Sono stato con te dovunque sei andato

 (2Sam 7,1-5.8-12.14.16)
Il re Davide, quando si fu stabilito nella sua casa, e il Signore gli ebbe dato riposo da tutti i suoi nemici all’intorno, disse al profeta Natan: «Vedi, io abito in una casa di cedro, mentre l’arca di Dio sta sotto i teli di una tenda». Natan rispose al re: «Va’, fa’ quanto hai in cuor tuo, perché il Signore è con te».
Ma quella stessa notte fu rivolta a Natan questa parola del Signore: «Va’, e di’ al mio servo Davide: “Così dice il Signore: Forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti? Io ti ho preso dal pascolo, mentre seguivi il gregge, perché tu fossi capo del mio popolo Israele. Sono stato con te dovunque sei andato, ho distrutto tutti i tuoi nemici davanti a te e renderò il tuo nome grande come quello dei grandi che sono sulla terra. Fisserò un luogo per Israele, mio popolo, e ve lo pianterò perché vi abiti e non tremi più e i malfattori non lo opprimano come in passato e come dal giorno in cui avevo stabilito dei giudici sul mio popolo Israele. Ti darò riposo da tutti i tuoi nemici. Il Signore ti annuncia che farà a te una casa.
Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu dormirai con i tuoi padri, io susciterò un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio.
La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a te, il tuo trono sarà reso stabile per sempre”».

Parola di Dio

Sono stato con te dovunque sei andato,

17 Famiglia oggi:riflessioni di coppia

  Rubrica radiofonica a cura di Gianni e Antonietta

Canto: Dio ha tanto amato il mondo (CD – “Risorto per amore” 10)

Benvenuti, cari amici all’ascolto di questa trasmissione. Dagli studi di Radio Speranza vi salutano Gianni e Antonietta
La volta scorsa per motivi di lavoro non ho potuto essere presente e a dire il vero la mattina, quando Antonietta mi ha salutato, un po’ l’ ho invidiata e avrei voluto tanto non avere impegni, per essere al suo fianco e non mancare all’appuntamento con voi. L’argomento l’avevamo concordato insieme, anche se lei si è preoccupata di sviluppare le riflessioni che avevamo fatto a proposito della nostra difficoltà a vivere il noi, dello sforzo continuo per non mollare, cercando di non mancare mai all’appuntamento della preghiera comune, perché se gli altri li saltiamo senza grossi complessi di colpa, l’appuntamento con il Padreterno ci sembra un sacrilegio non rispettarlo. A dire il vero, sono io che tendo a sottovalutare l’importanza di accordarci prima di metterci di fronte al Signore, pensando che lo Spirito Santo invocato basti a coprire la nostra pigrizia, la nostra difficoltà a metterci a nudo. Ma, come diceva giustamente Antonietta la volta scorsa, perché la corrente passi e le lampadine si accendano, bisogna che tutti i fili siano ben collegati tra loro, altrimenti si rischia un corto circuito.
Non avevamo quindi smesso di chiedere al Signore che riuscissimo a eliminare le distanze che ci separavano, prendendo esempio da Lui che ci ha mostrato come si fa, non quando si è fatto adorare in una mangiatoia collocata in una stalla, ma quando ha deposto le vesti e ha indossato il grembiule, per lavarci i piedi, che presuppone uno stare più vicini di quanto siamo in grado di sopportare.

Così la preghiera ha sortito l’effetto voluto perché, mentre io da questi microfoni, chiedevo al Signore l’umiltà e la perseveranza per poterlo imitare in ciò che istintivamente non siamo portati a fare, Gianni concretamente era stato chiamato a vivere quelle parole in una situazione di degrado psichico e fisico che vedeva protagonista una persona a noi molto vicina, emarginata da tutti, perché si comporta come un barbone.Ho ringraziato il Signore perché Gianni, pur privilegiando il silenzio, non si tira indietro di fronte alle necessità di chi soffre, anche se non si lava, l’ ho benedetto perché ha portato anche me, che avevo la “puzza sotto il naso” come si suol dire dalle nostre parti, a soprassedere e ad essergli a fianco, quando è necessario sporcarsi, per sollevare da terra chi rischia di rimanerci.
In questo tempo di Quaresima le beatitudini sono i valori a cui si deve uniformare ogni nostra volontà di cambiamento, ogni conversione che abbia come principio e fondamento Gesù, figlio di Dio, morto e risorto per noi. “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” non è l’ultima delle beatitudini. come giustamente nota san Gregorio Nazianzeno che invita a servire Cristo nei poveri. Gesù non ha avuto paura di sporcarsi, quando si è immerso nel nostro mondo impregnato di peccato, decidendo di nascere in una stalla ed essere deposto in una mangiatoia, riscaldato dal fiato di un bue e di un asino, mentre gente senza fissa dimora, vale a dire i pastori, andavano ad adorarlo. Quanto cattivo odore intorno a Gesù, il figlio di Dio fatto uomo! ma quale messaggio d’amore ci ha trasmesso attraverso quelle che sono state le sue preferenze!
Noi viviamo di pregiudizi e siamo bravi a parlare, ma non a fare, a meno che la gente in questione mantenga le debite distanze.
Luciana, incontrata all’inizio di questo cammino, è stata la battistrada su questa via che ci ha portato a concepire la carità non come un gesto grandioso ed emblematico, fatto una volta per tutte, ma un insieme di piccoli gesti ripetuti ogni giorno nei riguardi di chi il Signore ci metteva di fronte. Quando l’ho incontrata la prima volta, non abbiamo avuto bisogno di presentarci, perché è bastato guardarci negli occhi e riconoscerci, sorelle di latte nutrite alla stessa sorgente. Mi colpì il fatto che lei pregava per gente che non conosceva, che accoglieva nella sua casa senzatetto ed emarginati, che si adoperava a che quelli che vivono ai margini della nostra società opulenta avessero di che mangiare e nutrirsi, privandosi spesso del necessario per darlo a loro. Quando, in occasione di una vendita di beneficenza, mi chiese qualcosa da offrire, io non mi tirai indietro, ma misi una condizione: che quello che le davo non lo vendesse ad un prezzo inferiore al suo valore. La sua risposta mi disarmò, quando mi fece notare che anche se per la mia roba avessero dato pochi spiccioli, erano quelli che probabilmente servivano per aiutare una povera famiglia di sfrattati a pagarsi l’affitto.
Fino a quel momento la carità che conoscevo era quella che non mi scomodava, neanche per andare a fare un vaglia alla posta, con la scusa che non potevo stare in piedi, quella che era garantita dalla riconoscenza di chi aveva effettivamente bisogno, quando i bisogni degli altri li misuravo sui miei, quando la carità non nasceva dalla rinuncia e dal sacrificio..
”Non sappia la tua sinistra cosa fa la tua destra”, parole difficili da digerire, da metabolizzare, e invece è accaduto, perché la carità è contagiosa, e la gioia di chi dona senza aspettarsi il ricambio è la molla che ti spinge a provare di fare altrettanto.
Ne fu contagiato anche Gianni sì che, se non riuscivamo ad andare d’accordo per tante cose, lo trovavamo l’accordo subito, quando si trattava di andare incontro ai bisogni di fratelli più sfortunati, mettendo a disposizione quel poco o quel tanto che, a seconda dei casi, eravamo in grado di offrire.
Man mano ci siamo resi conto che il tempo, il bene più prezioso che il Signore ci ha dato, era quello che dovevamo essere disposti a donare agli altri, senza avarizia, quello sottratto al riposo, allo svago, a volte anche al lavoro, per regalare un sorriso, per portare un po’ di luce nel buio di tante situazioni drammatiche.
Man mano che aumenta la consapevolezza dei nostri limiti, dell’incapacità ad andare incontro alle esigenze di tutti, aumenta la nostra fiducia nel Signore che siamo certi è più bravo di noi a risolvere le situazioni, come fece quando moltiplicò i pani e i pesci perché ebbe compassione della folla che lo seguiva. La compassione è un sentimento che ci siamo dimenticati o non abbiamo mai conosciuto, è un sentimento divino, è il sentimento che Dio ha provato quando ha deciso di mettersi nei nostri panni e traslocare nel nostro mondo, abolendo le distanze che ci dividevano da Lui.

Mentre eravamo tutti presi a riflettere su come eravamo e come siamo, non senza un certo compiacimento,ci è capitato sotto gli occhi l’ articolo di Riccardo Orioles dal titolo “Tsunami quotidiano” sulla copertina di “Qualevita”, rivista a cui siamo abbonati che vi vogliamo leggere.
Mettiamo che – dopo lo tsunami – se ne sia salvato uno, anzi più d’uno, una barca intera, pescatori. Mettiamo che questa barca, sola, con pochi viveri, senza bussola, senza radio, abbia girovagato alla cieca per l’oceano, con un pesce ogni tanto, bevendo acqua piovana.
Mettiamo che siano sfuggiti alle ricerche, via via sempre più fiacche (navi ed elicotteri dovevano tornare ai loro compiti ordinari).
Mettiamo che nel frattempo, mentre essi navigavano, il loro paese d’origine sia passato progressivamente dalla prima pagina a quelle interne, dai titoli a nove colonne ai dibattiti pacati. Mettiamo che nel frattempo la tv abbia avuto il tempo per ricominciare ad occuparsi regolarmente, (cioè per tutto il tempo) di politica, di campionato di calcio, di Bruno Vespa e di veline.
Mettiamo che dopo un periodo lungo ma ragionevole – il diluvio infine durò quaranta giorni – essi siano riusciti ancora, benché isolati dal mondo, a mantenersi vivi. Che abbiano attraversato oceani, circumnavigato afriche, traversato stretti. E che alla fine, all’alba di una mattina come tante altre, uno di essi – il vecchio a prua, quello che li ha guidati, quello che incredibilmente non ha mai perduto la fede – improvvisamente si scuota, e gracchi la parola stentata che nella loro lingua significa “Isola! Un’isola là all’orizzonte”. E che l’isola sia là davvero, e sia italiana, e sia Pantelleria.
I sopravvissuti allo tsunami la guardano come non hanno guardato mai nessuno.
Bevono l’ultima acqua, e si buttano sui remi. E in quel preciso momento una motovedetta armata si appresta (Allarme clandestini!) a salpare da qualche base. E una nuova camerata viene apprestata in qualche vecchio lager. E un nuovo articolo contro l’immigrazione clandestina viene frettolosamente vergato in qualche giornale.
Tutto questo è per loro, poiché la tecnologia è efficiente e veloce, e già da qualche ora un radar li seguiva. Ma essi, che non lo sanno, fanno forza sui remi.
Peccato che siano giunti così tardi. Se fossero arrivati prima, ci saremmo commossi anche per loro.

Canto: Mio rifugio sei tu (CD – “Ad una voce” 8)

La rivista Qualevita ci è stata recapitata, guarda caso, insieme agli auguri di Natale, di Dominicus, il seminarista indonesiano, che abbiamo deciso di aiutare.Ci eravamo dimenticati di Dominicus quest’anno e ci voleva la l‘articolo per ricordarci che in Indonesia c’è stato lo tsunami.
Chissà se Dominicus è ancora vivo! Quando ha scritto gli auguri sicuramente lo era. E dire che ci sentivamo la coscienza a posto, dopo aver con la carta di credito mandato una bella sommetta a chi di dovere, per finanziare gli aiuti..
Dominicus, significa del Signore, è creatura che nel nome dichiara la sua appartenenza. Spesso, noi cristiani ce ne dimentichiamo e non pensiamo a chi apparteniamo, anzi ci dà fastidio pensare che possa succedere, ma ci arrabbiamo se non ci appartiene ciò che pensiamo sia nostro, solo ed esclusivamente nostro, che non siamo disposti a cedere a chicchessia, fatta eccezione per le grandi occasioni in cui ci sentiamo bravi a mandare un sms o qualcosina di più, a patto che non intacchi o non leda le nostre sicurezze future.
Tutto ciò che non ci serve non ci appartiene. Qualcuno l’ ha detto.Quante cose abbiamo ammassate che non ci servono, ma che ci guardiamo bene dal mettere in comune, dal darlo in uso, perchè si rovina e poi non si sa mai cosa può succedere.”Guardate i gigli dei campi, guardate gli uccelli del cielo, non seminano e non mietono, …” sembrano le parole di un visionario eppure quante volte abbiamo sperimentato come un gruzzolo faticosamente e gelosamente custodito non è servito a liberarci dall’angoscia di un lutto, dalla sofferenza di una malattia.
Quando ci è arrivata la lettera di padre Dino che ha provveduto a tradurci le parole di Dominicus, ci siamo chiesti chissà com’è cambiata la vita da quelle parti, se lo tsunami l’ha cambiata anche a noi, se siamo gli stessi dell’anno scorso, quando ci preparavamo al Natale.
Se le immagini che scorrono sul teleschermo avessero il potere di sporcarci di terra, di tingerci con il sangue di tante vittime che abbiamo visto morire insieme alle speranze dei pochi sopravvissuti, potremmo rispondere di sì.
Ci ha colpito il commento, che del Vangelo della quarta domenica di Quaresima abbiamo sentito fare da un sacerdote, che parlava da questa emittente, a proposito della guarigione del cieco nato.
Sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: “Va’ a lavarti nella piscina di Siloe” parole che ci interpellano proprio su quello sporcarsi di Gesù che per guarire il cieco nato prende della terra e l’impasta con la saliva per metterla sugli occhi del malato che cerca la guarigione. Ma che Dio è questo, che per toglierti un problema te ne aggiunge un altro e che per farti riacquistare la vista ti sporca gli occhi?
Ma proprio quel gesto porta il cieco a desiderare di lavarsi, a fare sua la volontà di Gesù
La fede passa attraverso un contatto fisico con il Signore che vive in ogni fratello che incontriamo sulla nostra strada e presuppone la nostra docilità a sporcarci e ad essere sporcati, toccare ed essere toccati.
La scorsa volta riflettevamo sulla distanza che separa gli uomini e in particolare i cristiani che hanno tanta difficoltà a condividere lo spazio e le comodità di cui godono, con chi è più sfortunato di loro.
Abbiamo pensato ai nostri amici di Milano che hanno cominciato con il cercare qualcosa che desse un senso alle loro giornate e li occupasse, una volta andati in pensione. A lui che da semplice osservatore è passato ad essere utilizzato a tempo pieno nella Croce verde, senza ferie e feste comandate che si rispettino, perché la sofferenza e il dolore non vanno in vacanza, e Gesù i malati per guarirli privilegiava il sabato, abbiamo pensato sorridendo a lei che a Natale si è rifiutata di portare i panettoni a domicilio nelle case di chi non conosceva e che, tempo tre mesi, esce di casa ogni giorno, per incontrare gli extracomunitari e insegnargli come si parla.
Abbiamo ripensato a quella passeggiata di fine agosto, quando, bighellonando tra le bancarelle di un mercatino, verso il tramonto, ci siamo imbattuti in Luciana che dalla mattina stava in piedi a vendere le cianfrusaglie, di cui volentieri anche noi ci eravamo liberati, perché ci fosse uno squarcio di luce anche per chi è abituato a vivere al buio.
Abbiamo ripercorso il sentimento che ci ha portato a guardare con altri occhi chi sta dietro un banchetto, per guadagnarsi la vita o strapparne un poco per gli altri, che tutto ciò comporta sacrificio e fatica, che il contrattare, specie per ciò che è destinato alla beneficenza è peccato mortale, che alla sera i banchetti bisogna che ci sia uno che se li carichi sopra le spalle o su un furgone e che la roba rimasta va incartata e messa per bene in ordine, da parte, perché la prossima volta non ci si impazzisca anche solo a cercarle le cose.

Ho ripensato a quando, da piccola, vedevo togliere i bottoni alle cose da regalare, ma la guerra aveva lasciato il segno e non ci potevamo permettere di buttare nulla che potesse servire.
Abbiamo ringraziato il Signore per le tante storie nelle quali ci hanno permesso di entrare i protagonisti, abbiamo ricordato quanto ci ha regalato il batticuore di Monica che abbiamo accompagnato a Roma ad incontrare il marito, sposato da meno di un anno, che si era fatto tre giorni di pullman, senza dormire per riabbracciarla, dalla Bulgaria, il sorriso sdentato di Ovidio e la puzza sui suoi vestiti di chissà quanti pacchetti di sigarette, fumate durante il tragitto, la tenerezza e il pudore dell’abbraccio dei due giovani, quando si sono rivisti. E che dire della solidarietà che si è accesa intorno al pancione della piccola albanese che era rimasta all’agghiaccio e che rischiava di abortire in pieno inverno, se il passa parola delle piccole e silenziose formiche, la sera di un sabato, quando le mense e gli uffici delegati a questo scopo erano chiusi, non avessero provveduto a recapitarle nel giro di poche ore l’occorrente per non morire?
Ci siamo chiesti dove avevamo la testa, in che mondo vivevamo, quando ci sentivamo a posto con la coscienza, dopo aver largheggiato nel fare l’elemosina al disgraziato che suole sostare davanti alla chiesa o al lavavetri, che con quei soldi volevamo levarci di torno.
E pensare che quando mi dissero se potevo dare una mano ad impacchettare i doni per i bambini poveri in occasione della Befana non mi posi il problema che era necessario portarsi le forbici e il nastro adesivo e lo spago e la carta per impacchettarli i regali. Un’altra occasione per toccare con mano come la carità sia frutto di un insieme di piccoli gesti, di fatica, di sacrificio, ma soprattutto di amore.

Ma accanto a questi ricordi sono emersi quelli legati ai volti di chi non ci ispira simpatia, di chi non lo merita, degli scorbutici, di quelli che non ci fanno pietà ma solo rabbia,perché potrebbero darsi una smossa, come si dice dalle nostre parti, e prendere per i capelli la propria vita invece di buttarla e di lamentarsi aspettando che qualcuno venga a salvarli.
Abbiamo pensato che il difficile sta proprio lì, dove la compassione fa fatica a farsi largo e non ti fa aprire il cuore, a causa di un giudizio che ne tiene chiuse le porte.
Il Signore ci invita, in Quaresima, a fare silenzio, a far penitenza, a prendere coscienza dei nostri peccati e ad ascoltare cosa dobbiamo fare per trovare la gioia.
Ascolta Israele, se tu mi ascoltassi!” sono le parole che percorrono tutta la Bibbia. E il comandamento che unisce il Vecchio e il Nuovo Testamento è l’amore.
La fede è entrare in questo mistero, nel mistero di un Dio che per amore si è sporcato e vuole sporcarci, per farci vivere l’esperienza esaltante di trovare la gioia in ogni fratello che soffre, perché è lì che Lui si nasconde, è lì che Lui vuole incontrarci, una volta che, alla piscina di Siloe, siamo andati a lavarci.
La capacità di amare nasce dall’incontro con il Maestro, dalla docilità con cui seguiamo la sua parola, dal desiderio di non tenere per noi ciò che gratuitamente ci è stato donato.
Come si fa, c’è da chiedersi, ad imporre ad un uomo di amare? Se non c’è attrazione, come può nascere l’amore? Come può perpetuarsi se l’altro cessa di essere amabile? La risposta l’abbiamo sentita alla radio la scorsa mattina, da don Paolo Curta che, commentando il Vangelo del giorno, ci ha invitati a lasciarci amare da Dio con tutta la forza, con tutta la passione di cui è capace, anche se questo comporta farsi mettere del fango sugli occhi per accorgercene.

7 marzo 2005

Canto: Canto: Dio ha tanto amato il mondo (CD – “Risorto per amore” 10)

Lo tsunami

 

 

Dal diario di Antonietta
Avrei voluto cominciare questo diario, parlando di una rosa rossa, poggiata sulla bara di mia madre, una rosa che testimoniasse il mio desiderio di riconciliarmi con lei. Avrei voluto parlare di tutti i sentimenti che hanno accompagnato questi ultimi mesi di calvario, specie da quando, il 26 di ottobre, è stata ricoverata in ospedale. Avrei voluto ripercorrere il filo che ha tenuto saldi i miei passi, la Parola di Dio, che mi sono sforzata di ascoltare e di mettere in pratica, specialmente da quando la situazione è diventata sproporzionata per le mie forze.
Avrei anche voluto parlare di questo Natale, inusuale, tra sonde e flebo, escrementi e medicinali raccolti in sacche di plastica, collegate a tubi, collegati a vene, a buchi naturali, e non, che servivano a dare vita a mamma e ai suoi numerosi compagni di viaggio.
Avrei voluto parlare della preghiera che Gianni ed io siamo andati a fare sul letto di mamma, stendendo le mani sulla sua pancia in subbuglio, mentre la diarrea continuava ad uscire.
Ricordo che era un giorno in cui non ce l’avevamo fatta ad andare a messa insieme, forse era domenica, e Gianni si era offerto di fare il turno di assistenza a cavallo dell’ora di pranzo. Ho sentito il bisogno di unirmi a lui, in quello che gli riconoscevo come un grande sacrificio, perché presupponeva la rinuncia al riposo in un giorno di festa, per sollevare me dalla fatica.
In questo periodo spesso Gianni ed io ci siamo persi, ma sempre ci siamo ritrovati, celebrando l’Eucaristia insieme e quel giorno l’abbiamo fatto in modo decisamente inusuale, pregando su un altare di carne, uniti nel comune desiderio che Dio trasformasse quel poco di vita e di forze, che rimanevano, in grazia.
Un desiderio di ritrovarci, dopo tutto quello che era successo, da quando anche lui si era dovuto ricoverare, per un intervento improcrastinabile, preceduto di qualche giorno da M., la moglie di nostro figlio, in attesa del secondo bambino, che voleva nascere prima del tempo, senza contare la morte improvvisa di zio G., il fratello giovane di mamma, e quella del compagno e amico di stanza, immaturamente scomparso il 27 dicembre.
Avrei voluto parlare dei foglietti che riempivano disordinatamente il cassetto del mio comodino che aspettavano di essere riordinati dopo che lo allo “tsunami” si era messo in movimento quest’anno, alla fine di ottobre, anticipando ciò che l’anno scorso era accaduto il 26 dicembre, senza che il Natale venisse scalfito.
Quest’anno lo “tsunami” ha colpito anche noi, anche se ci soffia sempre sull’ospedale, per tutto il resto dell’anno. Ha soffiato, sconvolgendole, sulle nostre abitudini, le nostre certezze, i nostri ritmi, le nostre relazioni, da quando quella notte M. mi aveva chiamato, per convincere mamma a farsi ricoverare.
Avrei voluto parlare delle lodi che abbiamo recitato al capezzale di mamma, io e Monica, l’angelo buono venuto a darci una mano per assisterla, mentre stava morendo, il 7 gennaio.
Avrei voluto parlare di I., dei rapporti difficili con questa sorella generosa e autoritaria, di M., l’anello debole della catena, di me, che non ce la facevo più a vivere quella vita da incubo.
Lo “tsunami”sembrava non voler mollare, travolgendo tutto senza pietà.
La notte dell’anno io e Gianni non ci siamo neanche fatti gli auguri: da quando era uscito dall’ospedale le distanze erano diventate incolmabili.
Lo “tsunami continuava a soffiare più forte su tutte le relazioni, mentre mamma miracolosamente era sopravvissuta all’intervento ai reni, che avevamo autorizzato, noi figlie, nonostante il rischio estremo di morte. Decisione combattuta e sofferta, ma inevitabile, sotto la pressione continua dei medici che aspettavano l’ok da noi, per tentare l’ultima chance.
Il 30, alle 9, era scomparsa nell’ascensore, da cui pensammo non sarebbe mai più risalita, salvo poi ricrederci, due ore dopo, quando ce la siamo vista in camera, inaspettatamente viva e cosciente, senza passare per la rianimazione. Abbiamo gridato al miracolo noi che la pensavamo già morta e ci hanno creduto anche i medici, dopo averle tolto il bubbone.
“Signore cosa vuoi dirci? “continuavamo a chiedergli, perché a 90 anni la morte è quasi scontata, non altrettanto una vita di dipendenza assoluta, dalle macchine, dalle medicine, dalle persone.
La sua sopravvivenza avrebbe messo in moto una serie di problemi insormontabili e ingestibili.
Il desiderio che tutto finisse mi faceva sentire in colpa. Non ce la facevo più a tirare avanti per quella strada: ero stremata e continuavo a chiedere aiuto al Signore e, solo con le labbra, dicevo“Sia fatta la tua volontà.”
Il 7 gennaio, quando è spirata, ho pensato a quei foglietti sparsi alla rinfusa nel cassetto e al perchè lo “tsunami” non mi aveva portato via, insieme agli alberi, alle case che aveva trovato sul suo percorso.
Era la Parola di Dio che mi aveva accompagnato per tutto l’anno, i foglietti del Calendario Liturgico, che ho appeso sul comodino.
“Sono stato dovunque sei andato” le parole che mi sono trovata nelle mani, mentre cercavo di notte un farmaco che mi facesse dormire e dimenticare che ero sola a combattere quella battaglia.
” Sono stato dovunque sei andato”, non solo quando mi sono sentita persa, nel tempo in cui mamma, Gianni, M. stavano all’ospedale, ma sempre, tutti i giorni dell’anno che si era da poco concluso, tutti i giorni della mia vita.
Così oggi voglio ricordarmele quelle, queste parole, tornata alle occupazioni abituali, dopo una notte insonne per i dolori che non mi danno tregua, con una serie di problemi da affrontare ogni giorno sproporzionati alle mie forze.
“Sono stato con te dovunque sei andato” lo volevo scrivere come messaggio di benvenuto sul cellulare, ma non c’è entrato tutto.
Non è un caso che il messaggio che appare, quando lo accendo sia “Sono stato dovunque sei”, forse ad indicare un passato che diventa speranza, certezza di una presenza che impedisce a qualsiasi “tsunami” di portarti lontano da LUI.
24 gennaio 2006