suoi aguzzini, il dono più grande che uno possa fare a chi ti sta uccidendo.
La folla a Gesù chiede un segno per credergli, ricordando la manna piovuta dal cielo nel deserto.
Nè la manna, nè Mosè il mediatore sono importanti per placare la nostra fame, ma Colui che manda a noi ciò che ci serve per vivere.
Gesù in questo discorso di autorivelazione dice che discende dal cielo, Dio in persona che si offre come pane di vita eterna.
Ma cosa può convincerci che Gesù è l’unico pane del quale abbiamo bisogno per non morire?
Ieri in Gv 6,29 abbiamo letto:”Questa è l’opera di Dio:credere in colui che egli ha mandato”.
La fede è quindi è il segno che ci dà il pane di vita.
Attraverso la fede riconosciamo che Dio ha tanto amato il mondo da dare suo figlio Gesù per il riscatto dei nostri peccati.
Con il Battesimo il perdono di Dio, il super-dono ci viene dato attraverso l’innesto in Cristo, diventando a tutti gli effetti suoi famigliari, figli adottivi, fratelli in Gesù.
Nella sua casa non può mai mancare nè cibo nè bevanda, ma tutto concorre al bene di quelli che lo amano e che si sentono amati da Lui.
Il pane del perdono è ciò che ci garantisce il paradiso.