Costruire il Noi

Questa è la traccia della trasmissione “FAMIGLIA OGGI:RIFLESSIONI DI COPPIA”, andata in onda, su Radio Speranza(RadioinBLU) qualche anno fa.
Approfitto della ricorrenza di oggi, S. Valentino,( per chi  avesse voglia e pazienza di leggere) , per riproporre un argomento che è sempre attuale.

 

FAMIGLIA OGGI:RIFLESSIONI DI COPPIA

Rubrica radiofonica a cura di Gianni e Antonietta

 

Canto: Dio ha tanto amato il mondo (CD – “Risorto per amore” 10)

 

Benvenuti all’ascolto di questa trasmissione, cari amici.

Dagli studi di Radio Speranza vi saluta Antonietta.

Oggi sono sola, Gianni è al lavoro e mi ha incaricato di portarvi i suoi saluti.

Da questa situazione abbiamo tratto lo spunto per parlarvi del “noi” in cui confluiscono i due “io” che si impegnano a costruire gli sposi, quando decidono di amarsi per tutta la vita.

Non è semplice riuscirci, ma l’importante più del camminare è seguire la giusta direzione.

Quando, come oggi sta succedendo, nelle cose che facciamo o diciamo l’altro è presente perché quella cosa non l’avremmo detta o fatta senza di lui stiamo vivendo il noi, perché le cose di cui mi accingo a parlare sono frutto dell’impegno comune a camminare con Cristo.

La preghiera di Gianni sono certa che mi sosterrà, come siamo soliti fare quando uno solo di noi due deve andare in avanscoperta.

”Mentre l’uno parla, l’altro preghi”, questo era il mandato, quando qualche domenica fa hanno invitato a parlare quelli che lo sapevano fare, mentre distribuivano i volantini dopo la Messa, per invitare i compagni di banco della domenica a lodare, benedire e ringraziare il Signore, il martedì e il venerdì, nel gruppo Sacra Famiglia nella chiesa di S. Giuseppe. Fra questi c’ero anch’io che non ho bisogni di stimoli per aprire la bocca.

Ricordo che pensai che dovevano essere pazzi a credere che basta saper parlare per portare un annuncio e in quel caso era Gianni quello che doveva pregare.

Ma a pregare mi ci sono messa d’impegno anche io perché, e questo era il dilemma, se gli uomini si erano dimenticati che l’evangelizzazione nella piazza, davanti alla chiesa, passa anche attraverso il mal di schiena di chi deve stare in piedi più di quanto abitualmente gli sia concesso, io no, e avevo bisogno di sapere se anche Dio se l’era dimenticato.

Poi, come spesso mi accade, dopo il primo momento di smarrimento, mi sono messa a vedere cosa Dio si sarebbe inventato per rendere possibile ciò che mi sembrava incompatibile con la mia condizione di salute.

Ma Lui non si smentisce mai e ci ha messo in mano un microfono, chiamandoci qui, in questa emittente dalla quale poter raggiungere tante più persone di quante ci è dato d’incontrarne, la domenica, durante e dopo la Messa.

E’ bellissimo vivere nello stupore di come il Signore operi per utilizzare al meglio le nostre risorse, quando ci vede disponibili a dirgli di sì.

All’inizio di questo cammino, cominciato con Gianni non molti anni fa, non ci aspettavamo che le cose andassero così.

Nella Chiesa che avevamo cominciato a frequentare, Gianni che era arrivato dopo di me, trovò subito collocazione nel coro che anima la messa delle otto e trenta della domenica, mentre io, stonata come una campana, continuavo a chiedere al Signore che mi permettesse, almeno all’elevazione, di cantargli: ”Santo, santo santo, è il Signore, Dio dell’universo“ senza inorridire io, e far tappare le orecchie a chi mi stava vicino. Ma niente da fare, anzi proprio in quel periodo, come se non bastasse, persi completamente la voce, per via di due interventi che direttamente o indirettamente interessarono la gola.

La storia di Giobbe fu allora che mi prese a tal punto che mi convinsi che, se mi fossi arresa al Signore, avrei ritrovato la salute e con la salute la voce. Grazie alla rieducazione postoperatoria, la voce la recuperai alla grande, deludendo quelli che speravano di mettermi a tacere, una volta per tutte.

E vi assicuro erano tanti, compreso Gianni, anche se ci scherzava sopra con i nostri amici e auspicava un tempo di tregua dalle mie parole.

Ricordo ancora la penitenza singolare che mi diede un sacerdote, quella di stare cinque minuti in silenzio davanti al tabernacolo, che mi costò tanta fatica allora, ma che mi fece riflettere sull’importanza di fare silenzio per ascoltare cosa l’altro ha da dirci.

Gli inizi del nostro cammino di fede furono tutt’altro che facili, perché a me piace rendermi utile e nella Chiesa sembrava che non ci fosse posto per me, mentre Gianni non aveva dovuto aspettare un granchè per mettersi al lavoro nel coro.

Anzi, le prove lo portavano ad assentarsi da casa, dopo cena più di una volta la settimana, per via di un concerto di evangelizzazione che si stava preparando.

Io non posso dire che ne ero dispiaciuta, anzi approfittavo della sua assenza per dedicarmi al mio hobby preferito: scrivere preghiere.

Avevo trovato l’interlocutore che non avevo in casa, quello a cui confidare i miei problemi, l’amico su cui contare, il maestro che mi istruiva, ma non ancora il Padre da cui farmi amare.

Anni addietro il diario mi era servito per parlare solo con me stessa. La difficoltà a dialogare con Gianni aveva sviluppato in me questa scappatoia per non morire soffocata dal silenzio.

Pregare da sola mi dava tanta forza e tanta pace, mi rigenerava, ma quando ritornavo nella mischia, alle mie occupazioni quotidiane, che implicavano l’incontro e lo scontro con il mio prossimo più prossimo, le persone o la persona che il Signore mi aveva messo vicino, la pace e la gioia andavano a farsi benedire, e dovevo fare una gran fatica per non fuggire, sperando che il supplizio durasse il meno possibile.

A svegliarmi dal sonno venne, durante la Quaresima di due anni fa, la parola di Dio quando fa dire a Pietro, sul monte della Trasfigurazione: “Maestro, facciamo tre tende, una per te, una per Mosè, una per Elia”.

Già le tre tende che San Pietro voleva piantare per continuare all’infinito a godere della luce di Cristo, anch’io avevo cercato di piantarle, ma non mi era riuscito, come non riuscì a San Pietro, che voleva prendere la scorciatoia, pensando che gli uomini e il mondo fossero ostacolo alla santità.

“Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi, fate questo in memoria di me” E’ la formula che sentiamo ripetere ogni volta che andiamo alla Messa.

Ma cosa dobbiamo fare in memoria di Gesù? Consacrare il pane e il vino? Quello compete ai sacerdoti. Mangiare il corpo consacrato di Cristo, questo sì lo possiamo fare, anzi mi ero messa d’impegno a farlo ogni giorno e non ne potevo fare più a meno.

“ Fate questo in memoria di me” Queste sono le parole che mi hanno colpito in una Messa senza omelia, di quelle che ti fanno dire:” Oggi ritorno a casa tale e quale ero, tanto le letture le ho meditate a casa e il prete non si è sprecato.

“ Fate questo in memoria di me”: sul mio lezionario meditato non sono riportate queste parole che si ripetono ogni giorno, ma solo le letture che variano secondo l’anno, corredate da splendide, profonde ed esaurienti spiegazioni.

Ho comprato l’opera in otto volumi perché volevo sapere tutto e di più della parola di Dio, senza trascurare niente, ma quel “fate questo in memoria di me”, non essendo ripetuto ogni giorno, non mi aveva mai colpito come quella mattina, in una chiesa semideserta, con un sacerdote che aveva fretta di arrivare alla fine.

Aveva una voce forte e chiara, questo si, e tutta la messa le formule le ha pronunciate ad alta voce, scandendo le parole, perché le ascoltassimo e ci unissimo alla sua preghiera.

“ Fate questo in memoria di me”.

Mi sono girata e guardata intorno.

La chiesa era grande, ogni banco una persona, a destra e a sinistra, ugualmente distanti tra loro, fatta eccezione di due suore e di noi due che eravamo inginocchiati vicini.

Spezzarsi e donarsi, soffrire e morire per gli altri, per chi ci aveva messo vicino; questo voleva dire: “Fate questo in memoria di me”.

Ho ringraziato il Signore perché ci aveva concesso di capire quanto fosse importante eliminare le distanze, specie quando si prega, l’ho benedetto per il desiderio che ha messo in noi di essere segno di un’unità a cui ci aveva chiamati a rispondere.

L’ho detto a Gianni alla fine della Messa, e insieme abbiamo ricordato, quando la domenica o nella preghiera del gruppo ci mettevamo lontani, o anche durante il pranzo o durante le feste con i parenti o gli amici, ognuno cercando altrove ciò che naturalmente gli era stato messo vicino.

Abbiamo ricordato quante volte la presenza dell’uno infastidiva l’altro, impegnato a fare un solitario o a parlare con l’amica di turno.

L’amico è colui davanti al quale puoi pensare ad alta voce.

Chi era l’amico o l’amica a cui potevamo dire tutto o proprio tutto di noi?

Se non avessimo incontrato il Signore, se non ci fossimo imbattuti come i discepoli di Emmaus nel maestro che spiega il passato alla luce del presente radioso della sua resurrezione, sicuramente avremmo visto la distanza che ci separava diventare abissale.

L’abisso lo ha colmato Gesù, venendo incontro al nostro desiderio di incontrarlo per vedere se anche noi con Lui potevamo risorgere, attingendo alla sua acqua..

Canto: Gesù e la samaritana (CD “Nelle tue mani” – 6)

L’Antico Testamento, fino a quel momento incomprensibile, si è colorato di una luce nuova e ci ha comunicato ciò a cui inconsciamente ognuno dei due tendeva, ma che non sapevamo avere così a potata di mano.

Le parole della Genesi riguardo alla creazione dell’uomo vorremmo ricordarle anche a voi e da quelle trarre spunto per riflettere sull’unità dalla quale abbiamo preso origine e alla quale siamo chiamati a ritornare.

La Bibbia si apre con l’immagine dell’uomo maschio e femmina da cui Dio separa Adamo ed Eva, la coppia, alla quale consegna il compito di mettere in circolo l’amore, e si chiude con l’Apocalisse dove lo Sposo Gesù e la Chiesa sua sposa si incontrano e si uniscono nelle nozze escatologiche a cui Dio chiama l’intera umanità, grazie a quell’amore messo in circolo con l’aiuto dello Spirito Santo.

Il linguaggio della Bibbia è un linguaggio sponsale dall’inizio alla fine, e l’istituzione dell’Eucarestia è il segno tangibile che Dio fa sul serio e desidera che l’uomo sia disponibile a fare ciò che Gesù ha fatto, a farlo in memoria di Lui.

Allora le parole della consacrazione non sono più quelle che interpellano il sacerdote e lo chiamano a celebrare e rinnovare il sacrificio, ma quelle che ci interpellano tutti, a spendere e offrire il nostro corpo al compagno allo sposo, al fratello, alla chiesa che Dio ci ha chiamati ad amare, il corpo con il quale ci ha chiamato a rispondere.

La sacra particola è il corpo di Cristo che servirà ad ogni uomo per rendere possibile il miracolo che si comunichi l’amore attraverso la diversità dell’essere maschio e femmina, giovane e vecchio, ricco o povero, colto o ignorante.

Che cosa stupenda è questo progetto che Dio ha sull’uomo, che ama più di ogni umana creatura tutti, indistintamente, indipendentemente se siano buoni o cattivi.

La parabola del padre misericordioso, che prima chiamavamo la parabola del figliol prodigo, ci parla proprio dell’amore senza misura di un padre che aspetta che il figlio ritorni e che non lo sgrida quando questo accade, ma gli mette la veste più bella e fa festa perché finalmente è tornato ad abitare nella sua casa.

Che tristezza vedere che il fratello maggiore se la prende e non gode della clemenza del padre, dando per scontato che sia cattivo e intransigente come lui sarebbe se fosse al posto suo.

La verità è che noi facciamo Dio a nostra immagine e somiglianza e ci riesce difficile pensarlo diverso da noi.

E dire che Lui ci ha fatto ad immagine e somiglianza sua, vale a dire il contrario.

Perciò, dopo tante parole spese per farsi conoscere, attraverso la creazione, attraverso la storia (quella d’Israele in particolare, narrata nella Bibbia, che è chiamata Parola di Dio), si è deciso a scendere tra di noi, dando un corpo alla parola, perché ci mettessimo in relazione con ciò che abbiamo e che cade sotto i nostri occhi, il corpo, lo strumento indispensabile perché noi uomini, non angeli, possiamo comunicare.

Nel corpo di Cristo noi incontriamo Dio, quando facciamo la Comunione, ma lo incontriamo ugualmente nei fratelli, il corpo che ci ha lasciato per fare comunione con lui, amandoli come lui ci ama.

Spesso penso a Giovanni, il profeta che Dio ci ha mandato a domicilio, che più diventa autonomo più dà per scontate le cose.

Ricordo, quando bussava alla porta, si catapultava nelle nostre braccia e ci baciava senza che noi gli dicessimo niente.

Adesso, quando arriva dal nido, affamato bussa e chiede la pappa e ci cerca per vedere soddisfatte le sue aspettative, ma quando la sera i genitori tornano dal lavoro spicca la corsa e se ne va a casa sua, spesso dimenticando di dire anche un semplice ciao.

Gianni ed io ci siamo detti di non promettergli regali in cambio di baci e di comunicargli, anche quando si dimentica di salutarci l’amore che nutriamo per lui, richiamandolo dentro la nostra casa per dargli quel bacio che, non lui, ma noi desideriamo dargli, nonostante tutto.

La nostra storia, come quella di tanti che hanno incontrato il Signore e vivono nella sua casa è proprio questa: vivere come se tutto ci fosse dovuto, pronti a chiedere al mattino ciò di cui sentiamo il bisogno, ma lenti e pigri la sera a ringraziarlo per quello che ci ha dato e di cui spesso non ci accorgiamo neanche.

Dio ci ha dato un compito, il corpo, l’ho letto da qualche parte e mai abbiamo sentito quanto difficile sia sentirsi corpo di Cristo, essere corpo di Cristo, vedere nell’altro il suo corpo, essere eucaristia l’uno per l’altro.

Quando vennero quelli della missione a parlarmi dello Spirito Santo gli risposi che non perdessero tempo, perché io l’avevo tutto consumato a cercarne uno di Dio, e che non volevo complicarmi la vita. Uno bastava e avanzava, dissi ad Annamaria e Graziellina.

Gianni, che è meno complicato di me, tutte questi ragionamenti non era abituato a farli e a lui bastò cercare la fonte della luce che aveva illuminato il mio viso quando cominciai a farmi aspettare, per andare alla preghiera, la sera del martedì, mentre lui inseguiva sullo schermo le immagini vuote a cui uno stanco telecomando non riuscivano a dare vita.

Una vita lo avevo aspettato, era giusto che aspettasse anche lui.

Finalmente era arrivato il tempo di render pan per focaccia, perché avevo incontrato lo Spirito.

C’è da chiedersi che Spirito avevo incontrato se l’effetto era quello di lasciare solo il marito e di goderci e di commiserarlo, perché lui non c’era riuscito.

Ricordo, quando gli fu affidato il compito di restaurare una chiesa, anni addietro e usciva tutte le mattine all’alba per seguire i lavori e ne approfittava per entrare nella cappella e farci una preghiera.

Io lo invidiavo e mi dicevo che io non potevo permettermelo, perché di mestiere facevo l’insegnante e non la restauratrice di chiese. e non potevo neanche farci capolino per via della mia incapacità a adattarmi a qualsiasi appoggio che non fosse la sedia o il letto di casa mia.

Ma il Signore era pronto a smentirmi, chiamando noi insieme a restaurare la casa, la nostra casa, la piccola Chiesa domestica dove voleva venire ad abitare.

Ricordo allora che condividemmo le tensioni di un lavoro non facile alle prese con operai che scomparivano proprio quando ce n’era più bisogno e con i desiderata di un convento con tante teste. Della preghiera parlammo poco, ma ricordo che la cosa m’incuriosiva e in fondo lo invidiavo per quella fede semplice che io non riuscivo a trovare.

Poi il desiderio di andare in Chiesa divenne un’esigenza comune, ma rimanevamo ancora distanti e soli con il nostro Dio personale che facevamo fatica a condividere. Era come pretendere che passasse la corrente attraverso dei fili spezzati.

Canto: Ad una voce (CD “Ad una voce” – 3)

E’ strano come le coppie si trovino a condividere tutto, dalle cose più banali e non belle a quelle più importanti, ma hanno difficoltà a condividere ciò che li farebbe volare, lo Spirito Santo che invocato insieme ogni giorno renderebbe piane le vie più scoscese e farebbe sentire vicini anche quando a dividerli c’è un oceano.

All’inizio questo non lo capimmo e eravamo contenti del fatto che il Signore ci concedesse la grazia di perdonare l’altro e di non tenere il muso, salvo poi, quando la misura diventava colma riprendere tutto ciò che ci eravamo lasciati alle spalle.

Facevamo come quei creditori che abbonano il debito ma non trascurano occasione per ricordartelo.

La memoria delle offese ricevute è il più grande ostacolo all’ingresso della misericordia di Dio.

Dicevo della nostra difficoltà a condividere Dio, ad unirci nella preghiera, perché non riuscivamo a perdonare e a perdonarci per quello che avremmo voluto essere e che non eravamo.

L’invito a pregare insieme per una coppia in difficoltà, rivoltoci in occasione di un incontro pastorale per la Famiglia, fu lo stimolo a cambiare abitudine.

Se fino a quel momento eravamo convinti che saremmo stati migliori se l’altro fosse stato migliore, pian piano ci accorgemmo che di fronte a Dio non c’erano migliori o peggiori, essendo tutti figli e fratelli in Gesù.

Il Padre nostro, recitato a fatica, masticato, almeno le prime volte, ci ha introdotti nell’amore del Padre che guarda i suoi figli con lo stesso occhio benevolo e che non ha badato a spese perché ce ne convincessimo.

Gesù insieme con noi, insegnandocela, pronuncia le parole che più ci coinvolgono: ”Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”

Ricordo il brivido freddo che mi attraversava le ossa quando le pronunciavo, pensando di essere sola, dimenticando che Gesù era venuto a donarci lo Spirito per rendere possibile ciò che umanamente è impossibile: amare come lui ci ha amati.

E il miracolo pian piano lo stiamo vedendo, ogni volta che ci mettiamo insieme a pregare.

Come possiamo farlo se non ci siamo perdonati a vicenda?

Come possiamo avvicinarci al sacro banchetto se non abbiamo aperto il cuore all’altro, permettendogli di vedere e toccare le nostre ferite e di farci guardare e curare da tutti quelli che mangiano lo stesso pane e si dissetano alla stessa sorgente?.

Il segno di una comunità unita nell’amore, il segno che il Corpo di Cristo non è disgregato è in quel pregare vicini, fianco a fianco, sia che l’Eucarestia la si celebri in Chiesa alle sette di mattina, sia che la si consumi in casa alla mensa comune o nel talamo.nuziale.

Gesù è venuto a mostrarci come si fa, non solo quando ha scelto una mangiatoia o una stalla per farsi adorare, ma soprattutto quando si è tolto le vesti e ha indossato il grembiule per lavarci i piedi, che presuppone uno stare più vicini di quanto umanamente siamo in grado di sopportare, sia che li laviamo sia che ce li lasciamo lavare. I piedi, s’intende.

Chiediamo al Signore che ci dia l’umiltà e la perseveranza per fare tutto questo, che è poi la strada maestra per la Santità.

Con questo augurio vi lascio, e vi do appuntamento alla prossima settimana, speriamo insieme a Gianni in carne ed ossa.

Canto: Canto: Dio ha tanto amato il mondo (CD – “Risorto per amore” 10)

La scala di servizio

37 anni fa ci siamo sposati.

Ricordo che, appena usciti dalla chiesa, scoppiò un temporale, tanto violento, che facemmo in tempo in tempo a entrare in macchina e metterci al sicuro.

Gli invitati, invece, se la presero tutta la pioggia, sì che, arrivarono al luogo scelto per il banchetto, non "travestiti da matrimonio", come è solito dire Giovanni, quando vede le persone cambiare faccia e look in queste occasioni.

L’acqua aveva appiattito le messe in piega, lavato i trucchi delle signore, reso straccetti di poco conto le sontuose toilettes di seta acquistate per l’occasione.

Durante il tragitto che ci portava al ristorante, non si vedeva nulla, tanta era l’acqua che scendeva dal cielo, da pensare che la fortuna, in abbondanza, si sarebbe riversata su di noi.

"Sposa bagnata, sposa fortunata" si dice infatti dalle nostre parti.

Ma a dire la verità noi non ci siamo bagnati, perchè, una volta arrivati alla meta, abbiamo scelto la scala di servizio coperta, invece della lussuosa e panoramica scalinata scoperta che immetteva nell’hotel prestigioso, destinato alla festa.

A un anno dalle nozze si sono aperte veramente le cateratte dal cielo per la mia malattia che ci colse impreparati, dopo la nascita del nostro primo, e rimasto unico, figlio.

Abbiamo pensato che sarebbe stato meglio bagnarci prima; forse avremmo evitato quella catastrofe che ci avrebbe condizionato la vita.

Ci siamo sfibrati, lottando fianco a fianco, ma mai guardandoci negli occhi, in quella immane battaglia contro la pioggia incessante che ci impediva di vedere.

Per 30 anni abbiamo pensato di potercela fare da soli.

Poi abbiamo incontrato il Signore, la sua acqua viva che non toglie la vista, ma che squarcia le tenebre delle acque inquinate del mondo.

Oggi, ripensando a quella giornata, mentre insieme siamo andati a ringraziare il Signore e a fare la Comunione, ci siamo detti che quella pioggia è stata provvidenziale, perchè ci ha fatto cercare la scala del servizio, per non bagnarci e desiderare di stare insieme, specie quando scoppiano i temporali.

La trasmissione

Questa è la trasmissione che è andata in onda , oggi alle 11, così come la leggete, grazie  all’intervento provvidenziale di Splinder, su cui volevo postarla prima di uscire di casa.

Questo imprevedibile folletto, ha sconvolto l’ordine degli interventi miei e di mio marito, distinti dal carattere (normale-io,corsivo-mio marito) come li avevamo programmati, per un improvviso e inspiegabile "copia e incolla dove voglio io". Non avendo il tempo per recuperare il lavoro preparato, per il blak-out della stampante, essendo già le 10.45, ho pregato che quello che andavamo a leggere avesse almeno un senso. Valutate voi.

Io intanto ringrazio il Signore  perchè, anche questa volta, ci ha aiutato a mettere ordine alle idee , in maniera così inusuale, ma sempre provvidenziale.

 

FAMIGLIA :SEGNO DI SPERANZA
Rubrica radiofonica a cura di Gianni e Antonietta
12 gennaio 2008
Canto: “Cristo è risorto veramente” (Risorto per amore – CD1)
Saluti
Dopo aver vissuto il grande mistero e lo stupore del Natale e dopo aver contemplato assieme ai magi la natività, ci siamo imbattuti in una festa che ci mostra un Gesù improvvisamente cresciuto, una festa che ci propone una sorta di carta d’identità del bambino che abbiamo contemplato, adorato, per quello che sarà il suo ministero, il suo annuncio, la sua presenza in mezzo agli uomini.
E’ il Padre stesso che ci presenta il suo figlio prediletto, come suggello della sua alleanza con l’umanità, e, quasi, ce lo consegna accompagnandolo con una benedizione.
Il festeggiato si è fatto grande, il grande sconosciuto delle feste Natalizie si è scomodato ed si è messo in fila alla cassa, per pagare di persona il dono giusto per noi.
Il Battesimo di Gesù conclude le feste, perchè il dono sia efficace.
Lui, che si è donato a noi nella mangiatoia ed è diventato pane nella casa del pane, Betlemme, è necessario che si faccia battezzare da Giovanni Battista.
Straordinario questo Dio che si mete in fila con gli altri e aspetta il suo turno per fare una cosa a prima vista irrazionale, incomprensibile.
Ma, riflettendo, abbiamo capito che per fare un regalo ti devi mettere nei panni dell’altro, devi traslocare nei suoi bisogni, nella sua casa e vedere cosa gli manca.
Il Battesimo prevede tre immersioni nell’acqua; tanti giorni ci vollero prima che Gesù risuscitasse.
Ci siamo chiesti cosa ha fatto nel frattempo e abbiamo trovato la risposta. E’ sceso negli Inferi, conoscendo la massima distanza dal Padre, per portare la buona notizia, il dono, anche a quelli che non avevano avuto modo di conoscerlo.
Canto: “Gioisci figlia di Sion” (Risorto per amore – CD 7)
Quando battezzammo nostro figlio non ci preoccupammo di approfondire la cosa. Per noi il Battesimo era il lasciapassare per il Paradiso pensando che a noi nulla competesse , se non il portarlo in chiesa e fargli una festa.
Ora che don Gino ci ha affidato le coppie che chiedono il Battesimo per i loro figli è la prima cosa che diciamo, premettendo che abbiamo una grande esperienza di come non si devono fare le cose e una piccola ma importante esperienza di come si devono fare.
Le situazioni, anche le più pesanti possono trasformarsi in occasione straordinaria di grazia, se facciamo entrare Gesù nella nostra casa o meglio entriamo nella sua, che è poi quella in cui ci ha riammesso con il Sacramento dell’iniziazione cristiana.
Solo 7 anni fa, se ci chiedevano cos’erano i Sacramenti, non avremmo saputo cosa rispondere.
Ora non abbiamo dubbi, perchè abbiamo sperimentato che essi sono doni che fa Dio all’uomo per vivere bene su questa terra e trasformare la sua vita mortale in vita eterna.
Al bimbo si fanno regali per l’occasione, ma è necessario che qualcuno glieli scarti, glieli metta in mano, ne conosca le caratteristiche, glieli faccia usare.
Nel pacco che Dio ci fa recapitare attraverso i genitori e i padrini quel giorno, c’è l’occorrente per non smarrirsi, per arrivare sani e salvi a destinazione.
I genitori e i padrini hanno il compito di scartare il regalo, di prendere ciò che vi è contenuto: fede, speranza e carità e mettersi d’impegno per trasmetterle al piccino , man mano che cresce, adattando le parole all’età come si fa per il cibo, che all’inizio si dà liquido, poi si omogenizza, poi si fa in piccoli pezzi perchè il bimbo lo possa digerire.
Trasmettere la fede, mantenere viva la speranza, testimoniare l’amore è compito di ogni genitore, di ogni educatore, di ogni persona che non si accontenta di fare regali ai propri figli solo a Natale, alla Befana e al compleanno, ma vuole che ne abbiano a godere tutta la vita.
Con il Battesimo diventiamo a tutti gli effetti figli di Dio, e non fa differenza che siamo stati adottati, perchè, a farci caso, anche noi uomini che siamo cattivi, i figli adottivi li trattiamo meglio di quelli naturali, perchè si pensa sempre che sono deboli e hanno bisogno.
E siccome Dio é più buono di noi, abbiamo detto a Giovanni, non chiama aiutanti il giorno di Natale o della Befana, ma si è messo all’opera Lui stesso per portarci i regali, da quando Adamo ed Eva, i nostri progenitori si sono allontanati da casa, dalla sua casa.
Il Signore, con il sacco pesante sopra le spalle, si è messo alla ricerca dell’uomo. Come un ladro pasticcione si è dimenticato di cancellare le tracce che potevano portare a Lui, anzi ha fatto di tutto perchè ci accorgessimo del suo passaggio. Ha vagato a lungo , ma l’uomo non aveva una casa, ecco perchè si è lasciato sfuggire tante meraviglie da quel sacco ad arte bucato.
Ha sparpagliato per l’universo frammenti di paradiso, perchè a tutti venisse voglia di tornarci.
Ogni tanto fuoriusciva, strada facendo, uno scintillante, una pietra preziosa da quello scrigno caricato sopra le spalle, un fiore, un sorriso, un abbraccio, una carezza.
Lui, la Befana del cielo si è messo in viaggio da quando ha pensato a noi, da quando ha cominciato a raccontarci le favole per toglierci la paura del buio e farci sprofondare nel calore delle sue braccia.
Le sue favole sono tutte scritte nel libro che ci ha consegnato, la Bibbia, ma molte ha lasciato che le raccontasse il vento, il sole, il mare, tutte le stelle, perchè ci sono mamme che non ce l’hanno quel libro e i loro figli non saprebbero dove trovare i segni della presenza di Dio.
Poi i suoi piccoli sono cresciuti e non si sono più accontentati, come capita anche tra noi.
I bambini, man mano che crescono, vogliono sempre di più e i genitori non riescono a tener dietro alle loro richieste.
Dio non ha mai smesso di lavorare come fanno tutti i papà e le mamme, perchè imparassimo a usare quanto era suo, senza danneggiarlo, perchè la sua casa , era destinata ad essere anche la nostra.
Come poteva permettere che la sciupassimo, quando sapeva che in quella avremmo dovuto abitare per sempre? Eppure lo abbiamo fatto.
Dove avrebbe potuto deporre i regali se all’uomo non ricostruiva la casa?
Ecco perchè è venuto ad abitare tra noi, perchè nel suo cuore ci ritrovassimo a casa.
Canto: “Cristo è risorto veramente” (Risorto per amore – CD1)
Per questo abbiamo pensato che, argomento di questo incontro, poteva essere il Dono che ci porta Lui, contrapposto ai doni che il mondo vuole proporci, il Battesimo, che ci permette di rientrare nella sua casa, da cui si allontanarono i nostri progenitori.
In fondo, in questo tempo che ci siamo lasciati alle spalle, siamo andati in overdose di regali, fatti e ricevuti, se siamo tra i fortunati.
I piccoli, certo, lo sono stati, perchè, a distanza ravvicinata, hanno preso i regali da Babbo Natale e dalla Befana, che hanno poca o nessuna attinenza con quello di cui vogliamo parlarvi, a meno che non ci sforziamo di trovare l’aggancio giusto. Ma non è facile, specie se si ha a che fare con dei bambini.
Fin quando sono piccini, li si possono un po’ imbrogliare e loro, che sono furbi, volentieri evitano di fare domande imbarazzanti, perchè gli fa comodo credere che basta scrivere la letterina e promettere di fare i buoni, per ottenere quello che vogliono.
Il problema è, se mai, cercare, negli appartamenti dove si vive blindati, isolati dal mondo, un’apertura, per farci passare i regali. Almeno quelli.
Ma fuor di metafora un camino o il buco dell’aria condizionata, un balcone o una scala per arrampicarvisi si trova sempre, anche se è quello di un nonno, di uno zio, di un amico a cui sta a cuore la riuscita dell’operazione, che si presta, volendo anche a trasformarsi in uno dei due personaggi in questione.
Giovanni ha detto, guardando il ben di Dio che gli era piovuto dal cielo: “ Il prossimo anno faccio il cattivo, tanto Gesù i regali me li porta lo stesso”.
Tempo addietro la stessa frase mi era servita per dire che Gesù è buono e che continua a volerci bene, anche quando facciamo i cattivi. Basta decidere di fare i buoni, di riaccendere negli occhi gli scintillanti, come chiamiamo la luce che vi sprizza dentro, quando non siamo arrabbiati.
Meno male che Babbo Natale, alias nostro figlio, il papà, si è scordato di comprare le pile, alla pista, l’ennesima, anche se questa è la reclamizzatissima di hot-wheels, che non entra neanche dentro la sala e l’ha dovuta montare a casa nostra, in attesa di farle spazio.
Così gli abbiamo potuto dire che non era un caso e che a fare i cattivi non ci si guadagna.
Per le pile ha dovuto aspettare che riaprissero i negozi il 27, ma poi si è dovuto mettere a cercare le macchinine che aveva usato, nel frattempo, inventandosi una pista alternativa sul letto del fratellino.
E ci è voluto un giorno ancora per ritrovarle, seppellite sotto i giocattoli, per poterci fare una gara.
Che il digitale terrestre, arrivato a casa dei nonni, che poi siamo noi, comprato per tenerlo buono e fargli vedere i cartoni, quando alla Rai non c’è Trebisonda, sia andato in corto circuito, non appena attaccata la spina, ha fatto riflettere anche noi che forse quei soldi li potevamo spendere in modo più utile e intelligente.
Meno male che, navigando su Internet, che non è solo una diavoleria, abbiamo trovato questa storia a proposito della Befana. Almeno siamo riusciti a trasmettergli qualcosa attinente alla festa in questione.
I Re Magi stavano andando a Betlemme per rendere omaggio al Bambino Gesù. Giunti in prossimità di una casetta decisero di fermarsi per chiedere indicazioni sulla direzione da prendere.
Bussarono alla porta e venne ad aprire una vecchina. I Re Magi chiesero se sapeva la strada per andare a Betlemme perchè là era nato il Salvatore. La donna che non capì dove stessero andando i Re Magi, non seppe dare loro nessuna indicazione.
I Re Magi chiesero alla vecchietta di unirsi a loro, ma lei rifiutò perchè aveva molto lavoro da sbrigare.
Dopo che i tre Re se ne furono andati, la donna capì che aveva commesso un errore e decise di unirsi a loro per andare a trovare il Bambino Gesù. Ma nonostante li cercasse per ore ed ore non riuscì a trovarli e allora fermò ogni bambino per dargli un regalo nella speranza che questo fosse Gesù Bambino.
E così ogni anno, la sera dell’Epifania lei si mette alla ricerca di Gesù e si ferma in ogni casa dove c’è un bambino per lasciare un regalo, se è stato buono, o del carbone, se invece ha fatto il cattivo.
Canto:Voglio vedere il tuo volto” (Voglio vedere il tuo volto – CD 1) 
Noi grandi di regali ce ne siamo fatti ben pochi, visto come vanno le cose, non solo per noi.
Da tempo, del resto, il problema è, non riceverli, ma farli, tra gli spintoni, le luci, la musica, il sorriso forzato delle commesse, l’ansia di non arrivare.
Da quando il Dono speciale, inaspettato, straordinario, lo abbiamo trovato la notte della Befana di 8 anni fa, non possiamo dimenticarcelo, associandolo alle croci che numerose ci hanno interpellato negli anni precedenti, proprio nello stesso periodo.
La malattia e la morte, infatti, negli anni, sono venute a visitarci con una puntualità sconvolgente, proprio in quella data.
Non possiamo non ricordare che la malattia di Antonietta esplose con violenza proprio in quei giorni, come quella che portò, anni dopo, suo fratello alla morte.
Mio padre il 5 gennaio del 1995 e sua madre i 7 gennaio del 2006 ci hanno lasciato.
Strane coincidenze che non possiamo non collegare ad un’altra data, quella che ci ha fatto riconciliare con tutte le feste e ci convince che il Natale non l’ha inventato il diavolo, come a volte ci scappa di dire quando il mondo ci risucchia con i suoi finti doveri.
Così scriveva Antonietta sul suo diario, anni addietro, a commento di queste strane coincidenze
Il 5 gennaio del 1977 era la data fatidica, per rimuovere il gesso che mi aveva imbalsamato 10 mesi prima.
Ma ad aspettarmi non c’erano ali che mi facessero librare in volo come una farfalla, finalmente libera dal bozzolo.
Il rumore della sega elettrica che si muoveva sul mio corpo imbalsamato non disturbava le mie orecchie, tutte protese a sentire il tonfo di ciò che era diventato ormai inutile sostegno.
Mi svegliai dal sogno quasi subito.
Perché non riuscivo a stare in piedi?
Questo mi portò la Befana con un giorno d’anticipo quel 5 gennaio, dopo un anno di inenarabili sofferenze. Ne dovevo fare di strada per incontrare il dono giusto, fatto su misura per me, un altro 5 gennaio!
Dovevo mettermi in viaggio con i Magi e con loro accettare la fatica della ricerca, la stanchezza del cammino, il tempo dell’attesa.
Loro sono stati i battistrada per incontrarlo.
Era il 5 gennaio del 2000, quando ho visto la stella fermarsi sulla grotta
Il 5 gennaio finalmente sono entrata dentro la grotta!
Erano secoli che camminavo, secoli, non il tempo che dista dal Natale alla Befana…
Mi sono fermata il 5,…il Signore ha avuto pietà… non mi ha fatto camminare ancora… un giorno prima sono arrivata, ma Lui era lì ad aspettarmi….
Erano 2000 anni che mi aspettava…nella messa, la sera dell’Epifania.
Ma quel dono che Antonietta scartò per prima, non lo tenne tutto per sè. Il suo sguardo, le sue parole, la sua persona, tutto parlava di una luce che la faceva risplendere.
Così anch’io, incuriosito, mi sono messo in cammino come la Befana della storia che vi abbiamo raccontato.
E adesso siamo qui in due a parlarvi del fatto che Dio non fa preferenze di persone e che a tutti è dato di arrivare, contemplare, adorare il Signore: Magi e pastori, ricchi e poveri, grandi e piccoli.
Grazie a Dio, l’Epifania tutte le feste non se le porta via, perché, se i doni del mondo rispettano i calendari, per i suoi, tutti i momenti sono propizi, perché il tempo, morendo, l’ha trasformato in occasione perenne di grazia.
Non a caso la liturgia delle feste si conclude con la domenica successiva all’Epifania, in cui si celebra, il battesimo di Gesù, inizio e fondamento della festa più grande, preparata da Dio per ogni uomo.
La Chiesa, per paura che, riponendo in soffitta il Bambinello, ci mettessimo pure ciò che ci porta, per ricordarci che non c’è momento che non ce lo dia, ce lo presenta mentre si mischia alla folla, per ricevere da un uomo, Giovanni, ciò che lui è venuto a portare, rinnovando quel lavacro di acqua, con lo Spirito su di lui effuso.
Tu vieni da me? “ dice Giovanni, quando vede Gesù.
Gesù, nato tra gli escrementi, in una stalla, a Betlemme, viene da noi, viene incontro all’uomo, nel fango del fiume Giordano, allora, nella nostre case in disordine e maleodoranti, ora.
Tu vieni da noi, Gesù, ci viene da dire, non siamo noi che ti abbiamo scelto, sei tu che mi sei venuto a cercarci . Che cosa straordinaria, Signore, che tu ti sia ricordato di noi!
Il regalo è tanto più bello, quando giunge inaspettato, quando ti accorgi, scartandolo, che è quello che ti serviva, quello che non osavi nemmeno sperare .
Che bello Signore continuare, anche ora che siamo diventati grandi, a scartare i tuoi regali, che non finiscono mai, regali di cui non si butta niente, neanche il contenitore.
Certo perchè il contenitore che ti sei scelto è di carne e si chiama Maria, la madre che vuoi condividere con noi.
Grazie Signore per tua madre, grazie della pubblicità gratuita che abbiamo letta sulla Sacra Scrittura, grazie, perchè non paghiamo un prezzo aggiuntivo per lo sponsor, anzi il contrario.
Signore quanto sei grande, quanto infinita è la tua misericordia!
Lui deve crescere e io diminuire” dice Giovanni Battista.
Lo sappiamo, Signore, che noi dobbiamo diminuire e tu crescere, altrimenti come possiamo continuare a fare regali ai nostri figli, sì che non rimangano senza quando diventiamo vecchi o non ci siamo più?
Che straordinaria Befana sei Signore Dio Padre Onnipotente!
Saluti
Canto: “Cristo è risorto veramente” (Risorto per amore – CD1)

Lampada ai miei passi è la tua Parola

La luce

 

“Ignorare le Scritture è ignorare Cristo”, diceva San Girolamo, appassionato studioso della Bibbia. “Perciò è importante che ogni cristiano viva in contatto e in dialogo personale con la Parola di Dio, donataci nella Sacra Scrittura”, ha spiegato il papa, nell’udienza del 14 novembre, commentando la figura del grande santo.
“Ama la Sacra Scrittura e la saggezza ti amerà; amala teneramente, ed essa ti custodirà; onorala e riceverai le sue carezze. Che essa sia per te come le tue collane e i tuoi orecchini” E ancora: “Ama la scienza della Scrittura, e non amerai i vizi della carne”.
Così si esprimeva l’insigne biblista.
L’anno che si apre non a caso è chiamato “Anno della Parola”, volendo la Chiesa invitare i credenti a famigliarizzare con la Parola di Dio, per incarnarla nella propria vita.
La Parola è la traccia che lo Spirito ci ispira per gli incontri sulla famiglia, alla radio, da più di tre anni.
Quando pensammo di fare una trasmissione di questo genere, non sapevamo che stavamo toccando il cuore di Dio, il suo tesoro più grande, il suo sogno, e che dovevamo accostarci in punta di piedi al grande mistero che abita la coppia.
Dopo aver io condotto, da sola, una trasmissione sulla mia storia personale, “Dal diario di Antonietta”, sentii forte l’esigenza di coinvolgere anche mio marito in questo progetto, che era quello di parlare di come cent’anni di solitudine possano trasformarsi in un bellissimo romanzo dal titolo “I promessi sposi”
Avevo in mente quello scritto da Alessandro Manzoni, che per anni avevo letto e commentato agli alunni e che avevo sempre guardato come una bellissima storia .
“Peccato che fosse inventata”, dicevo, prima di sperimentare che siamo tutti promessi sposi al Signore, se viviamo, la coniugalità, la fedeltà, l’amore donato gratuitamente all’altro, come Lui ci ha mostrato con il Vangelo della sua vita.
Quando presentammo il progetto, lo bocciarono in tanti, perché volevamo portare in trasmissione la nostra storia di coppia, misera, piccola, ma per noi straordinaria, perché riconciliata e redenta da Cristo.
Ci fu detto che non saremmo andati avanti per più di 3 o 4 settimane, perché il racconto delle vicende che ci riguardavano, si sarebbe esaurito e non lo si poteva inserire in un palinsesto con cadenza settimanale o quindicinale come oggi accade.
Ci vuole una terza persona che vi stimoli e vi ponga domande, altrimenti non va.
Noi abbiamo creduto che, se si mette la propria vita al servizio del Signore, sicuramente non si rimane in panne, anche se ogni volta è un batticuore, una sorpresa, mentre passano i giorni e si avvicina il momento in cui dobbiamo andare in trasmissione.
Con il lavoro di mio marito, con gli impegni in famiglia, in parrocchia, nel gruppo, con i nipotini che vogliono battere i tasti del computer e ti cancellano tutto, dopo che faticosamente la notte cerchi di mettere insieme un discorso sensato …. quando pensi di avere del tempo a disposizione e ti chiamano perché c’è qualcuno che ha bisogno di te, oppure, ti colpisce un lutto com’è accaduto questa settimana, che una carissima amica ci ha lasciato, con tante domande in sospeso e il desiderio di starle vicino, attraverso i suoi parenti più stretti, che da tempo erano diventati anche la nostra famiglia.
Abbiamo cominciato, facendo un atto di fede, ripetendolo ogni volta, specie quando è impensabile che sia possibile esserci, il mercoledì, con il corpo, con la mente, con il cuore.
Con questo spirito continuiamo ad andare avanti, ogni volta aspettando che la Terza persona c’interroghi e ci inviti a rispondere.
La terza persona, l’abbiamo in seguito capito, è lo Spirito Santo, l’amore che deve abitare la coppia, l’amore che ti suggerisce cosa dire e quando dire.
Martedì sera è accaduto il miracolo, l’ennesimo, in questi tre anni. Gli appunti sparsi si sono compattati intorno alla parola di Dio, in tempo per essere puntuali all’appuntamento il giorno dopo, alle undici.
Lo spunto ce lo ha dato Giovanni con quella storia della sedia per Gesù, una sedia dove si sarebbe potuto sedere, mentre mangiavamo, per rendersi visibile a noi.
Giovanni aveva trovato la soluzione, ma fino a quando?
Ho pensato al cugino di mio marito che ha avuto bisogno di assistenza in questi ultimi tempi, da quando è stato costretto all’immobilità per una caduta.
Ho pensato che il lavoro più difficile lo faceva lui, perché il cugino è un barbone e non si lava e puzza.
Io mi sentivo brava a fargli da mangiare, ma a sporcarsi era sempre lui, che si occupava di portargli il cibo e di provvedere a che si cambiasse e si lavasse.
Ho anche pensato a tutte le precauzioni prese, quando me l’ha portato a casa dopo la rimozione del gesso. Ho nascosto i cuscini, ho isolato tutto quello che avrebbe toccato e mi sono messa in attesa che se ne andasse.
La sedia vuota di Giovanni fino a quando lo avrebbe convinto che Gesù era con noi?
“Qualunque cosa avrete fatto a questi piccoli l’avete fatta a me….dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati…”.Le 7 opere di misericordia.. mai mi erano sembrate un dovere così urgente e prioritario.
Ho pensato che se io avessi permesso di sporcarmi i cuscini della sedia al cugino barbone, avrei reso visibile il Signore agli occhi di Giovanni.
Più o meno queste le cose che siamo andati a dire alla radio.
Voglio ringraziare il Signore perché non ci lascia mai a corto di argomenti.
(Ringrazio l’amica blogger Diggiu per avermi fornito lo spunto per questo post)

22 Famiglia oggi:riflessioni di coppia

 


Rubrica radiofonica a cura di Gianni e Antonietta
Canto: Cristo è risorto veramente (CD – “Risorto per amore” – 1)

Carissimi amici, benvenuti all’ascolto di questa trasmissione: dagli studi di Radio Speranza vi salutano Gianni e Antonietta.
La scorsa volta ci siamo lasciati con una preghiera, che si concludeva pressappoco così: “ Signore perdonaci, quando ai nostri figli parliamo male di te o di te non diciamo nulla”. Vogliamo partire da queste parole per ribadire quanto sia importante il ruolo dei genitori nella trasmissione della fede, che non consiste tanto nel numero delle preghiere insegnate ai bambini, o delle messe a cui li portiamo ad assistere, quanto nell’importanza che noi diamo a Dio, quanto ci lasciamo guidare da Lui.
Marco, il figlio di una coppia di nostri amici, che da poco ha compiuto otto anni e che si sta preparando alla Prima Comunione, ha capito tante più cose di quante gliene abbiano insegnate. Infatti, guardando la causa e non gli effetti di ciò che in vita ha fatto Madre Teresa di Calcutta, aveva detto, spiazzando tutti, che più dell’amore, dell’abnegazione, della solidarietà, questa piccola grande santa donna ci ha insegnato che con Gesù si può fare tutto. Se Marco ha parlato così, sicuramente c’è qualcuno che lo ha portato a pensare in quel modo.
Senza la domenica non possiamo vivere” recitano le locandine affisse all’ingresso di tutte le chiese in quest’anno dedicato all’eucaristia.
Senza la domenica certo non possiamo vivere, lo possono affermare tutti, atei e credenti, quando a questa parola si associa il riposo, il divertimento, la partita o la gita fuori città.
Ma, come spesso succede, il significato delle parole non lo conosciamo, né vogliamo andarlo a cercare, come è avvenuto a Strasburgo, allorché i parlamentari hanno stilato la Costituzione europea, senza far menzione, di proposito, delle radici cristiane dell’Europa: Ma poi si sono contraddetti, apponendo la data in calce al documento, che, guarda caso, fa riferimento ad un evento cristiano che ha cambiato la storia. Così è per la domenica, che pochi sanno cosa significa, pur amandola più di qualsiasi altro giorno della settimana.
E’ ora che cominciamo a dare il giusto significato alle parole che insegniamo ai nostri figli.

La liturgia di giovedì della terza settimana di quaresima fa incontrare Filippo, apostolo di Gesù, con un etiope, amministratore della regina Candace, di ritorno da Gerusalemme.
L’uomo, che stava leggendo senza comprenderlo un passo del libro del profeta Isaia in cui si profetizzava Gesù, viene avvicinato da Filippo, che, guidato dallo Spirito Santo, si trovava a fare la stessa strada.
Questi salì sul suo carro e spiegò il significato delle versetto che l’uomo stava leggendo, annunciandogli la buona novella.
Immediatamente dopo la spiegazione della Scrittura, l’etiope sentì il desiderio di essere battezzato.
Dal numero di Cristiani che vivono in Etiopia ancora oggi, possiamo dedurre che quella spiegazione ha portato molto frutto, nella terra in cui quest’uomo viveva.
Ciò che sappiamo, o abbiamo, non possiamo tenercelo per noi, né condividerlo solo con chi ci piace.
Non possiamo decidere di frequentare le persone, solo quando queste ci vanno a genio. Gesù la sera di Pasqua, per cenare con i suoi apostoli, non ha aspettato che si convertissero, che diventassero più fedeli, più buoni. Gesù prescinde da ciò che facciamo, perché la sua attenzione e la sua cura vanno a ciò che siamo, figli di uno stesso Padre, suoi famigliari.
L’etiope, che sembrava tagliato fuori dall’annuncio di salvezza, per via del luogo e della cultura diversi da quella in cui Gesù è nato e cresciuto, diventa il simbolo di tutti quelli che desiderano sapere e che aspettano che qualcuno li aiuti a comprendere.
Tutta questa chiacchierata per ribadire la necessità, l’imprescindibilità della missione, dell’annuncio da parte di chi ha accolto la fede.
Quando diciamo che a messa non ci andiamo perché il prete, o chi la frequenta, non ne è degno, non facciamo altro che anteporre gli uomini a Cristo e pensare che la Chiesa sia una comunità di perfetti e non di perfettibili, comunità di salvati che è chiamata a sua volta a salvare.
La Chiesa, famiglia dei figli di Dio, può e deve trovare il senso e il desiderio di essere Chiesa nella famiglia umana, la prima e più importante cellula della società, chiamata da Dio a rappresentarlo su questa terra.
La trasmissione della fede è pensata, a torto, come appannaggio e compito delle istituzioni ecclesiastiche, non dando alla famiglia, il valore e la funzione che invece le sono propri.
Ne parlavamo la volta scorsa, a proposito della collaborazione con il parroco da parte di coppie di sposi cristiani, che vivono la grazia del Sacramento del Matrimonio, per la preparazione dei genitori al battesimo dei propri figli.
Ma non bastano uno o due incontri per convincerli che ai figli, prima degli altri, ci devono pensare loro, per tutto ciò che riguarda la crescita materiale e spirituale, e che non possono delegare altri a dire o fare cose che poi vengono contraddette dai loro comportamenti abituali.
Quante cose si possono fare con Gesù!“ è il messaggio che deve passare ai figli, che Gesù è il figlio di Dio e che al di sopra di tutti non ci siamo noi, le nostre idee, i nostri giudizi e pregiudizi, ma Chi ci ha dato la vita e continua a donarcela ogni giorno, in modo imprevedibile, mai scontato, meraviglioso.
Senza la domenica non possiamo vivere” Se riuscissimo solo a trasmettere ai nostri figli la gioia di vivere nel modo giusto la domenica, avremo assolto alla parte più importante del nostro compito.
Dominicum, in latino, è un aggettivo neutro che significa: “dono del Signore, cosa del Signore”.
Ebbene, senza il dono del Signore non possiamo vivere, senza l’Eucarestia non possiamo vivere.
L’Eucarestia è il Corpo di Gesù, donato al mondo perché noi possiamo fare la stessa cosa con i fratelli: donarci agli altri, per tutto ciò che sappiamo e possiamo fare.
La domenica si chiama così perché il giorno dopo il sabato, il giorno della resurrezione di Cristo, è il più grande regalo che abbiamo ricevuto. Dio si riposò il settimo giorno, cioè il sabato, che per gli ebrei era il settimo giorno della settimana.
Gesù, risorgendo il giorno dopo il sabato, ha cominciato a contare il tempo dalla domenica, non facendone l’ultimo, ma il primo giorno della settimana del popolo redento dal Signore. La domenica è il giorno in cui il Signore si dona tutto a noi, il giorno in cui ci dà l’opportunità di godere più a lungo e più intensamente i misteri della Pasqua.

Quando arrivava la domenica, da piccoli, eravamo tutti eccitati, perché era un giorno speciale.
Facevamo il bagno e indossavamo i vestiti della festa per andare tutti insieme alla messa. Mamma si alzava presto per preparare il pranzo e il suono delle campane ci trasmetteva la gioia di un giorno diverso dagli altri, che vedeva la famiglia finalmente riunita.
Una volta cresciuti, abbiamo dimenticato le care abitudini, forti della libertà di scegliere dove e quando partecipare alla Messa. La liturgia in latino non ci aiutava, né gli adulti ne sapevano tanto di più, affiancando alle parole incomprensibili, dette dal sacerdote, le tante devozioni proliferate nel frattempo.
Siccome ci annoiavamo, cominciammo a trovare le scuse per sottrarci al martirio di assistere a cose per noi difficili da capire. Fino a quel momento il senso lo aveva dato l’andare insieme, tutta la famiglia riunita, a fare la stessa cosa. Ci dissero che l’importante era arrivare prima che si scoprisse il calice, per non fare peccato mortale e noi ci guardavamo bene dal farne, scegliendo però la Chiesa in base all’omelia: quanto più era breve, tanto più eravamo grati al sacerdote che non ci faceva perdere più tempo del necessario.
Diventare grandi comportò introdurre altre abitudini, fino a soppiantare quelle buone e sane che avevano caratterizzato la nostra infanzia: l’abitudine di studiare la domenica, quando eravamo studenti, per il lunedì, l’abitudine di preparare il lavoro per il giorno dopo, quando Antonietta correggeva i compiti, ed io studiavo progetti, l’abitudine di smantellare la casa per fare le pulizie, alle quali anche io partecipavo, volente o nolente, quando non le subivo.
Il senso di quella giornata si è andato perdendo e il posto per la messa, a distanza di tempo, ci siamo accorti di averla persa, specialmente da quando i supermercati e gli ipermercati ci hanno offerto di santificare le feste sull’altare del consumismo..
I nuovi santuari hanno preso il posto delle Chiese e le famiglie oggi si riuniscono lì, per cercare ciò di cui hanno bisogno. Per molto tempo anche noi siamo stati stregati dall’opportunità di fare acquisti in una giornata in cui i negozi erano chiusi e la chiesa non ci diceva più niente.
Vogliamo ringraziare il Signore perché ci ha aperto gli occhi e ci ha fatto sperimentare quanto grande sia il dono che ci ha lasciato, non per concludere la settimana, come siamo abituati a pensare, ma per cominciarla bene, ricordando che Gesù è venuto a trasformare il tempo finito degli uomini nel tempo infinito di Dio, risorgendo di domenica e dando inizio ad una nuova creazione.

La domenica è il giorno in cui non noi ci diamo a Dio, ma Dio si da a noi, riportando in vita dalla morte tutti quelli che si lasciano catturare dallo stupendo mistero di riconciliazione.
Ecco: il mistero della riconciliazione è l’Eucarestia alla quale partecipiamo.
Queste parole – mistero di riconciliazione – che si pronunciano durante la consacrazione, ci hanno colpito durante lo svolgersi di una messa senza omelia, una di quelle che un tempo ci avrebbero fatto felici, ma che oggi ci vedono storcere il muso. Eppure, se le parole della liturgia tutti i sacerdoti avessero la possibilità e la capacità e il desiderio di farle arrivare al cuore dell’assemblea, non ci sarebbe bisogno di aggiungere altro alla preghiera che accompagna la consacrazione del pane e del vino.
Ma, per arrivare a godere pienamente del dono che Dio ci fa in Gesù, è necessario seguire la scia dei discepoli di Emmaus, che hanno sentito il desiderio di invitare Gesù a fermarsi con loro solo dopo che sono stati guidati da Lui alla comprensione delle scritture. Quel pane che Egli spezzerà, una volta accettato l’invito, sarà ciò che lo farà riconoscere, e che trasformerà la tristezza in gioia, per aver incontrato il Risorto.

CANTO: Dalla tristezza alla danza (CD – “Risplendi Gerusalemme” – 12)

Abbiamo fatto esperienza di quanto sia stata deleteria la distinzione netta tra liturgia della parola e quella eucaristica che ha portato alla svalutazione della Parola di Dio, all’affievolimento della spiritualità delle persone, al vuoto devozionismo. Dobbiamo ringraziare il Concilio Vaticano II che si è fatto carico di riavvicinare il popolo di Dio, partendo dall’esigenza di farsi capire e far capire.
Oggi assistiamo alla riscoperta esaltante della Parola di Dio, che è stata rivalutata e della quale è stata evidenziata l’importanza e la bellezza, anche durante la celebrazione eucaristica, in sintonia con la mensa eucaristica.
Un testo di Sant’Agostino, veramente unico, dice: ”Chiedo a voi fratelli e sorelle, ditemi un po’: che cosa vi sembra essere maggiore, la Parola di Dio o il Corpo di Cristo? Se volete dire la verità, dovete rispondere che la Parola di Dio non è inferiore al corpo di Cristo. Di conseguenza, come facciamo grande attenzione perché non cada nulla per terra dalle nostre mani quando ci viene amministrato il corpo di Cristo, così dobbiamo prestare attenzione perché non cada dal nostro cuore la Parola di Dio che ci viene elargita, il che succede se pensiamo ad altro o ci mettiamo a parlare, invece di ascoltare. Chi ascolta con negligenza la Parola di Dio non è meno colpevole di colui che fa cadere a terra per negligenza il Corpo di Cristo.”
Vi è un altro insegnamento molto bello dei Padri della Chiesa che recita: ”Se dovessimo scegliere tra l’Eucarestia e la Parola di Dio, che cosa sceglieremmo?” Loro rispondevano: “Dovremmo scegliere la Parola di Dio, perché senza la Parola non potremmo capire l’Eucarestia, non sapremmo più cosa sia”
La Liturgia eucaristica è uno splendido itinerario di vita cristiana e vorremmo consigliarlo alle coppie che fanno fatica ad entrare in comunione, a raccontarsi, ad ascoltarsi. Se pensiamo a quante volte l’atto coniugale unisce i corpi ma non le menti, quante volte lo spirito soffre per ciò a cui non riusciamo più a dare un senso!
L’unione tra i coniugi avviene in modo perfetto solo dopo essersi messi in ascolto l’uno dell’altro, dopo che, attraverso le parole, conosciamo e ci facciamo conoscere.
Ci sembra interessante fermarci sui vari momenti della messa che preparano alla comunione.

La messa inizia con un segno di Croce, ad indicare che non si può camminare se non permettiamo che Dio entri e diventi protagonista della nostra storia.
Poi c’è la confessione dei peccati, che è un mettersi a nudo di fronte a Dio e ai fratelli, un mostrarsi deboli e peccatori, vulnerabili e imperfetti. Questa condizione, che prepara il sacrificio eucaristico, è anche la condizione perché due coniugi imparino a conoscere l’altro e ad accettarlo per come è.
Solo Dio può, nella sua infinita misericordia curare le nostre ferite, assolverci e perdonarci. Questo è il senso del “Signore pietà, Cristo pietà, Signore pietà”: solo Dio può renderci capaci di fare altrettanto.
La messa, ci siamo resi conto, è una splendida occasione per riflettere sugli inviti a pranzo o a cena che riceviamo, con la differenza che ad invitarci è Gesù. Quando siamo invitati siamo soliti prepararci per tempo, specialmente se la persona è di riguardo. Ci informiamo sui suoi gusti nel momento in cui cerchiamo qualcosa da portare, per non presentarci con le mani vuote. Pensiamo alla mensa attorno a cui la famiglia un tempo si riuniva e che sempre più spesso assiste alla sua disgregazione, perché manca il tempo o lo spazio per le parole, occupato dal telegiornale o dagli impegni veri o presunti dei suoi componenti.
La mensa della parola è quella che è venuta a mancare nella nostra civiltà, dove le parole si sprecano se devi scrivere SMS sul telefonino, mandarli magari in copia a tutti gli amici, senza spostarti né alzare lo sguardo su chi ti siede vicino. Adesso hanno inventato i telefonini per dare un volto alle parole. E’ un progresso, non c’è che dire, ma le parole, quelle che contano, dove sono andate a finire? Come si può trasformare la parola in cibo di vita?
Nella nostra chiesa, prima delle letture s’intona, lo “Shemà Israel”, che significa “Ascolta Israele”, il che è fondamentale per capirci qualcosa. Ascoltare, cosa che non siamo abituati più a fare, non perché abbiamo le orecchie tappate, ma perché non riusciamo più a fare silenzio sui nostri problemi, sulle nostre idee, sui nostri progetti, sulle nostre priorità. Non è questo il problema che interessa la maggior parte delle famiglie? Forse gli SMS li hanno inventati perché non si ha l’obbligo di ascoltare, quando si scrive.

Alla lettura del Vangelo segue l’offertorio, che non è altro che, dopo aver ascoltato cosa ha da dirci il nostro interlocutore, la presentazione di quello che possiamo donargli, poco o tanto che sia per collaborare ad un progetto comune, che è quello di camminare insieme. Questo è importante dirlo, specialmente alle coppie che decidono di sposarsi e che devono stabilire se vogliono la comunione o la separazione dei beni. La messa ci mostra quale aberrazione sia insita in quel decidere di separare i beni.
L’offertorio continua con il rito della Consacrazione, perché è Dio, attraverso Gesù che offre tutto se stesso per compiere il sacrificio perfetto, quello della riconciliazione di Dio con l’uomo.
Fate questo in memoria di me”. Il sacrificio di riconciliarci è il più grande a cui Dio ci chiama e il Padre Nostro, la preghiera che ci ha insegnato Gesù, che si conclude con: ”Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori” E’ un invito a perdonarci prima di fare la comunione: un invito, se pensiamo agli sposi cristiani, a sgombrare l’animo da tutti i pensieri che dividono dall’altro prima di donarsi reciproca- mente, mettendo in comune tutto se stessi, come ha fatto Gesù.
Poi la celebrazione si conclude con le parole: “Ite missa est”, che non significa “La messa è finita”, come i più intendono, ma “Ciò che vi è stato trasmesso, annunciatelo”. Ogni messa finisce con un mandato, perché quando la bella notizia del Vangelo arde nel cuore, non si riesce a tenerla per se e si sente insopprimibile il desiderio, il bisogno di comunicarla. .
Questo è un dovere per tutti, specialmente per i genitori che hanno chiesto il battesimo per i propri figli, per quei genitori che hanno a cuore la salute fisica e spirituale.dei figli.
Solo dando loro punti di riferimento stabili, questi non saranno tentati di cercarli altrove.
Così facendo sarà naturale per i nostri giovani dire, come Marco: “Quante cose si possono fare con Gesù!” e pregare senza vergogna insieme ai grandi il Salmo 22.

Il Signore è il mio pastore
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino,
per amore del suo nome.
Se dovessi camminare in una valle oscura,
non temerei alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.
Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici;
cospargi di olio il mio capo.
Il mio calice trabocca.
Felicità e grazia mi saranno compagne
Tutti i giorni della mia vita,
e abiterò nella casa del Signore
per lunghissimi anni.

Canto: Cristo è risorto veramente (CD – “Risorto per amore” 1)
 18 aprile 2005

21 Famiglia oggi:riflessioni di coppia

 


Rubrica radiofonica a cura di Gianni e Antonietta

Canto: Cristo è risorto veramente (CD – “Risorto per amore” – 1)

Carissimi amici benvenuti all’ascolto di questa trasmissione. Dagli studi di Radio Speranza vi salutano Gianni e Antonietta.
Man mano che andiamo avanti in questo servizio, sempre più ci rendiamo conto di quanto siano insufficienti le parole per annunciare il Vangelo, per accostarsi, senza profanarlo, al mistero racchiuso in ogni uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio.
Abbiamo in questi giorni assistito alla folla oceanica che, incurante del caldo, del freddo, della fame e della fatica ha sentito il desiderio insopprimibile di rendere omaggio al nostro pontefice, che nella compostezza immobile del corpo mostrava ai visitatori il rigido e freddo volto della morte.
L’immagine e la somiglianza con Dio non sappiamo se tutti l’hanno vista nell’uomo sofferente e crocifisso, più che nella straordinarietà della sua vita e del suo ministero.
Il numero straordinario di persone, di gruppi, paesi, città, nazioni, mobilitati per l’evento, ci ha portato a riflettere su quanta sete di Dio abbia la nostra civiltà, quanto senta il desiderio, l’esigenza di punti di riferimento forti e credibili.
Se i potenti della terra, dimenticando vecchie o recenti inimicizie, si sono dati appuntamento davanti ad una bara su cui era stato deposto un Vangelo, non è un caso. L’immagine delle pagine che venivano sfogliate dal vento sulla semplice e austera cassa di cipresso, mentre le rosse cappe dei cardinali fluttuavano nell’aria leggere, è profetica. La Parola di Dio che la Chiesa ha portato e continua a portare, mossa dal vento dello Spirito, è l’unica arma che il mondo conosce per trovare la pace.
Abbiamo pensato se questa considerazione che a noi pare ovvia, lo sia anche per tutti quelli che hanno partecipato ai funerali del papa. Se Marco, che si sta preparando alla Prima Comunione, avesse avuto modo di conoscere più da vicino le gesta del nostro pontefice come quelle di Madre Teresa di Calcutta, alla domanda su cosa ci ha lasciato, avrebbe risposto allo stesso modo: “ Con Gesù si può fare tutto”
E pensare che questo stupendo dono del Signore, questa creatura, a parere dei medici, sarebbe stato meglio che non nascesse per via del fatto che il fratellino era affetto da una rara malattia genetica, che avrebbe potuto colpire anche lui.
Marco, ogni giorno di più, stupisce per la ricchezza del suo mondo interiore, per la sensibilità e l’intelligenza di fronte alle cose di Dio.
Il mondo ha bisogno di piccoli e grandi profeti, ha bisogno di famiglie che insegnino ai propri figli a parlare il linguaggio di Dio, a riconoscerlo e a farlo proprio.
Chissà perché ci è venuto in mente di associare la figura del grande Papa a quella di un bimbo sconosciuto. La verità è che ogni uomo è profezia di Dio e, se le grandi imprese servono a catalizzare l’attenzione di milioni di persone per portarle ad ammirare lo splendido arazzo che il Signore ha tessuto attraverso persone particolarmente dotate, altrettanto possono fare le piccole e impercettibili gocce che trasudano dalle pareti delle grotte, quando insieme, raggrumandosi, riescono a creare stupendi arabeschi.

Nessun uomo è un’isola,in sé completa, ognuno è un pezzo di un continente, la parte di un tutto”è il pensiero che sottoponevo alla riflessione dei miei alunni ogni anno, cercando nelle loro risposte la luce che non ancora avevo trovato. Spesso, di fronte agli uomini grandi, ci troviamo smarriti e impotenti, incapaci di dire o di fare, perché ci sentiamo troppo piccoli per reggere il confronto e ci convinciamo che non vale la pena provare.
Mai nessuno, come il nostro Papa, da poco scomparso, ha portato la gente a riflettere sulla santità, come opportunità e grazia dati ad ogni credente, qualunque siano le doti e le capacità naturali, portando agli onori degli altari gente comune che non si è sottratta all’azione dello Spirito, favorendo l’ingresso della grazia che viene dall’alto. I Santi sono matite di Dio, come madre Teresa amava dire di se, e noi sappiamo che un bel disegno viene non tanto dalla grandezza della matita, quanto dalla capacità dell’artista di usarla nel modo più conveniente.
Quante cose si possono fare con Gesù! E’ proprio vero, ma bisogna che ne facciamo esperienza.
Da poco abbiamo cominciato una collaborazione con la nostra parrocchia per accompagnare le coppie che chiedono il Battesimo per i propri figli. L’iniziativa di affiancare al sacerdote una coppia per la preparazione al Sacramento dell’Iniziazione cristiana è recente e si affianca a quello di avvalersi della collaborazione delle famiglie da parte dei presbiteri, in tutte le altre iniziative pastorali. Il Sacramento dell’Ordine e quello del Matrimonio, l’abbiamo scoperto strada facendo, sono Sacramenti ministeriali, vale a dire servono per il bene della comunità, a differenza degli altri che sono a beneficio della persona che li chiede.
Ci sembra utile e bello ricordare, specie ora che Giovanni Paolo Secondo non può più parlare, ciò che ha scritto nella Familiaris Consortio al numero 49:” Tra i compiti fondamentali della famiglia cristiana si pone il compito ecclesiale: essa, cioè , è posta al servizio dell’edificazione del Regno di Dio nella storia, mediante la partecipazione alla vita e alla missione della Chiesa. I coniugi e i genitori cristiani, in virtù del Sacramento, hanno nel loro stato di vita e nella loro funzione il proprio dono in mezzo al popolo di Dio, perciò non solo ricevono l’amore di Cristo diventando comunità salvata, ma sono anche chiamati a trasmettere ai fratelli il medesimo amore di Cristo, diventando così comunità che salva
Quando Dio ha creato l’uomo maschio e femmina, a detta di monsignor Bonetti, non aveva in mente la parrocchia, ma la famiglia..Sembra un paradosso, ma così non è, perché Dio ha dato il compito di somigliargli per prima ad una coppia, Adamo ed Eva, a loro il mandato di renderlo visibile al mondo.
Un uomo e una donna che si amano e si donano reciprocamente sono la più bella icona di Dio.
A ragion veduta, chi è ancora legato al vecchio Testamento, come Ebrei e Mussulmani, non avendo accolto Cristo, che ha mostrato il vero volto del Padre, il volto dell’amore speso fino all’ultima goccia di sangue, continua a immaginare un Dio senza volto, un Dio nascosto nella nube e nel fuoco, un Dio a cui è difficile somigliare. L’amore di Cristo è il battistrada per sapere chi siamo e a cosa siamo chiamati.

Canto: Re dei re (MC – “Eterna è la tua misericordia” – A6)

Giovanni, il nostro nipotino, il 6 aprile, giorno del suo compleanno, ha ricevuto tanti regali. Molti, non ha avuto bisogno di chiedere come funzionassero, perché ci è arrivato da solo, ma di un gioco elettronico, con tanti pulsanti e un libro di istruzioni che non è ancora in grado di leggere e capire, ha chiesto a noi spiegazioni.
La fede è un dono che tutti ricevono con il Battesimo, ma è necessario che qualcuno ci spieghi come funziona, altrimenti succede che la mettiamo da parte e ci dimentichiamo di averla.
Quando Franco era piccolo gli abbiamo fatto tanti regali e tra questi un’enciclopedia dal titolo “Come funziona”.L’esigenza di dare a nostro figlio gli strumenti per conoscere il funzionamento di ogni tipo di macchina l’abbiamo sentita, peccato che non ci siamo preoccupati di comprargli qualcosa che lo aiutasse a capire come funziona l’uomo e di quale carburante ha bisogno per arrivare sicuro alla meta.
Chissà se a Piazza San Pietro e dintorni, nella settimana passata, c’era qualche strumento umano, in grado di misurare l’energia che ha fatto muovere migliaia di persone verso la stessa direzione!
Ma come funziona questo Spirito Santo, capace di annullare le distanze, di creare comunione, di trasformare la Babele degli uomini in città della pace?
La ninna nanna cantata dagli angeli, quando nacque Gesù diceva: ”Gloria a Dio negli nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini amati dal Signore”, La stessa pace che , una volta risorto, annunciò agli Undici, entrando nel cenacolo a porte chiuse. ”Pace a voi”, nonostante il tradimento, l’abbandono, la poca fede dei discepoli. Pace, la parola che accompagna il Salvatore dalla culla alla croce. “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno” fino a risuonare festosa, nel cuore ancora incredulo dei discepoli, i giorni appena dopo la Pasqua.
La pace dello Spirito permette di affrontare qualunque situazione, senza spezzarsi, disgregarsi e disgregare, permette all’uomo di uscire fuori da se stesso e diventare operatore di pace.
La pace comporta il prezzo alto di rischiare di perdere la propria perché gli altri la trovino. Così ha fatto Gesù, così il nostro papa che ne ha seguito l’esempio, non sottraendosi al rischio di venire rifiutato, beffeggiato, deriso.
La pace del mondo parte dalla capacità della famiglia di creare operatori di pace. Beati gli operatori di pace, perché vedranno Dio, dice Gesù e nelle famiglie in cui la pace viene costruita giorno per giorno Dio non ha bisogno di quadri che lo rappresentino.
La carità, vale a dire l’amore, è il dono che ci viene recapitato insieme alla fede e alla speranza il giorno del Battesimo, e che non è possibile coltivare senza credere nell’amore sconfinato di Dio che è alla base della nostra speranza ed è garanzia di salvezza.

Ci sono genitori che scelgono il cibo, i vestiti, la lingua, la città gli amici per i propri figli e poi si rifiutano di farli battezzare per rispettare la loro libertà di scelta, dimenticando che lo stesso problema non se lo pongono quando danno loro da mangiare e da bere ciò che i figli non hanno scelto o quando per loro chiamano il medico o acquistano medicine.
C’è chi lo fa controvoglia, come ci è capitato di constatare, pensando che la Chiesa lo fa apposta per complicare le cose. Ma ci siamo resi conto di quanto sia importante avvicinare le coppie e mettere in comune le esperienze di vita e di fede.
Fino a poco tempo fa non eravamo consapevoli del fatto che i genitori sono i primi testimoni del Vangelo per i propri figli e che la loro credibilità nasce dalla capacità che hanno di amarsi, accettarsi, accogliersi, e perdonarsi. Anzi, l’abbiamo già detto da questi microfoni, pensavamo che la Chiesa fosse una distributrice di certificati, previa frequenza di un corso. Ci sarebbe da vergognarsi se non fossimo certi della misericordia di Dio che ci ha aperto gli occhi e ci ha fatto desiderare di aprirli anche agli altri.
I figli, abbiamo capito, per sapere ciò che è importante, guardano prima di tutto chi vive con loro, prima ancora della tv molto spesso chiamata in causa per deresponsabilizzare chi è preposto alla loro educazione..
Ci vogliamo far aiutare da questa pagina, tratta da “Cosa conta?” di Solarino, per riflettere insieme su come un genitore si pone di fronte all’educazione dei propri figli. Sul diario messo a disposizione di tutti i componenti la famiglia, una sera rincasando tardi dal lavoro, il padre così scrive e si interroga.

Vi sto insegnando?
Stanotte sono tornato tardi! Sono venuto nelle vostre stanze e sono rimasto un po’ a guardarvi.
Vi sto trascurando in questo periodo, e sto rischiando di far passare il messaggio che i miei impegni sono più importanti di voi. Non è così, e sono grato a Dio perché ci siete e perché siete la cosa più bella che a me e a mamma potesse capitare. Piano piano, continuando a guardarvi, l’inquietudine ha preso il posto della gratitudine.
Mi inquietano e mi intimoriscono le tragedie di queste settimane.
Mi spaventa pensare a quanta strada ha fatto Caino, fino a Omar ed Erika. Mi intimorisce il moltiplicarsi degli incidenti sulle nostre strade. Mi strazia pensare alla morte di bravi ragazzi e al dolore dei genitori, alcuni dei quali conosco e voglio bene.
Ho cominciato a pregare! Ho pregato per loro, per voi, per me.
Ho pregato che il ritmo della morte non si interrompa traumaticamente. Se muore prima il nonno, poi il padre e poi il figlio la vita e la morte hanno riservato un grande privilegio.
Un figlio morto prima del padre è contro natura.
Ho pregato di potervi essere accanto fino a quando sarete capaci di farcela da soli, per capire qualcosa in più sul mistero della vita e della morte.
Pensando a Caino, a Omar e ad Erìka mi sono chiesto che cosa vi sto insegnando.
Vi sto insegnando a riconoscere ciò che passa da ciò che è duraturo? Ciò che illude da ciò che fa crescere? Ciò che seduce da ciò che è importante?
Vi sto insegnando ad aprire il cuore a Dio? Ad aprire il vostro cuore? Ad appassionarvi per gli altri? A non coltivare pregiudizi e odio?
Vi sto insegnando a sentire compassione per il dolore? A godere del vostro successo? A non invidiare il successo dei vostri amici e a provare la gioia di condividerlo ?
Vi sto insegnando a contare sulle vostre forze e nello stesso tempo a chiedere sostegno quando sperimentate di non farcela da soli?
Vi sto insegnando a guardare oltre i confini per esplorare nuovi territori e ammirare nuovi orizzonti? A chiedervi perché siete al mondo, e a cercare il progetto che Dio ha pensato per voi?
Vi sto insegnando a saper godere delle cose, senza essere schiavi delle cose, senza far diventare il denaro e le quotidiane eccitazioni i vostri padroni?
Vi sto insegnando che l’amicizia, l’affetto, la stima, l’onore, la verità, la dignità non hanno prezzo e che solo essi riempiono l’anima e vi fanno sentire vivi?
Vi sto insegnando a non dire si con le labbra, se il vostro cuore vuole dire no? A esprimere i vostri sentimenti? A piangere, se siete tristi? A proteggervi, se siete .spaventati? Ad arrabbiarvi, se alcune cose non vanno?
Vi sto insegnando che ci vuole più coraggio ad avere paura, che a fare finta di ignorarla, che essere forti non significa perdere il contatto con le proprie fragilità, esaltarsi o disprezzarsi, essere superuomini o superdonne, ma creature?
Vi sto insegnando che, se commettete degli errori, non vuol dire che siete sbagliati?
Vi sto insegnando a dedicarvi tempo per riposare, per rilassarvi, per contemplare, per entrare in contatto con l’anima, il mondo, Dio? A non armarvi di cinismo, di indifferenza, di abbandono, di disperazione, ma ad indossare lo scudo della fede?
Vi sto insegnando..,. ma io tutto ciò l’ho appreso?
So che dal pozzo della vita ho tirato un secchio con poca acqua. Mi piace però pensare alla possibilità di tirare il secchio insieme a voi.
Mi interrogo, vi interrogo e prego!
Prego di abbandonare l’illusione di controllare la mia e la vostra vita e l’illusione di sapervi proteggere totalmente.
I ceffoni della vita a volte arrivano inaspettati.
Mi aggrappo alla speranza che quello che tento di insegnarvi possa farvi da "casco" protettivo.
Prego perché possa imparare a fidarmi di me; perché riesca a testimoniarvi che ho fiducia in voi; perché possiamo conservare il gusto della vita, che rimane bella nonostante i ceffoni, e perché cresca la fede in Dio che è sì il Signore della morte, ma innanzitutto il Signore della vita.

Concludiamo con questa preghiera che abbiamo trovato per caso e che ci aiuta a riflettere su come possiamo parlare ai nostri figli di Dio.
Quando amiamo i nostri figli mostriamo la tua bontà, o Dio,
quando giochiamo con loro, parliamo della Tua simpatia,
quando li accarezziamo, testimoniamo la Tua tenerezza,
quando li lasciamo essere se stessi, raccontiamo la Tua libertà,
quando li correggiamo, riveliamo la Tua giustizia,
quando li ascoltiamo, mostriamo la Tua delicatezza,
quando li perdoniamo, parliamo loro della Tua fedeltà,
quando soffriamo, testimoniamo la Tua croce,
quando ci inginocchiamo, raccontiamo il Tuo desiderio di intimità,
quando ci commoviamo, riveliamo il Tuo cuore,
quando ci feriscono, mostriamo la Tua vulnerabilità,
quando diamo loro un comando, parliamo della Tua autorità,
quando, sconfitti, ricominciamo, testimoniamo la Tua resurrezione,
quando contempliamo il creato, raccontiamo la Tua intelligenza,
quando li proteggiamo, riveliamo la Tua affidabilità,
quando ammettiamo di aver sbagliato, mostriamo la Tua umiltà,
quando lavoriamo, parliamo della Tua creazione,
quando li consoliamo, testimoniamo la Tua sensibilità,
quando insieme ascoltiamo la Parola, raccontiamo i Tuoi pensieri,
quando li benediciamo, riveliamo il Tuo sogno
. Perdonaci o Dio,
quando di Te diciamo male o non diciamo nulla.

Canto: Cristo è risorto veramente (CD – “Risorto per amore” – 1)
11 aprile 2005

20 Famiglia oggi:riflessioni di coppia

 



Rubrica radiofonica a cura di Gianni e Antonietta

Canto: Cristo è risorto veramente (CD – “Risorto per amore” – 1)

Cari amici, benvenuti all’ascolto di questa trasmissione.
Dagli studi di Radio Speranza vi salutano Gianni e Antonietta.
Finalmente abbiamo potuto ripristinare la sigla che ci è tanto cara, quella che mai come in questo momento di lutto e di cordoglio sembra interpretare i sentimenti di tutti i credenti, che hanno partecipato con la mente e con il cuore alla lenta agonia del Papa che non contraddiceva con ciò che nella Settimana Santa abbiamo celebrato e rivissuto, la passione e la morte di nostro Signore. Poi è venuta la Pasqua, il giorno della Resurrezione e gli ingenui, o quelli che pensano che la fede ti tolga i problemi, che ti esoneri dal dolore dalla malattia, forse hanno pensato che non valeva la pena continuare a pregare e a sperare, tanto tutto resta tale e quale e la gente a morire, i grandi come il Papa e i piccoli e gli sconosciuti, travolti da un terremoto improvviso o da una malattia incurabile.
La morte è l’unica cosa certa che ci riguarda e che riguarda tutti, guarda caso anche Dio, che per insegnarci a morire ha dovuto assumere un corpo in tutto simile al nostro, vale a dire mortale.
Solo chi ha fatto esperienza di morte può cantare l’alleluia della Resurrezione, che bisogna tapparsi la bocca per non gridarlo in tempo di Quaresima o davanti ad una bara. Noi oggi, in un giorno che per molti è giorno di tristezza, vogliamo con forza associarci a tutti quelli che ci hanno parlato di resurrezione e di vita, che ci hanno aiutato a risorgere, per cantare l’alleluia pasquale, l’alleluia che per tutto il resto dell’anno liturgico si canta quando acclamiamo al Vangelo.
Ognuno di noi oggi si sente un po’ orfano per una guida che ci è venuta a mancare, una guida forte e poderosa, guida illuminata dalla luce di Cristo

Ma proprio il Vangelo della seconda domenica di Pasqua ci porta a riconoscere Gesù risorto nei fori delle mani e dei piedi, quando entra nel cenacolo dove gli undici si erano riuniti, spaventati forse per il fatto che la stessa sorte del maestro poteva capitare anche a loro.
Vogliamo ringraziare San Tommaso che ha avuto bisogno di vedere e di toccare per riconoscere il Maestro. “Mio Signore e mio Dio”, l’atto di fede esclamato nella certezza che davanti non c’era un angelo o uno sconosciuto, ma l’uomo crocifisso che portava su di sé i segni inequivocabili del martirio.
Grazie, Tommaso, perché oggi crediamo a ciò che non vediamo, grazie perché la tua testimonianza aiuta tanti increduli a riconoscere in Gesù l’unica strada che porta a Dio.
Siamo partiti dalla sigla, un canto del Rinnovamento nello Spirito dal titolo:” Cristo è risorto veramente” tratto dal CD “ Risorto per amore” e, per potervi comunicare le nostre riflessioni davanti ad un evento che sembra contraddire quanto annunciato.
Quell’alleluia che per tutto il tempo di Quaresima non è lecito pronunciare, per entrare con lo spirito giusto dentro il mistero della morte di Dio, oggi sentiamo che non è fuori posto, sicuri che anche il nostro stanco e malato pontefice, con quanto fiato ha in gola, finalmente senza costrizioni, starà cantando alla presenza di Dio, insieme ai Suoi Angeli e ai Suoi Santi.

Canto: Cristo è risorto veramente (CD – “Risorto per amore” – 1)

Il calvario, la croce non basta una sigla ad annullarli, a dire che non ci sono.
Il terremoto dell’ottavo grado della scala Richter nel giorno di Pasqua in Indonesia non ha prodotto lo stesso slancio di solidarietà che aveva contraddistinto i giorni immediatamente vicini al Natale, quando l’onda assassina travolse uomini e cose..
Allora, ci siamo detti, c’è bisogno di una grande catastrofe per trovare l’unità degli intenti e collaborare a che la giustizia trionfi?. Poi lo Tsunami l’abbiamo dimenticato, e a ricordarcelo c’è stata la cartolina di Dominicus, il seminarista indonesiano che ci aveva mandato gli auguri di Natale per tempo, ma che grazie a Dio, sono arrivati a ridosso di Pasqua, così ci ha rispolverato la mente e ci ha fatto svegliare dal sonno in cui eravamo caduti.
Il fatto è che abbiamo bisogno di grandi emozioni, di forti spinte per muoverci in modo diverso da come siamo soliti fare. Cristo è risorto veramente, alleluia, dice la sigla, nonostante i terremoti e i maremoti, nonostante la malattia e la morte vengono ancora a visitarci. Cristo è veramente risorto lo vogliamo dire in un momento in cui non solo la Chiesa ma tutto il mondo prega e piange per il nostro Pontefice.
Ancora una volta il mondo si è fermato di fronte ad un evento che vede non migliaia di persone vittime di catastrofi improvvise, ma migliaia di persone unite davanti ad un uomo che, giunto al termine della sua vita, si è consegnato al Padre senza rumore, in silenzio.

Il rumore lo abbiamo fatto noi e continuiamo a farlo, perché non abbiamo ancora imparato a stare in silenzio per contemplare l’opera meravigliosa di Dio in un uomo che gli ha detto incondizionatamente di sì. Non è un caso che al papa, grande comunicatore, sia venuta meno la parola, quella che si sente con le orecchie del corpo, perché risplenda in modo indiscusso la Parola per eccellenza, il volto di Cristo in cui si è specchiato e da cui ha tratto forza e vigore.
Abbiamo ancora impresse negli occhi le immagini del nostro Papa affacciato alla finestra, che vuole parlare alla folla che lo applaude, che vuole benedirla, e cerca il microfono con gesti fermi e perentori, e prova a dire ciò che possiamo solo immaginare e che lui non riesce ad esprimere.
Ma il vecchio e stanco pontefice con mossa repentina non si arrende a chi gli toglie ciò che gli avrebbe amplificato la voce, perché la sua benedizione, muta e oserei dire furtiva, è stata più eloquente di mille parole.
Cristo è risorto veramente dal momento che ha reso possibile che le capacità naturali di un uomo, quand’anche fuori dalla norma fossero potenziate a tal punto da renderlo capace di comunicare Dio al mondo anche e soprattutto quando non si è vergognato di mostrare la sua fragilità e il suo limite.
Pontefice è stato, di nome e di fatto, costruttore di ponti, perché fossero messi in comunicazione tutti gli uomini e si sentissero figli di un unico Padre. Se il terremoto di Pasqua in Indonesia non ha prodotto lo stesso effetto del primo, per quanto riguarda il desiderio di mettere in circolo l’amore, il silenzio di Giovanni Paolo secondo, la sua progressiva mancanza di parole ha prodotto il miracolo di vedere che quei ponti che non si è stancato di gettare senza risparmio di energie erano visibili venerdì sera, e nessun terremoto li ha distrutti, quando tutti i credenti si sono uniti per pregare lo stesso Dio, pur se con nomi diversi. Un uomo ha saputo catalizzare su di sé gli sguardi sì che ognuno vi ha visto uno specchio purissimo della luce di Dio dalla quale farsi illuminare e riscaldare.
Siamo sicuri che lui non avrebbe voluto tanto rumore attorno alla sua persona, ma avrebbe desiderato che il rumore, lo si facesse intorno a Chi gli aveva e continuava a dargli la pace e la serenità del grande momento tanto atteso, quello di vedere il Signore faccia a faccia.

Mentre il Papa stava morendo, ho pensato a ciò che aveva seminato, a mio padre che non si perdeva una Messa, la domenica, inchiodato ad una poltrona, con gli occhi fissi al televisore, da cui gli arrivavano messaggi di vita, mio padre che gli ultimi giorni si è cibato solo di Eucarestia, al suo desiderio di andare incontro allo sposo, al suo sguardo sereno, quando si accorse che l’ora era vicina, ho pensato a Paola che ci ha lasciato da poco e che ci ha mostrato come si possa sorridere e dare speranza, anche quando ti schiaccia la croce,
Abbiamo pregato in questi giorni per tutti quelli che soffrono con Cristo e non fanno notizia, ma soprattutto per quelli che soffrono soli, senza che nessuno si fermi a guardarli.. Abbiamo pensato a Dio, che è Padre, e che la preghiera, anche se non è cosa che si tocchi, muove le montagne, perché è energia positiva che mette la dinamite alle montagne, perché al loro posto si costruiscano ponti per mettere in comunicazione la gioia e il dolore la morte e la vita.
Il Venerdì Santo abbiamo riflettuto proprio su questo, quando davanti al tabernacolo vuoto era stata issata la croce.. Infatti, mentre tutti gli sguardi erano fissi al simbolo della nostra fede, unico arredo dell’altare spogliato delle bianche tovaglie, dei fiori e delle candele, il nostro sguardo è stato attirato da ciò che dietro di noi il Signore ci aveva lasciato. Erano le bianche Ostie raccolte nella teca di cristallo trasparente che il Sacerdote aveva deposto il giovedì Santo nell’altare della Reposizione. No, non potevamo farci travolgere da un sentimento che qualche anno prima mi vide cercare invano il Signore che sembrava morto per sempre.
Il silenzio di Dio mi atterriva e avida scrutai le scritture per sapere dove era andato a finire.
Poi insieme con Gianni gioimmo, quando ascoltammo la catechesi di padre Raniero Cantalamessa che ricordò come la Chiesa orientale rappresenti Gesù risorto,. mentre scende negli Inferi per liberare i prigionieri.
Ancora una volta Dio scende, un Dio che salva scendendo fino a toccare l’infinita distanza dal Padre.
Fu una cosa stupenda scoprire che Gesù continuava ad operare anche quando la chiesa tace in attesa che Lui risorga e che nessun momento della sua vita lo vide dormire, anche quando, così parve ai discepoli, in occasione della tempesta. Gesù andò negli Inferi, che etimologicamente significa la parte più bassa, la più lontana, l’ultima, per annunziare la buona novella a tutti quelli che non lo conobbero ma che ebbero fede.

Canto: Cristo è risorto veramente (CD – “Risorto per amore” – 1)

Quella catechesi appagò la nostra mente, ma, solo dopo aver fatto esperienza di Dio nell’Eucarestia, abbiamo potuto godere di quanta dolcezza trasmettevano le sacre particole, ben in vista, illuminate dalle luci dei riflettori e sollevate da terra per offrirsi alla nostra adorazione!
I fiori, di cui era cosparso il pavimento, coperto da drappi bianchi e tappeti, diversi nelle forme, incantavano per la delicatezza o l’audacia dei colori e dei profumi.
Abbiamo pensato, mentre i canti mesti accompagnavano l’adorazione della croce, che non potevamo essere triste, perché Gesù era lì vicino a noi e risplendeva in tutta la sua potenza in quella modesta teca di cristallo, vulnerabile nella sua inaccessibilità, perché chiunque avrebbe potuto profanarlo, era in quel dono che ci aveva lasciato prima di andarsene, perché non ci sentissimo più soli
No, non potevo essere triste, come quando bambini andavamo a far visita ai sepolcri, rigorosamente tre o in numero dispari, perché lì c’era Gesù vivo e vero, lì c’era la fonte della nostra speranza, il fondamento della nostra fede, la certezza che il ricordo di ciò che è avvenuto 2000 anni fa non deve farci dimenticare che noi non adoriamo un morto ma un vivo, che il nostro Dio non dobbiamo cercarlo in un sepolcro, ma nell’Eucarestia, in Chi ci si fa compagno per spezzare il pane con noi.
I fiori, bellissimi, stupendi, necessari, imprescindibili per fare corona a Gesù parlavano della potenza creatrice di chi non aveva smesso di dare la vita, di essere vita per tutto il creato.
I fiori, la strada maestra per entrare nel mistero della creazione, nel mistero dell’amore di Dio.

I fiori, quando il tempo per fermarmi a guardarli, non io ma Dio me lo mise davanti, mi hanno parlato di amore, quando recisi si donano per fare gli auguri, quando adornano l’altare o una tomba, quando fanno festa intorno alla vita che nasce o accompagnano quella che muore.
I fiori sono quelli che Gesù ci invita ad osservare, quando ci preoccupiamo di che ci vestiremo, perché non seminano e non mietono, eppure sono i meglio vestiti.
Quando il rigido inverno rende dure e compatte le zolle, il contadino non teme per il seme in esso gettato, anche se non lo vede, sa che nel grembo della natura quel seme deve marcire e morire per spuntare quando il freddo si fa meno pungente e il sole di primavera torna a scaldare e illuminare la terra.
I fiori sono il simbolo della bellezza e della grazia, e quando si pensa ad un giardino non si può fare a meno di immaginarlo pieno di fiori. Non è un caso che Dio abbia messo Adamo ed Eva in un giardino e in un giardino sia stato sepolto, nello stesso giardino dove Maria di Magdala, una donna, si è sentita chiamare per nome dal Maestro,dallo Sposo.
Dio non consente che abiti la tristezza, il lutto e la morte nel nostro cuore, quando lo lasciamo trasformare da Lui in un giardino, spettatore della morte, testimone della resurrezione.
I fiori, ci viene da pensare, sono stati testimoni muti della promessa che si adempiva, i fiori hanno adornato il primo tabernacolo, destinato a celebrare la gloria di Dio, non a commemorare la Sua sconfitta..
Quel giardino era nella chiesa il Venerdì santo attorno a Gesù Eucarestia, non a caso davanti ad un tabernacolo vuoto.
Incredibilmente quel giorno Gesù in quell’angolo di chiesa addobbato come un giardino, ci ha fatto rivivere la commozione e la gioia di essere chiamati per nome e di averlo riconosciuto,nell’Eucarestia, nelle sembianze del pane di vita, nel viatico a cui ha affidato la sua presenza nel mondo.
Venerdì Santo il pensiero della morte è stato quindi soppiantato da quello della vita e questo ci ha dato una grande gioia, la gioia che oggi vogliamo comunicare a tutti quelli che non riescono a guardare oltre.
La certezza che Dio continua a donarsi al mondo attraverso tutti i suoi ministri di amore ci dà la forza e il coraggio di seguire l’esempio di chi ci ha preceduto, e di divulgare nel mondo la Parola che salva.
La parola e l’amore sono doni divini e se uno non smette di amare, non ha bisogno di parole per farsi capire. Così è capitato a Gesù che dalla croce ha mandato e continua a mandare tanti più messaggi di quelli che ci ha dato in vita, così al nostro Papa, il cui silenzio è stato eloquente, più di mille parole.

La civiltà dell’amore è quella che Cristo è venuto a predicare e ad inaugurare per l’uomo che ha dimenticato come si ama. Il nostro Papa, illuminato dallo Spirito, ha indicato nella famiglia l’ambiente idoneo perché egli cresca si sviluppi nel migliore dei modi.
Alla famiglia ha dedicato tanti scritti e noi vogliamo rendergli omaggio rileggendo con voi l’esortazione con cui conclude la Familiaris consortio,documento cardine del suo pontificato.
L’avvenire dell’umanità passa attraverso la famiglia!
E’, dunque, indispensabile ed urgente che ogni uomo di buona volontà si impegni a salvare ed a promuovere i valori e le esigenze della famiglia.
Un particolare sforzo a questo riguardo sento di dover chiedere ai figli della Chiesa. Essi, che nella fede conoscono pienamente il meraviglioso disegno di Dio, hanno una ragione in più per prendersi a cuore la realtà della famiglia in questo nostro tempo di prova e di grazia.
Essi devono amare in modo particolare la famiglia. E’ questa una consegna concreta ed esigente.
Amare la famiglia significa saperne stimare i valori e le possibilità, promuovendoli sempre. Amare la famiglia significa individuare i pericoli ed i mali che la minacciano, per poterli superare. Amare la famiglia significa adoperarsi per crearle un ambiente che favorisca il suo sviluppo. E, ancora, è forma eminente di amore ridare alla famiglia cristiana di oggi, spesso tentata dallo sconforto e angosciata per le accresciute difficoltà, ragioni di fiducia in se stessa, nelle proprie ricchezze di natura e di grazia, nella missione che Dio le ha affidato. «Bisogna che le famiglie del nostro tempo riprendano quota! Bisogna che seguano Cristo!» Spetta altresì ai cristiani il compito di annunciare con gioia e convinzione la «buona novella» sulla famiglia, la quale ha un assoluto bisogno di ascoltare sempre di nuovo e di comprendere sempre più a fondo le parole autentiche che le rivelano la sua identità, le sue risorse interiori, l’importanza della sua missione nella Città degli uomini e in quella di Dio.
La Chiesa conosce la via sulla quale la famiglia può giungere al cuore della sua verità profonda. Questa via, che la Chiesa ha imparato alla scuola di Cristo e a quella della storia, interpretata nella luce dello Spirito, essa non la impone, ma sente in sé l’insopprimibile esigenza di proporla a tutti senza timore, anzi con grande fiducia e speranza, pur sapendo che la «buona novella» conosce il linguaggio della Croce.
Ma è attraverso la Croce che la famiglia può giungere alla pienezza del suo essere e alla perfezione del suo amore.”


Canto: Cristo è risorto veramente (CD – “Risorto per amore” 1)

4 aprile 2005 

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3 Famiglia oggi:riflessioni di coppia

 

Rubrica radiofonica a cura di Gianni e Antonietta

Canto: Cristo è risorto veramente (Risorto per amore 1)

Un caro e affettuoso saluto a tutti, amici. Dagli studi di Radio Speranza vi danno il benvenutoGianni e Antonietta.
La settimana scorsa, preparando la trasmissione di oggi, abbiamo sperimentato quanto sia difficile e duro il cammino della fede, ciò che si richiede ad ogni credente nel momento in cui tutto è buio e le cose che capitano sembrano incomprensibili.
Abbiamo dovuto, infatti, fare i conti, Antonietta e io, con la nostra incapacità a cercare le parole e gli argomenti giusti per farvi arrivare un messaggio di speranza, per comunicarvi che Cristo è veramente risorto nella nostra vita personale, nella nostra vita di coppia e nelle nostre relazioni all’interno e al di fuori della famiglia, per annunciarvi che Cristo è risorto non solo per noi, ma per tutti gli uomini, come provvede a ricordarci il nostro nipotino di due anni e mezzo, quando preme il bottone dell’antiquato ma sempre funzionante apparecchio stereo, dove fisso troneggia il suo CD preferito, quello che lui chiama: “ la musica delle campane”.
Ebbene noi vogliamo ringraziare il Signore per tutto quello che ci ha donato in questa settimana e vogliamo cominciare da questo piccolo grande profeta che è Giovanni, il maestro, che il Signore ci ha mandato a domicilio, per insegnarci a guardare il mondo con i suoi occhi, per stupire di fronte alle meraviglie del suo amore.
Quando è nato, non sapevamo che stava arrivando dal cielo un dono così grande, come non lo sapevamo, quando è nato nostro figlio Franco.
Ma se la prima volta, di fronte al miracolo della vita che sboccia, non abbiamo alzato gli occhi al cielo e non abbiamo neanche per un attimo pensato che nostro figlio era lo splendido dono che Dio ci aveva fatto pervenire, per rendere fecondo il nostro amore, la seconda, quando è nato Giovanni, abbiamo vissuto la stessa esperienza in modo totalmente diverso.
Il Signore, come ci aveva messo di fronte ad un altro matrimonio, quello di nostro figlio, per farci riflettere sul nostro, così ci ha messo sotto gli occhi un altro bimbo, perché imparassimo da lui come si ama..
Sul suo diario, nell’aprile 2002, così scriveva Antonietta, aprendo la strada alla condivisione di un patrimonio comune.
Ridiventare bambini è la strada maestra per entrare nel mistero dell’amore di Dio, il regno dei cieli che, ogni volta che ci riusciamo, si trasferisce su questa terra e trasforma la nostra storia di schiavi, di servi inutili, in storia di figli, a tutti gli effetti eredi di quel patrimonio di grazia, che proviene solo da Lui.
Giovanni, il bimbo che Dio ci ha donato, attraverso nostro figlio e sua moglie, è il più bel libro scritto dal Signore, per farci le catechesi sull’argomento.
Quando venne al mondo, eravamo lontani da questi pensieri e mai avremmo immaginato che quel batuffolo di tenerezza sarebbe stato la chiave, per entrare nel mistero della misericordia di Dio.
Del resto il suo nome parlava chiaro, perché non a caso si chiama Giovanni, che significa Dio è misericordia, Dio ama.
All’ospedale, quando nacque, non lo sapevano, per cui gli appiccicarono un numero sulla tutina, per paura che si confondesse, il n. 43

6 aprile 2002

Quando sei nato, avevi un viso spaventato, gli occhi sgranati, fissi, immobili come se avessi visto tutto il male del mondo e fossero incapaci di chiudersi ancora, di battere, palpitare sul tuo tenero e dolce faccino.
Volevi venire al mondo da tanto tempo.
Da tempo spingevi, scalciavi, per uscire dal tuo caldo e sicuro rifugio, ma una corda ti teneva attaccato a tua madre.
Avvolta al collo due volte, ti si stringeva sempre di più, ogni volta che volevi provare a respirare con i tuoi polmoni, pure se l’aria era inquinata e il panorama non era quel granché che ti aspettavi.
Sei nato con un numero cucito sulla tutina e un braccialetto al piedino, con su scritto il cognome di tua madre, per paura che ti perdessi.
Cosa tu avevi a che fare con me?
Nessuna cosa mi ricordava che eri, che sei, figlio di mio figlio, che allo stesso modo eri nato, soffrendo e morendo tu e tua madre per poter risorgere ancora e di più e per dire che la vita è bella, perché è miracolo, stupore dono stupendo e misterioso della potenza e della misericordia di Dio.
Perché quando penso a te sto male?
A cosa penso, guardando i tuoi occhi spauriti, e sgranati, occhi grandi come fanali?
Penso a te, che sei scampato ad un naufragio, a tutti i naufragi del mondo, che hai lottato con una forza che non era la tua.
Un angelo con te ha lottato perché venissi al mondo, sciogliendo quei lacci di morte che te lo impedivano.
Forse gli occhi spauriti sono quelli dello stupore di avercela fatta,
Non ci credevi, non ci avevi creduto, con quei due cordoni attorcigliati al collo, che ti soffocavano ad ogni movimento
E tua madre te ne aveva fatte sentire di musiche ..e noi abbiamo pensato che stavi ballando, mentre ti muovevi nella sua pancia …chissà se la corda l’avevi anche prima… tutto il tempo in cui le cuffie appoggiate alla pancia ti facevano le coccole, che noi, tua madre, tuo padre, non potevamo farti più da vicino.
Oppure una piroetta più ardita, un salto acrobatico, di cui ti sentivi capace, vista l’ora che si avvicinava, per conoscere i volti delle tante voci, che ti avevano tenuto compagnia, amandoti senza vederti.
Il mondo ti aspettava e tu aspettavi il mondo e con impazienza scalciavi, aprivi, chiudevi le manine, stendevi i piedi, le gambe e le braccia, perché eri ansioso di venire alla luce.
Poi quella notte, era notte, la notte lunga, buia, angosciosa, senza fine, degli urli, dei gemiti, del rantolo, dell’agonia di una madre che non può far nascere suo figlio, perché lo avrebbe fatto morire.
Così, Giovanni, sei stato trattenuto ancora, per un tempo che a noi è sembrato eterno, perché non soffocassi del tutto.
Il grido spasmodico di tua madre mi è rimasto nell’anima, ha scavato dentro chissà quanti chilometri, giù nel profondo abisso della memoria.Era un grido, era un pianto, era una richiesta d’aiuto, era l’impotenza dell’uomo che chiamava l’onnipotenza di Dio.
Così con le mani strette ad una corona, ad un rosario, ho pregato, abbiamo pregato, perché vi ci aggrappaste anche voi, tu, tua madre, perché usciste dal gorgo e vi salvaste dai flutti di morte.
Le parole non le ricordo, ricordo lo sguardo fisso a Dio, Dio di misericordia, a Sua madre perché provasse compassione di quella titanica lotta con il serpente, che ti avvinghiava la gola.
Così sei venuto alla luce n. 43, figlio di tua madre, ma dono di Dio, perché il tuo nome era già scritto, sulle palme delle Sue mani, prima ancora che fossi intessuto nel grembo di tua madre, prima ancora che tua madre e tuo padre pensassero a te
Il tuo nome era Giovanni, è Giovanni, perché la misericordia di Dio non si misura e tu tutta in te la manifesti.

Quel nome ci aveva stregati, tanto che non potemmo che dedicargli questa poesia il giorno del suo Battesimo, il
 9 giugno 2002.

Ti abbiamo trovato in un campo
Al mattino
Tra i fiori appena spuntati

Ti abbiamo guardato stupiti
E ti abbiamo riconosciuto.

Eri quello che stavamo aspettando
Proprio tu
Che stentavi a sbocciare.

Ansiosi ci siamo accostati
Ma subito ci siamo fermati
Per paura di farti male.

Con lo sguardo, piano,
Ti abbiamo accarezzato,
Ma con il cuore ti abbiamo preso
Piantandoti nel nostro giardino..

Ora i tuoi teneri e giovani petali
Si stanno rinvigorendo
Ogni giorno la tua veste è più bella
I tuoi occhi più vivi e lucenti.

Per quel prato che non abbiamo coltivato
Per il sole, per la pioggia
Per la brezza leggera
Che il tuo seme ha trasportato
Vogliamo ringraziare il Signore
Perché grande è il suo amore per noi.

A te proprio aveva pensato
Per ricordarcelo
Quando ti ha chiamato per nome.


Queste cose scrisse Antonietta, a ridosso della nascita del piccolo Giovanni, comunicando dei sentimenti che erano anche i miei, ma che tenevo compressi nel cuore, quasi fossero vergogna. Ma eravamo ancora lontani dall’immaginare quante cose ancora avremmo imparato, osservandolo crescere.
E così rispondevamo a dei compagni di viaggio, uniti nella fede, che invitavano me e Antonietta a rinascere dall’alto

Bisogna veramente rinascere dall’alto, per ricominciare tutto da capo e ogni giorno riscrivere la nostra storia alla luce di Cristo..
Attraverso Giovanni, abbiamo imparato a guardare le nostre debolezze e le nostre difficoltà con gli occhi di Dio.
E’ lui il piccolo grande maestro di cui si serve per insegnarci come si fa.
Da quando è nato, ci perdiamo ad osservare le sue manine tese verso di noi per buttarsi nelle nostre braccia.
Ringraziamo Dio perché non ha paura, visto come è messa Antonietta con la schiena, lei, che se ne deve occupare la maggior parte del tempo.
Quante volte il suo pianto lo abbiamo prevenuto, vigilando che non gli mancasse nulla, quante non abbiamo potuto fare a meno di farlo soffrire per una medicina un po’ amara che lui non voleva saperne di prendere!
E che dire di quando tenta di alzarsi e di mettersi in piedi e non ci riesce e cade, suscitando in noi ilarità a tenerezza ad un tempo?
E i balbettii incomprensibili, le parole storpiate, il suo pianto, il suo riso, il suo essere bisognoso di tutto che ce lo fanno amare di più, se fosse possibile!
Perciò vogliamo stamparcele in mente e nel cuore le immagini di questo tempo di grazia che Dio ci concede, perché non vogliamo dimenticare ciò che attraverso Giovanni ci vuole dire.
Man mano la sua mano tesa diventa la nostra, nostre le sue piccole e deboli braccia e insieme ci ritroviamo a ringraziare il Signore per questo dono stupendo che ogni giorno di più mostra le sue meraviglie.
Tornare bambini è fidarsi di chi ci vuole bene, è non preoccuparci di cosa mangeremo e di che ci vestiremo, tornare bambini è non proferire parola, perché l’amore non ne ha bisogno.
Gesù, LA PAROLA; IL VERBO DI DIO, non è forse venuto per offuscare e rendere vane tutte le altre?

Canto: L’amore del padre (Eterna è la sua misericordia: lato B 1)
Dopo questa immersione nei sentimenti, apriamo gli occhi di fronte a quante cose nella nostra vita abbiamo dato per scontate, a quante occasioni ci siamo lasciti sfuggire, per vivere la gratitudine verso Chi non si stanca di amarci e continua a bussare alla nostra porta, perché vuole portarci i suoi doni.
Franco, nostro figlio è stato veramente, il primo e più grande, perché il Signore si è servito di lui, per farsi annunciare.
Eppure noi non abbiamo coltivato la sua fede, e quando lo abbiamo battezzato, abbiamo pensato più ad un dovere da assolvere che ad una grazia da accogliere e far fruttificare.
Lo abbiamo affidato alla Chiesa perché si occupasse di lui e lo istruisse su ciò che era importante per essere buono.
Non gli abbiamo insegnato a pregare, pensando che bastasse fargli frequentare luoghi sicuri, lontani dai pericoli, mentre noi ci occupavamo dei problemi che ci erano piombati addosso ad un anno dal matrimonio e che ci avevano colto del tutto impreparati.
Della sua vita spirituale non conoscevamo nulla, anche se provvedevamo ad inculcargli sani principi e a trasmettergli una cultura della pace e dell’accoglienza, che non sapevamo, però, venirci da Dio.
La sua camera cominciò ad ospitare oltre ai libri di studio e di svago, anche la Bibbia, i libri della Liturgia delle ore, il Catechismo della chiesa cattolica e tanti altri testi che avevano come unico denominatore la parola di Dio.
Il fatto che fosse capo scout ci mise l’animo in pace che non fosse un bigotto e che erano quelli, comuni strumenti di lavoro, in tutto simili a quelli che io e Gianni usavamo per il nostro.
Fu lui, però che insistette a che ritornassero, quando, alla fine del 1999, vennero a casa nostra, Annamaria e Graziellina, per parlarci di Dio, nell’ambito dell’iniziativa missionaria promossa dalla Diocesi per l’anno 2000.
Fu quella l’occasione che portò prima Antonietta e poi me a varcare le porte della Chiesa, che poi scoprimmo essere la nostra parrocchia.
Da quando c’eravamo sposati, avevamo cambiato più chiese che case, mai facendo riferimento a quella più vicina alla nostra, pensandola solo come un ufficio che dispensa servizi per i figli, a cui non si sa cosa offrire di meglio.

Ripensando a tutto questo così scrivevo in occasione del matrimonio di Franco, a
 giugno del 2001

La tua stanza
Franco, manca poco e la tua stanza sarà vuota di vestiti, di scarpe, di fogli, di libri, di dischetti e CD messi lì alla rinfusa, abiti stropicciati, sparsi ovunque, fili aggrovigliati che spuntano e s’intrecciano e s’insinuano fra le multiformi e variopinte scartoffie che sciabordano dagli scaffali che non le contengono
Quel tuo voler fare le tante, troppe cose che il tempo ti strappa di mano, quel frutto che vuoi cogliere subito, la tua voglia di bruciare le tappe, ti portano a lasciare indifese le tracce di ciò che sei, di ciò che cerchi, di ciò che comunque vuoi nascondere, senza riuscirci.
Franco, la tua camera oggi mi parla di te, con il suo disordine, con la sua confusione che è anche la mia, mi parla delle tante, troppe baruffe perché non riuscivi, non riuscivo a capire, che ogni tanto bisogna fermarsi, per buttare ciò che ci ostiniamo a portare senza che ne valga la pena, ciò che grava sopra di noi, perché non riusciamo a lasciarlo da parte.
Franco, la tua camera oggi parla di te, più forte, mentre pian piano togli di mezzo ciò che è tuo, ciò che fino a ieri sembrava mio solo mio, perché tu eri cosa mia, come i tuoi pensieri, i tuoi desideri, i tuoi sogni, che ti ostinavi a negarmi…tutto, tutto ciò che, essendo tuo, pensavo mi appartenesse.
Ora te le porti lontano le cose che non sono mai state mie, le strappi dalla tua stanza stupita, dal mio cuore sconvolto da questo temporale di maggio, le porti via senza ordine, senza niente buttare, perché bisognerebbe fare una scelta ed è difficile, specie in questi momenti convulsi che ti separano dal matrimonio.
Le cose, Franco, lo so, lo sai, non vanno lontano: da un armadio ad un altro armadio, guarda caso distante solo 10 metri…
O di più?
Ma il tuo cuore, Franco, quello dove lo porti?
Il vuoto che lasci di te, del tuo disordine assurdo, dei tuoi silenzi, dei tuoi nervosismi, delle tue attenzioni nascoste, dei tuoi gesti gentili, mischiati al fracasso di ciò che non volevi apparisse, della voglia di dirmi, di dirci che ci volevi bene, che volevi ti amassimo come tu sei, come ti sforzavi di essere, mi sembra incolmabile.
I tuoi diari, lasciati per caso, senza parere poggiati su un tavolo, dimenticati in un angolo, erano lì ad aspettare che qualcuno li aprisse, per capire e conoscere ciò che ti ostinavi a nascondere.
Per sbaglio ne ho aperto, un giorno lontano una pagina e vi ho trovata scritta una preghiera.
L’ho letta perché era bella, perché era tua, perché non mi sembrava di violare un segreto, visto che l’avevi lasciata lì, ad aspettare che finalmente mi accorgessi che c’eri, che il tuo cuore batteva, che avevi trovato un compagno, un amico a cui confidare il tormento e la pena dell’essere soli, un amico che non conoscevo.
Ora quell’amico anch’io l’ho trovato, ora possiamo parlare con Lui e di Lui senza riserve, senza che la vergogna e il pudore ci chiuda la bocca, ora possiamo sentirci vicini, perché è Lui che ci porta lì dove non sapevamo salire.
Non siamo più soli, perché se l’uno l’altro perde di vista, Lui ci sente e ci rimette in contatto, ricordandoci che l’amore non conosce distanze, riempie i vuoti dell’anima, i vuoti delle stanze deserte, che non rimangono mute, quando un figlio si sposa, quando una madre, invecchiando, non può condividere le sue spensierate e giovani scelte.
Lui è quello che, saldandoli, ricongiunge, i fili spezzati, è quello che riempie di luce le stanze buie e gelate, riscaldandole con il suo dolce tepore.
Oggi, Franco, guardando la tua stanza, a tutto questo ho pensato.
Se non mi fossi fermata un momento, per scriverti dello strazio delle cose portate lontano, non avrei potuto gioire del dono stupendo di cui tu sei stato strumento: il Compagno, l’Amico con cui tu te ne vai, ma anche quello che tu lasci qui dentro, perché in fondo ciò che conta è vedere nella morte dei nostri pensieri la vita dei nuovi pensieri, che sbocciano nel cuore irrigato dal pianto e purificato dall’aria che soffia leggera sulle cose trasformate da Dio.

Solo l’anno dopo, però, abbiamo constatato quanto fossero vere le parole del Salmo 120, con cui abbiamo accompagnato gli auguri e il regalo al piccolo Giovanni, in occasione del suo Battesimo

Alzo gli occhi verso i monti:
da dove mi verrà l’aiuto?
Il mio aiuto viene dal Signore,
che ha fatto cieli e terra.

Non lascerà vacillare il tuo piede,
non si addormenterà il tuo custode.
Non si addormenterà, non prenderà sonno,
il custode d’Israele.

Il Signore è il tuo custode,
il Signore è come ombra che ti copre,
e sta alla tua destra.
Di giorno non ti colpirà il sole,
né la luna di notte.

Il Signore ti proteggerà da ogni male,
Egli proteggerà la tua vita.
Il Signore veglierà su di te,
quando esci e quando entri,
da ora e per sempre

Ecco i miracoli della fede. Avevamo pensato di parlare di tutt’altro in questa trasmissione, ma, dopo che io e Gianni avevamo concordato e trascritto ciò che volevamo dire, sul computer, giovedì è stato cancellato tutto da un’improvvisa interruzione di corrente.
All’inizio abbiamo cercato di ricucire i brandelli del discorso, che avevamo disseminato sui fogli, poi abbiamo deciso di fare una preghiera e di lasciarci guidare dal cuore, chiedendo al Signore che le nostre parole fossero un mezzo non il fine del nostro servizio, che volevamo fare a Lui e non a noi. E questo è il risultato.
Per quello che ha fatto e continua a fare non finiremo mai di lodarlo benedirlo e ringraziarlo.
Siamo arrivati al termine delle nostre riflessioni ed è giunto il momento di lasciarci.
Dagli studi di Radio Speranza vi salutano Antonietta e Gianni
Canto : Il buon pastore (Risorto per amore 4)
22 novembre 2004

17 Famiglia oggi:riflessioni di coppia

  Rubrica radiofonica a cura di Gianni e Antonietta

Canto: Dio ha tanto amato il mondo (CD – “Risorto per amore” 10)

Benvenuti, cari amici all’ascolto di questa trasmissione. Dagli studi di Radio Speranza vi salutano Gianni e Antonietta
La volta scorsa per motivi di lavoro non ho potuto essere presente e a dire il vero la mattina, quando Antonietta mi ha salutato, un po’ l’ ho invidiata e avrei voluto tanto non avere impegni, per essere al suo fianco e non mancare all’appuntamento con voi. L’argomento l’avevamo concordato insieme, anche se lei si è preoccupata di sviluppare le riflessioni che avevamo fatto a proposito della nostra difficoltà a vivere il noi, dello sforzo continuo per non mollare, cercando di non mancare mai all’appuntamento della preghiera comune, perché se gli altri li saltiamo senza grossi complessi di colpa, l’appuntamento con il Padreterno ci sembra un sacrilegio non rispettarlo. A dire il vero, sono io che tendo a sottovalutare l’importanza di accordarci prima di metterci di fronte al Signore, pensando che lo Spirito Santo invocato basti a coprire la nostra pigrizia, la nostra difficoltà a metterci a nudo. Ma, come diceva giustamente Antonietta la volta scorsa, perché la corrente passi e le lampadine si accendano, bisogna che tutti i fili siano ben collegati tra loro, altrimenti si rischia un corto circuito.
Non avevamo quindi smesso di chiedere al Signore che riuscissimo a eliminare le distanze che ci separavano, prendendo esempio da Lui che ci ha mostrato come si fa, non quando si è fatto adorare in una mangiatoia collocata in una stalla, ma quando ha deposto le vesti e ha indossato il grembiule, per lavarci i piedi, che presuppone uno stare più vicini di quanto siamo in grado di sopportare.

Così la preghiera ha sortito l’effetto voluto perché, mentre io da questi microfoni, chiedevo al Signore l’umiltà e la perseveranza per poterlo imitare in ciò che istintivamente non siamo portati a fare, Gianni concretamente era stato chiamato a vivere quelle parole in una situazione di degrado psichico e fisico che vedeva protagonista una persona a noi molto vicina, emarginata da tutti, perché si comporta come un barbone.Ho ringraziato il Signore perché Gianni, pur privilegiando il silenzio, non si tira indietro di fronte alle necessità di chi soffre, anche se non si lava, l’ ho benedetto perché ha portato anche me, che avevo la “puzza sotto il naso” come si suol dire dalle nostre parti, a soprassedere e ad essergli a fianco, quando è necessario sporcarsi, per sollevare da terra chi rischia di rimanerci.
In questo tempo di Quaresima le beatitudini sono i valori a cui si deve uniformare ogni nostra volontà di cambiamento, ogni conversione che abbia come principio e fondamento Gesù, figlio di Dio, morto e risorto per noi. “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” non è l’ultima delle beatitudini. come giustamente nota san Gregorio Nazianzeno che invita a servire Cristo nei poveri. Gesù non ha avuto paura di sporcarsi, quando si è immerso nel nostro mondo impregnato di peccato, decidendo di nascere in una stalla ed essere deposto in una mangiatoia, riscaldato dal fiato di un bue e di un asino, mentre gente senza fissa dimora, vale a dire i pastori, andavano ad adorarlo. Quanto cattivo odore intorno a Gesù, il figlio di Dio fatto uomo! ma quale messaggio d’amore ci ha trasmesso attraverso quelle che sono state le sue preferenze!
Noi viviamo di pregiudizi e siamo bravi a parlare, ma non a fare, a meno che la gente in questione mantenga le debite distanze.
Luciana, incontrata all’inizio di questo cammino, è stata la battistrada su questa via che ci ha portato a concepire la carità non come un gesto grandioso ed emblematico, fatto una volta per tutte, ma un insieme di piccoli gesti ripetuti ogni giorno nei riguardi di chi il Signore ci metteva di fronte. Quando l’ho incontrata la prima volta, non abbiamo avuto bisogno di presentarci, perché è bastato guardarci negli occhi e riconoscerci, sorelle di latte nutrite alla stessa sorgente. Mi colpì il fatto che lei pregava per gente che non conosceva, che accoglieva nella sua casa senzatetto ed emarginati, che si adoperava a che quelli che vivono ai margini della nostra società opulenta avessero di che mangiare e nutrirsi, privandosi spesso del necessario per darlo a loro. Quando, in occasione di una vendita di beneficenza, mi chiese qualcosa da offrire, io non mi tirai indietro, ma misi una condizione: che quello che le davo non lo vendesse ad un prezzo inferiore al suo valore. La sua risposta mi disarmò, quando mi fece notare che anche se per la mia roba avessero dato pochi spiccioli, erano quelli che probabilmente servivano per aiutare una povera famiglia di sfrattati a pagarsi l’affitto.
Fino a quel momento la carità che conoscevo era quella che non mi scomodava, neanche per andare a fare un vaglia alla posta, con la scusa che non potevo stare in piedi, quella che era garantita dalla riconoscenza di chi aveva effettivamente bisogno, quando i bisogni degli altri li misuravo sui miei, quando la carità non nasceva dalla rinuncia e dal sacrificio..
”Non sappia la tua sinistra cosa fa la tua destra”, parole difficili da digerire, da metabolizzare, e invece è accaduto, perché la carità è contagiosa, e la gioia di chi dona senza aspettarsi il ricambio è la molla che ti spinge a provare di fare altrettanto.
Ne fu contagiato anche Gianni sì che, se non riuscivamo ad andare d’accordo per tante cose, lo trovavamo l’accordo subito, quando si trattava di andare incontro ai bisogni di fratelli più sfortunati, mettendo a disposizione quel poco o quel tanto che, a seconda dei casi, eravamo in grado di offrire.
Man mano ci siamo resi conto che il tempo, il bene più prezioso che il Signore ci ha dato, era quello che dovevamo essere disposti a donare agli altri, senza avarizia, quello sottratto al riposo, allo svago, a volte anche al lavoro, per regalare un sorriso, per portare un po’ di luce nel buio di tante situazioni drammatiche.
Man mano che aumenta la consapevolezza dei nostri limiti, dell’incapacità ad andare incontro alle esigenze di tutti, aumenta la nostra fiducia nel Signore che siamo certi è più bravo di noi a risolvere le situazioni, come fece quando moltiplicò i pani e i pesci perché ebbe compassione della folla che lo seguiva. La compassione è un sentimento che ci siamo dimenticati o non abbiamo mai conosciuto, è un sentimento divino, è il sentimento che Dio ha provato quando ha deciso di mettersi nei nostri panni e traslocare nel nostro mondo, abolendo le distanze che ci dividevano da Lui.

Mentre eravamo tutti presi a riflettere su come eravamo e come siamo, non senza un certo compiacimento,ci è capitato sotto gli occhi l’ articolo di Riccardo Orioles dal titolo “Tsunami quotidiano” sulla copertina di “Qualevita”, rivista a cui siamo abbonati che vi vogliamo leggere.
Mettiamo che – dopo lo tsunami – se ne sia salvato uno, anzi più d’uno, una barca intera, pescatori. Mettiamo che questa barca, sola, con pochi viveri, senza bussola, senza radio, abbia girovagato alla cieca per l’oceano, con un pesce ogni tanto, bevendo acqua piovana.
Mettiamo che siano sfuggiti alle ricerche, via via sempre più fiacche (navi ed elicotteri dovevano tornare ai loro compiti ordinari).
Mettiamo che nel frattempo, mentre essi navigavano, il loro paese d’origine sia passato progressivamente dalla prima pagina a quelle interne, dai titoli a nove colonne ai dibattiti pacati. Mettiamo che nel frattempo la tv abbia avuto il tempo per ricominciare ad occuparsi regolarmente, (cioè per tutto il tempo) di politica, di campionato di calcio, di Bruno Vespa e di veline.
Mettiamo che dopo un periodo lungo ma ragionevole – il diluvio infine durò quaranta giorni – essi siano riusciti ancora, benché isolati dal mondo, a mantenersi vivi. Che abbiano attraversato oceani, circumnavigato afriche, traversato stretti. E che alla fine, all’alba di una mattina come tante altre, uno di essi – il vecchio a prua, quello che li ha guidati, quello che incredibilmente non ha mai perduto la fede – improvvisamente si scuota, e gracchi la parola stentata che nella loro lingua significa “Isola! Un’isola là all’orizzonte”. E che l’isola sia là davvero, e sia italiana, e sia Pantelleria.
I sopravvissuti allo tsunami la guardano come non hanno guardato mai nessuno.
Bevono l’ultima acqua, e si buttano sui remi. E in quel preciso momento una motovedetta armata si appresta (Allarme clandestini!) a salpare da qualche base. E una nuova camerata viene apprestata in qualche vecchio lager. E un nuovo articolo contro l’immigrazione clandestina viene frettolosamente vergato in qualche giornale.
Tutto questo è per loro, poiché la tecnologia è efficiente e veloce, e già da qualche ora un radar li seguiva. Ma essi, che non lo sanno, fanno forza sui remi.
Peccato che siano giunti così tardi. Se fossero arrivati prima, ci saremmo commossi anche per loro.

Canto: Mio rifugio sei tu (CD – “Ad una voce” 8)

La rivista Qualevita ci è stata recapitata, guarda caso, insieme agli auguri di Natale, di Dominicus, il seminarista indonesiano, che abbiamo deciso di aiutare.Ci eravamo dimenticati di Dominicus quest’anno e ci voleva la l‘articolo per ricordarci che in Indonesia c’è stato lo tsunami.
Chissà se Dominicus è ancora vivo! Quando ha scritto gli auguri sicuramente lo era. E dire che ci sentivamo la coscienza a posto, dopo aver con la carta di credito mandato una bella sommetta a chi di dovere, per finanziare gli aiuti..
Dominicus, significa del Signore, è creatura che nel nome dichiara la sua appartenenza. Spesso, noi cristiani ce ne dimentichiamo e non pensiamo a chi apparteniamo, anzi ci dà fastidio pensare che possa succedere, ma ci arrabbiamo se non ci appartiene ciò che pensiamo sia nostro, solo ed esclusivamente nostro, che non siamo disposti a cedere a chicchessia, fatta eccezione per le grandi occasioni in cui ci sentiamo bravi a mandare un sms o qualcosina di più, a patto che non intacchi o non leda le nostre sicurezze future.
Tutto ciò che non ci serve non ci appartiene. Qualcuno l’ ha detto.Quante cose abbiamo ammassate che non ci servono, ma che ci guardiamo bene dal mettere in comune, dal darlo in uso, perchè si rovina e poi non si sa mai cosa può succedere.”Guardate i gigli dei campi, guardate gli uccelli del cielo, non seminano e non mietono, …” sembrano le parole di un visionario eppure quante volte abbiamo sperimentato come un gruzzolo faticosamente e gelosamente custodito non è servito a liberarci dall’angoscia di un lutto, dalla sofferenza di una malattia.
Quando ci è arrivata la lettera di padre Dino che ha provveduto a tradurci le parole di Dominicus, ci siamo chiesti chissà com’è cambiata la vita da quelle parti, se lo tsunami l’ha cambiata anche a noi, se siamo gli stessi dell’anno scorso, quando ci preparavamo al Natale.
Se le immagini che scorrono sul teleschermo avessero il potere di sporcarci di terra, di tingerci con il sangue di tante vittime che abbiamo visto morire insieme alle speranze dei pochi sopravvissuti, potremmo rispondere di sì.
Ci ha colpito il commento, che del Vangelo della quarta domenica di Quaresima abbiamo sentito fare da un sacerdote, che parlava da questa emittente, a proposito della guarigione del cieco nato.
Sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: “Va’ a lavarti nella piscina di Siloe” parole che ci interpellano proprio su quello sporcarsi di Gesù che per guarire il cieco nato prende della terra e l’impasta con la saliva per metterla sugli occhi del malato che cerca la guarigione. Ma che Dio è questo, che per toglierti un problema te ne aggiunge un altro e che per farti riacquistare la vista ti sporca gli occhi?
Ma proprio quel gesto porta il cieco a desiderare di lavarsi, a fare sua la volontà di Gesù
La fede passa attraverso un contatto fisico con il Signore che vive in ogni fratello che incontriamo sulla nostra strada e presuppone la nostra docilità a sporcarci e ad essere sporcati, toccare ed essere toccati.
La scorsa volta riflettevamo sulla distanza che separa gli uomini e in particolare i cristiani che hanno tanta difficoltà a condividere lo spazio e le comodità di cui godono, con chi è più sfortunato di loro.
Abbiamo pensato ai nostri amici di Milano che hanno cominciato con il cercare qualcosa che desse un senso alle loro giornate e li occupasse, una volta andati in pensione. A lui che da semplice osservatore è passato ad essere utilizzato a tempo pieno nella Croce verde, senza ferie e feste comandate che si rispettino, perché la sofferenza e il dolore non vanno in vacanza, e Gesù i malati per guarirli privilegiava il sabato, abbiamo pensato sorridendo a lei che a Natale si è rifiutata di portare i panettoni a domicilio nelle case di chi non conosceva e che, tempo tre mesi, esce di casa ogni giorno, per incontrare gli extracomunitari e insegnargli come si parla.
Abbiamo ripensato a quella passeggiata di fine agosto, quando, bighellonando tra le bancarelle di un mercatino, verso il tramonto, ci siamo imbattuti in Luciana che dalla mattina stava in piedi a vendere le cianfrusaglie, di cui volentieri anche noi ci eravamo liberati, perché ci fosse uno squarcio di luce anche per chi è abituato a vivere al buio.
Abbiamo ripercorso il sentimento che ci ha portato a guardare con altri occhi chi sta dietro un banchetto, per guadagnarsi la vita o strapparne un poco per gli altri, che tutto ciò comporta sacrificio e fatica, che il contrattare, specie per ciò che è destinato alla beneficenza è peccato mortale, che alla sera i banchetti bisogna che ci sia uno che se li carichi sopra le spalle o su un furgone e che la roba rimasta va incartata e messa per bene in ordine, da parte, perché la prossima volta non ci si impazzisca anche solo a cercarle le cose.

Ho ripensato a quando, da piccola, vedevo togliere i bottoni alle cose da regalare, ma la guerra aveva lasciato il segno e non ci potevamo permettere di buttare nulla che potesse servire.
Abbiamo ringraziato il Signore per le tante storie nelle quali ci hanno permesso di entrare i protagonisti, abbiamo ricordato quanto ci ha regalato il batticuore di Monica che abbiamo accompagnato a Roma ad incontrare il marito, sposato da meno di un anno, che si era fatto tre giorni di pullman, senza dormire per riabbracciarla, dalla Bulgaria, il sorriso sdentato di Ovidio e la puzza sui suoi vestiti di chissà quanti pacchetti di sigarette, fumate durante il tragitto, la tenerezza e il pudore dell’abbraccio dei due giovani, quando si sono rivisti. E che dire della solidarietà che si è accesa intorno al pancione della piccola albanese che era rimasta all’agghiaccio e che rischiava di abortire in pieno inverno, se il passa parola delle piccole e silenziose formiche, la sera di un sabato, quando le mense e gli uffici delegati a questo scopo erano chiusi, non avessero provveduto a recapitarle nel giro di poche ore l’occorrente per non morire?
Ci siamo chiesti dove avevamo la testa, in che mondo vivevamo, quando ci sentivamo a posto con la coscienza, dopo aver largheggiato nel fare l’elemosina al disgraziato che suole sostare davanti alla chiesa o al lavavetri, che con quei soldi volevamo levarci di torno.
E pensare che quando mi dissero se potevo dare una mano ad impacchettare i doni per i bambini poveri in occasione della Befana non mi posi il problema che era necessario portarsi le forbici e il nastro adesivo e lo spago e la carta per impacchettarli i regali. Un’altra occasione per toccare con mano come la carità sia frutto di un insieme di piccoli gesti, di fatica, di sacrificio, ma soprattutto di amore.

Ma accanto a questi ricordi sono emersi quelli legati ai volti di chi non ci ispira simpatia, di chi non lo merita, degli scorbutici, di quelli che non ci fanno pietà ma solo rabbia,perché potrebbero darsi una smossa, come si dice dalle nostre parti, e prendere per i capelli la propria vita invece di buttarla e di lamentarsi aspettando che qualcuno venga a salvarli.
Abbiamo pensato che il difficile sta proprio lì, dove la compassione fa fatica a farsi largo e non ti fa aprire il cuore, a causa di un giudizio che ne tiene chiuse le porte.
Il Signore ci invita, in Quaresima, a fare silenzio, a far penitenza, a prendere coscienza dei nostri peccati e ad ascoltare cosa dobbiamo fare per trovare la gioia.
Ascolta Israele, se tu mi ascoltassi!” sono le parole che percorrono tutta la Bibbia. E il comandamento che unisce il Vecchio e il Nuovo Testamento è l’amore.
La fede è entrare in questo mistero, nel mistero di un Dio che per amore si è sporcato e vuole sporcarci, per farci vivere l’esperienza esaltante di trovare la gioia in ogni fratello che soffre, perché è lì che Lui si nasconde, è lì che Lui vuole incontrarci, una volta che, alla piscina di Siloe, siamo andati a lavarci.
La capacità di amare nasce dall’incontro con il Maestro, dalla docilità con cui seguiamo la sua parola, dal desiderio di non tenere per noi ciò che gratuitamente ci è stato donato.
Come si fa, c’è da chiedersi, ad imporre ad un uomo di amare? Se non c’è attrazione, come può nascere l’amore? Come può perpetuarsi se l’altro cessa di essere amabile? La risposta l’abbiamo sentita alla radio la scorsa mattina, da don Paolo Curta che, commentando il Vangelo del giorno, ci ha invitati a lasciarci amare da Dio con tutta la forza, con tutta la passione di cui è capace, anche se questo comporta farsi mettere del fango sugli occhi per accorgercene.

7 marzo 2005

Canto: Canto: Dio ha tanto amato il mondo (CD – “Risorto per amore” 10)

10 Famiglia oggi:riflessioni di coppia

Rubrica radiofonica a cura di Gianni e Antonietta
Canto:Cristo è risorto veramente (CD  “Risorto per amore” 1)
Un caro e affettuoso saluto a tutti, amici all’ascolto di questa trasmissione. Dagli studi di Radio Speranza vi danno il benvenuto Gianni e Antonietta.
Benvenuti a che cosa direte voi, a cosa ci chiediamo noi. Siamo qui per condividere con voi la fatica dell’andare, la difficoltà a ripetere ancora una volta quel sì che il Signore ci chiede ogni giorno, ogni momento. Non è facile, come anche voi ben sapete, e ancor più è difficile testimoniare ciò che non si riesce a fare. I paramenti del sacerdote da una settimana hanno cambiato colore, sono verdi come l’erba dei prati, quella che aspettiamo venga a spuntare nella nostra terra arida e spoglia dell’inverno, non ancora passato. Ma il seme è stato gettato, la vita palpita e freme, in attesa che il sole di Pasqua faccia sbocciare tutti i fiori che in essa vi sono racchiusi. Ma quando le giornate sono sempre più grigie, quando il tempo è lento a passare sui problemi che si ripresentano, sempre uguali, non è facile guardare gli alberi spogli, la terra compatta e gelata, il cielo coperto di nubi, la nebbia che ti penetra dentro, e gioire e sperare nel miracolo della natura che si rinnova.
Per fortuna Antonietta, per rendere proficuo il tempo dell’attesa e non dimenticare, è solita scrivere gli eventi dell’anima su tutto ciò che di bianco le capita sotto tiro. Fino a poco tempo fa le dicevo che, dopo la sua morte, non mi sarei annoiato, perché avrei messo in ordine a tutti i fogli, i diari e le agende che nella sua vita è andata riempiendo, che testimoniano il tempo della malattia e il tempo della rinascita.. Non sapevo che il Signore ci avrebbe chiamato in anticipo a condividere quelle riflessioni per donarle anche a voi e farle diventare patrimonio comune.
Ecco quello che sulle stagioni ha scritto a luglio del 2001:
Signore ti voglio lodare benedire e ringraziare per l’opportunità che ancora una volta mi concedi di mettermi al tuo cospetto, di rivolgere a Te lo sguardo con la certezza che mi ascolterai e mi consolerai.
Ti ringrazio perché la speranza non va mai delusa, perché mi doni la pazienza di attendere, la fiducia che tu presto arriverai. Signore, tu che hai creato le stagioni, diverse l’una dall’altra, tutte ugualmente utili e belle perché nate dalla tua sapienza infinita, Tu tutte le ami, perché le hai pensate per noi, le hai fatte così perché imparassimo ad accogliere il seme divino della tua grazia, lo custodissimo con cura nel nostro cuore, avessimo la pazienza di attendere che germogliasse, fossimo preparati a vederlo anche soffocato da erbe cattive, non ci stupissimo nel veder spuntare un segno di vita dove mai avremmo immaginato fosse possibile.
Tu, Signore hai pensato a tutte queste cose e a tutte quelle che ci hai concesso di vedere, quando arriva la primavera e i campi si coprono di erba fresca e tenera, quando i rami degli alberi si rivestono del loro verde rinnovato e splendente, quando i colori dell’arcobaleno si posano sui fiori appena sbocciati, unendosi alla sinfonia della natura che cresce.
Così ci prepari al grande banchetto dell’estate, quando giungono a maturazione e possiamo gustare i frutti succosi a lungo aspettati. Signore tu hai creato le stagioni, nessuna uguale all’altra, tutte utili e belle, ma solo una è quella in cui si miete e si raccoglie.
L’estate è la stagione per noi più breve, è quella che non vorremmo finisse mai, è il tempo in cui vorremmo perderci, perché non è tempo di attesa, non è tempo di deserto, non è speranza che qualcosa arrivi finalmente a saziare la nostra fame, a dissetare la nostra gola riarsa: basta allungare la mano e il frutto morbido e dolce dell’albero della vita viene a riempire la nostra bocca, finalmente appagandola nel suo desiderio ancestrale.
Delle nostre stagioni, Signore molte a volte ci sembrano inutili, perché il sole non le riscalda, la terra è grigia, le zolle dure e compatte, gli alberi con i loro scheletri pietrificati protendono invano le braccia nel cielo grigio e pesante.
Da quel cielo, Signore, il sole non sembra passare, perché le nuvole spesse lo coprono agli occhi e al cuore, premono, gravando con il loro peso, sulla dura crosta gemente, facendogli ancora più male.
Signore, ci sono stagioni in cui gli elementi si scatenano e tutto sollevano, stagioni in cui anche quei miseri resti di vita, spogliati del loro verde mantello, sono travolti dalla furia degli elementi scomposti, sussultano, singhiozzano, chiedendo pietà.
Ma arriva il momento in cui tutto finisce, perché anche le bufere più grandi hanno un termine, anche il cielo più buio e ingolfato si mostra togliendosi il velo, le meraviglie a lungo celate.
Così il sole ecco salire nel cielo, ecco le stelle spuntare nel buio, ecco l’azzurro riempire il cuore di quella natura, che non aveva smesso di credere che, oltre le nubi, l’azzurro non fosse scomparso per sempre.
Così la pioggia, la grandine, il vento non sempre accettati, acquistano un senso perché sono momenti del divenire del tempo, di cui tu sei padrone e signore, sono momenti del divenire delle tue creature perché si trasformino come le vuoi, come le hai progettate e pensate.
Arriva il momento in cui l’uomo cessa di divenire per essere.
All’infinito un giorno potremo vedere spuntare dal grembo della madre ormai pregno, i teneri fiori dei campi, i luccicanti germogli sui turgidi nodi dei rami, il risveglio da un sonno che sembrava di morte perché tutto si colora di luce, che dona agli occhi stupiti, la gioia della grazia multiforme e infinita.
C’è un tempo per piantare, un tempo per arare, un tempo per raccogliere, ma il più lungo è quello dell’attesa, Signore: tempo di silenzio tempo di deserto, di desolazione e di morte.
Fa’ Signore che in esso riusciamo a percepire la vita che si prepara nelle viscere calde della natura.
Fa’ che sappiamo aspettare senza paura, fa’ che sappiamo vedere il colore nel grigio delle nostre giornate piovose, fa’ che sappiamo apprezzare anche ciò che è lungo a passare, fa’ che la nostra stagione sia compimento di ciò che hai stabilito dalla notte dei tempi per ognuno di noi.
Canto: Fa che io creda o Signore (CD – “Io scelgo te ” 5)
Ebbene in questa settimana è accaduto proprio questo: abbiamo avuto non poche difficoltà a guardare oltre, ad accettare io le parole di Antonietta, lei il mio silenzio, a sintonizzarci sulle frequenze dello spirito, mentre sempre più eravamo attirati dalle nostre frequenze, dalle nostre disarmonie che non ci piaceva condividere con nessuno. Se ci appartiamo, se non ci mescoliamo, se non ci confrontiamo, nessuno si accorge che siamo stonati e smette di pretendere che sappiamo cantare. Così ci siamo trascinati, i primi giorni della settimana, incapaci di trovare il coraggio di riprendere il cammino insieme, dopo che delusi avevamo constatato che l’altro non ci capiva, quindi non ci amava, deduzione che sembra non fare una grinza.
Ma per fortuna, pur nella confusione, nel caos, nella dispersione di ciò che faticosamente avevamo costruito, non abbiamo smesso di cercare il faro, la direzione, dove dovevamo dirigere la rotta. Il cielo coperto di nubi, il vento impetuoso che travolgeva ogni cosa, la sabbia del deserto sollevata fino alle stelle, sembravano ostacoli insormontabili per vedere fisicamente dove brillava la luce. Ma questo sarebbe stato un ostacolo se non ci fossimo esercitati a cercare dentro di noi, ciò che Dio vi ha seminato. Così, indipendentemente l’uno dall’altro, abbiamo ricordato le parole che ci eravamo dette tempo fa: “Quando il non senso delle nostre giornate si prolunga è la preghiera che deve dare loro un senso”
Così abbiamo separatamente, in chiese e in orari diversi, chiesto a Dio l’aiuto di cui avevamo bisogno per tornare a camminare insieme, accettandoci per quello che siamo, con le nostre debolezze, i nostri piccoli e grandi difetti, la nostra difficoltà a farci vedere fragili e indifesi, la nostra incapacità ad essere migliori.
Rabbì dove abiti?” è la domanda che abbiamo continuato a rivolgergli, queste le parole che ci hanno accompagnato, in questi giorni, dopo aver disfatto il presepe e non avendo davanti nulla che ce lo facesse ricordare.
Ben diverso era lo stato d’animo di Antonietta quando scrisse queste riflessioni, a ridosso delle feste dello scorso anno.
Aspettando che Giovanni si svegli.
Oggi sono cominciate le mie vacanze, quando sono finite quelle degli altri.
Il mondo si è rimesso a girare con le sue leggi e i suoi ritmi, io ritorno ai miei più consoni, perché pur nella fatica del procedere, riesco a gustare più a fondo e per tempi più prolungati, la grazia di Dio e a sintonizzarmi con meno difficoltà sulle frequenze dello spirito.
Così questa mattina, dopo la Messa, sono tornata a casa con in testa mille cose da fare.
Ma erano già le 10,30 quando agli occhi mi è balzato il presepe. Certo non ci avevo pensato: il presepe bisognava disfarlo e riporlo con ordine per il prossimo anno. Dovevo farlo perché il giorno dopo Anna, avrebbe provveduto a spolverare e lavare per bene i piani della libreria, che dovevo liberare per tempo
Questa mattina, nella preghiera con Gianni, il compagno che Dio mi ha messo accanto con cui ho imparato a pregare, per costruire quel ”noi“assente quando ci siamo sposati, avevo parlato del presepe come guida di questo Natale e di questo avrei voluto scrivere, del dono che per me era diventato, un dono sempre più imprevedibile e ricco.
Quel presepe avrei voluto stamparlo nel cuore, quello della Chiesa di S. Giuseppe che mi era parso tutto sbagliato, ma che non aveva cessato di parlarmi.
Del resto non poteva che essere così, dopo che per due martedì consecutivi avevamo invocato lo Spirito su chi lo stava preparando.
Di quel presepe, messo non in cantina, ma riposto nel cuore, avrei voluto usare ogni immagine, perché nel presepe c’era l’uomo, tutto l’uomo, c’ero io che mi riconoscevo in quell’asino che girava a vuoto intorno al pozzo, senza che nessuno prendesse l’acqua o quello di un uomo che continuava a pescare nel suo piccolo stagno un pesce, sempre lo stesso o quel cielo senza stelle lontano dalla stella cometa o quelle case sull’alta montagna, illuminate, ma vuote di abitanti e di vita.
Avrei voluto ripescare le immagini, durante i giorni dell’anno, di quella sabbia setacciata con cura da Massimo e Anselmo, messa in abbondanza davanti alla grotta, per ricordare che siamo polvere sulla bilancia dell’Altissimo, che siamo deserto arido, senz’acqua, avrei voluto tenere lo sguardo fisso ai pastori che in quel deserto forzato camminavano sicuri e dritti, perché davanti avevano la luce che si sprigionava da dentro alla grotta.
Avrei poi sicuramente voluto tenere a portata di mano la mangiatoia e in essa immedesimarmi, perché è lì che Gesù l’ho visto e mi sono persa.
La Madonna, S. Giuseppe, la cometa, i Magi, la grotta, fredda e umida, lontana dai rumori della città…in quante parti mi sentivo scomposta, in quante contrastanti, dai sapienti dell’oriente lontano, ai doni di morte e di vita, all’erba, alla roccia alle pecore, le grasse e le magre, le ferite e quelle appena nate e i pastori e il Pastore che le chiama per nome e le guida e le accarezza e le prende in braccio, perché ha compassione del suo gregge, che ha bisogno di lui.
Ecco la compassione era il tema delle varie letture che per sbaglio ho letto questa mattina. L’ho scritto anche all’inizio di questo diario: Dio ci ha amato per primo, ha avuto compassione di noi.
Per compatire bisogna fare un trasloco dall’io al tu, bisogna diventare come il tu pecora, agnello, asino, pescatore, casa vuota posta sopra le alture, sabbia setacciata di un deserto sconfinato…
Bisogna compatire, patire con, soffrire con, perché il presepe non sia disgregato e sconnesso, bisogna compatire perché i pezzi siano funzionali l’uno all’altro, bisogna compatire se vogliamo che l’opera dell’uomo diventi capolavoro di Dio.
Quando questa mattina ho disfatto il presepe, ho con devozione preso il bambino e ho pensato che un trasloco avrei voluto farlo dentro di lui, ma mi è sembrato un azzardo e una bestemmia.
Avrei voluto tanto essere lui… mi ha consolato che lui non ha avuto problemi a traslocare in una fredda e umida mangiatoia.
Sicuramente non mi avrebbe negato la gioia di essere ospitato nella mia casa sporca e disordinata.
Avrebbe lui provveduto a metterla in ordine e a purificarla fino a trasformare un desiderio blasfemo in una realtà possibile.
Diventare come Lui., a questo Dio ci ha chiamati, per questo ci ha scelti. Ho ringraziato il Signore perché quest’anno mi ha fatto lezione davanti ad un presepe, l’ho ringraziato per il dono di tanti fratelli che mi ha dato da compatire e da accompagnare.
Ma specialmente l’ho ringraziato per tutti quelli che in silenzio e senza pretese lo hanno fatto senza che me ne accorgessi.
Canto: Padre mio ( CD “Il tuo amore è grande” 2)
L’Epifania tutte le feste non se le porta via, perché, se i doni del mondo rispettano i calendari, per Dio, tutti i momenti sono propizi, perché il tempo, morendo, l’ha trasformato in occasione perenne di grazia.
Non a caso, la liturgia delle feste non si conclude con il 6 di gennaio, giorno dell’Epifania, ma con la domenica successiva in cui si celebra, il battesimo di Gesù, inizio e fondamento della festa più grande, preparata da Dio per ogni uomo.
La Chiesa, per paura che, riponendo in soffitta il Bambinello, ci mettessimo pure ciò che ci aveva portato, per ricordarci che non c’è momento che non ce lo dia, ce lo presenta che si mischia alla folla, per ricevere da un uomo, Giovanni, ciò che lui è venuto a portare, rinnovando quel lavacro di acqua, con lo Spirito su di lui effuso.
Ma per conoscere e apprezzare e godere del dono, è necessario che lo seguiamo sulle strade da lui percorse, per sentire che cosa ha da dirci, con chi si mischia, chi predilige, a chi si rivolge, come si pone, cosa fa tra un miracolo e l’altro, tra un insegnamento e il successivo.
E’ straordinario come seguendolo, passo passo, ci accorgiamo che la preghiera è ciò che lega la sua storia alla nostra: la preghiera fatta al Padre mediante lo Spirito.
Gesù, non ha avuto paura di sporcarsi, di inquinarsi, quando si è trattato di immergersi tutto in questa brodaglia melmosa e fetida dei nostri insulsi, sconvolti e irriconoscibili presepi.
Lui l’acqua la rende chiara e pulita, prendendone sopra di se tutto lo sporco.
Ma, come la calamita attrae a sé tutti i materiali ferrosi, non cambiando la sua natura né la sua funzione, una volta che li togliamo, così Gesù, rimane lo stesso, capace di mettere sopra l’altare oltre alle scorie, se stesso, per bruciare insieme ad esse e donare al mondo la speranza di essere per sempre salvato..
Gesù non ha avuto paura di mischiarsi con noi, perché non si è mai staccato dal Padre a cui è rimasto unito indissolubilmente attraverso la preghiera.
Per andare oltre, per non smettere di sperare, vale la pena frequentarlo, vedere quali luoghi predilige, quali sono i suoi gusti.
Bisogna viverci insieme e anche dormirci, perché non ci siano sconosciuti i modi e i tempi delle sue azioni, che impareremo ad amare perché ci vengono da Chi non ha creato niente per sbaglio e, tutto ciò che ha creato, lo ha per primo amato.
Così abbiamo pensato che non dobbiamo avere paura a vivere insieme a chi non ci piace, a confrontarci con chi non la pensa come noi, ad accogliere chi ci delude, chi disattende le nostre aspettative, chi non ci capisce, chi non ci ama..
Gesù ci dà l’esempio di come andare verso l’altro, partendo dalle sue domande, dai suoi bisogni, e non dalle nostre risposte, da ciò che diamo per scontato.
Ecco lo sconto è quello che tutti cerchiamo. E’ periodo di saldi e tutti corrono a fare acquisti, sperando di pagare di meno. Bisogna fare la fila, i primi giorni, davanti a certi negozi, e farsi largo con prepotenza, se vuoi arrivare a prendere qualcosa che abbia un valore superiore a quello stampato sul cartellino. Lo sconto è la meta a cui gli affezionati dei saldi agognano. Poi sono le stesse persone che la vita la vivono come se fosse loro tutto dovuto. Danno per scontato che, la mattina, quando vanno al lavoro o a fare la spesa, il traffico scorra veloce, che i semafori siano sincronizzati sul verde, che dall’altra parte dello sportello ci sia gente sorridente e gentile, danno per scontato ogni cosa, perché non sanno vivere senza che qualcuno gli faccia regali. Il bello è che non si accorgono di chi glieli fa e non sono abituati a ringraziare.
Quattro gesti di tenerezza al giorno aiutano a sopravvivere, otto a vivere, ci ricordava don Carlo Rocchetta in un incontro per la pastorale familiare.
Abbiamo avuto non poche difficoltà a farlo all’inizio, perché l’abitudine ci aveva chiuso gli occhi e il cuore alla gratitudine, ma poi ci siamo ripromessi di dirci almeno quattro grazie al giorno, per non morire. L’abbiamo anche scritto sull’agenda all’inizio dello scorso anno, come impegno per una rinnovata vita di coppia.
Ma abbiamo constatato quanto sia difficile mettere in pratica i buoni propositi e ci siamo ritrovati, come spesso succede, ad accorgerci dell’esistenza dell’altro, solo quando per qualche motivo non faceva le cose che ci aspettavamo e su cui eravamo abituati a contare: il caffè al mattino portato a letto, la spazzatura scesa la sera con qualunque tempo e in qualsiasi stagione..
Dicevamo di questa settimana, di quello che abbiamo vissuto, di come abbiamo cercato di affrontare i problemi e di come non li abbiamo risolti. Ma ancora una volta abbiamo sperimentato che la fede non ci toglie i problemi, ma ci dà la capacità di affrontarli insieme senza arrabbiarci, unendo i nostri sforzi e fidandoci di Dio
Vogliamo chiudere questo incontro con una preghiera e una riflessione che ci suggerisce un autore spirituale, Jean Debruynne, che ha incentrato tutta la sua invocazione sulla nostra attuale incapacità di attendere serenamente.
.
Dio, hai scelto di farti attendere
Per tutto il tempo di un Avvento
Io non amo attendere.
Non amo attendere nelle file
Non amo attendere il mio turno.
Non amo attendere il treno.
Non amo attendere prima di giudicare.
Non amo attendere il momento opportuno.
Non amo attendere un giorno ancora.
Non amo attendere perché non ho tempo.
E non vivo che nell’istante.
Ma tu, Dio hai scelto di farti attendere
per tutto il tempo di un Avvento.
Perché tu hai fatto dell’attesa
lo spazio della conversione,
il faccia a faccia con ciò che è nascosto.
Solo l’attesa desta l’attenzione
e solo l’attenzione è capace di amare
Canto: Cristo è risorto veramente (CD – “Risorto per amore” 1)

17 gennaio 2005