Preghiera

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“Cessate di fare il male, imparate a fare il bene”(Is 1, 16.17)

Sembrano tutte uguali le letture di questi giorni, piene di rimproveri, di esortazioni, di minacce.
Non mi piacciono specie quando sei nel deserto della notte e ti dibatti su quale medicina prendere per avere meno male, su quale strada percorrere in alternativa a quella che stai percorrendo e che fino al giorno prima ti sembrava quella giusta.
Tutte uguali, le letture che riguardano i rapporti con i tuoi amici, i tuoi nemici, con te stesso e con Dio.
Ogni mattina cerco il nuovo, la meraviglia nella Parola di Dio, qualcosa che mi cambi questo stato di vita e di morte, qualcosa che mi tolga da questo crinale su cui sto in bilico con la morte e la vita che si congiungono e s’incastrano tanto perfettamente che non sai più se appartieni all’una o all’altra o ad entrambi.
Non so se a tutti è dato di vedere il mondo così come l’ho visto io in questi ultimi tempi, se i pensieri, le azioni sono condizionate dalla percezione che niente è scontato e che Dio, gli uomini, tu stessa può accadere che scompaiano e rimane una non presenza, un assenza di un tu con cui relazionarti, cosa, persona, animale, uomo..
Non so, non capisco tante cose che mi stanno succedendo o che mi sono accadute e forse neanche me ne do pensiero.
Sto dietro, mi sono messa dietro a guardare a lasciarmi guidare da chi ne sa più di me.
A volte questo Dio che celebro nelle mie carte non lo vedo presente ovunque, anzi se posso dire la verità non lo vedo da nessuna parte, ma sento so che c’è.
Mi sento da Lui avvolta, come in un utero di madre, custodita, accolta, curata e al sicuro.
Tutto è buio però nella pancia della madre, il bimbo non vede niente ma lo rassicura la voce di chi lo avvolge con il suo involucro di carne, di sangue, di vita.
Gesù continua ad insistere che dobbiamo imparare a fare il bene, che non dobbiamo inorgoglire, che ci dobbiamo preoccupare degli altri prima che di Lui e di noi stessi.
Parole sante se stessi fuori all’aria aperta, se potessi muovermi come voglio, se i miei pensieri riuscissero ad andare oltre una tachipirina di supporto, un SOS alla dottoressa che mi ha in cura, una preghiera a Dio tacita, perchè Lui sa di cosa ho bisogno.
In queste notti gli altri scompaiono e rimani solo tu, novello Prometeo attaccato, legato alla rupe a scontare i tuoi peccati di superbia, di arroganza, legato e impotente perchè sei polvere e polvere tornerai.
Devi fare salti acrobatici, voli pindarici per convincerti che questo è il vecchio testamento e che con il nuovo è finita la tua condanna e che non ci sono più Prometei legati, che Dio salva, Dio libera, Dio ama.
Crederci quando il masso di Sisifo ti rotola addosso, quando ti ritrovi ai piedi della montagna che hai scalato con Lui, crederci quando intorno è tutto vuoto, senza fiori, nè erba, nè acqua e non c’è nessun o che ti dia una mano a fasciarti le ferite…
Solo…
L’esperienza della solitudine, del silenzio di Dio non è solo di chi non crede, che avrebbe un suo perchè.
Se non credi cosa puoi aspettarti?
La più grande prova, il più grande dolore, lo smarrimento più angoscioso è quando un amico ti tradisce, si dimentica di te, non si fa più sentire.
E’ questo l’inferno Signore?
Non vederti, non sentirti, non averti…
E’ l’ìnferno questo in cui non ti viene, non riesci a pregare nè i vivi nè i morti perchè sono tutti scomparsi all’orizzonte dove la nave pian piano li sta portando in porto sicuro?
E io che sono rimasta qui, pesta e confusa, mi chiedo dove ho sbagliato, quale breccia devo attraversare per entrare nel tuo riposo.
Una fessura, una piccola fessura mi basterebbe per allargarne i margini ed entrare.
Una fessura, uno sbocco, un canale…
attraverso cui possa vedere la luce per orientarmi in questo mare di confusione.

BAMBINI

” Lasciate che i bambini vengano a me.”
( Mc 10,14)
Certo è che per capire la parola di Dio bisogna che il tempo passi, che l’acqua, tanta acqua scorra sotto i ponti e che abbiano superato il livello di guardia non una ma cento, mille volte.
Peccato che ce ne accorgiamo tardi ma meglio tardi che mai.
Quando rimasi incinta del mio primo e rimasto unico figlio non trascurai di leggere tutto ciò che era necessario per conoscere ciò che io avrei dovuto dargli per farlo stare bene, per assicurargli un futuro di bravo e buon ragazzo, educato, rispettoso e pronto per affrontare senza timore le inevitabili battaglie della vita.
E di questo ne avevo avuto un assaggio indigesto non appena lo concepimmo, perchè fu allora che incappammo da subito in medici, medicine, ospedali, indagini, mala sanità inframezzata da qualche rarissimo spiraglio di cielo.
Perchè a ben pensarci, come commentò la mia amica dopo aver letto la storia, il mio primo e per ora rimasto unico libro che ho scritto fermo al 5 gennaio 2000, dobbiamo pregare per questi poveri medici su cui confluiscono le nostre aspettative puntualmente deluse.
La vita non è andata in vacanza da allora, anzi si è data da fare per farmi sentire viva, e quale corpo può dirsi morto fino a quando sente il dolore?
Se è per questo non sono viva ma stravivivissima e come dice la mia amica Michela Malagò vivisiima e strabenedetta, con cui lei, amica del Web mi saluta al mattino.
In questa settimana, poichè io sono scomparsa, sono scomparsi i saluti.
Chissà a quanti è venuto in mente che stavo male di più, se fosse stato possibile!
Tornando ai bambini su cui ti soffermi solo dopo dopo che ti sono venuti a mancare, ripenso al mio diventare orfana di figlio prima di metterlo al mondo, visto che a due mesi mi fecero l’anestesia totale per togliermi quel grumo di sangue che hanno chiamato gravidanza extrauterina ma che di extrauterino era solo il loro cervello, quello dei medici, che poi si sono inventati per coprire l’abbaglio che avevo una tuba cistica.
Un pezzo di giovane di 2 metri con tanto di moglie e di prole è la mia gravidanza mancata che mi fu restituita dopo 5 anni da mia madre.
E io ancora con la testa imballata su ciò che è giusto e ciò che non lo è, ciò che dovevo dare non mi preoccupai minimamente di cosa poteva dirmi un bambino sconosciuto di 5 anni, pur essendo io quella che lo aveva partorito.
Ma siamo abituati a metterci in cattedra e non ci sfiora l’idea che i bambini hanno tanto da insegnarci.
Ne ho fatto esperienza con i figli di mio figlio, l’ex extrautereino, che infischiandosene che la scuola mi aveva messo in pensione perchè incapace di deambulare, affidò alle mie cure prima Giovanni e poi Emanuele di 4 anni più piccolo.
I miei libri di carne li chiamo, perchè il vangelo me l’hanno insegnato loro, aprendomi gli occhi e le orecchie alla meraviglia, facendomi rimpicciolire a tal punto da mettermi con loro nelle tane delle formiche o nei raggi di luce che si immillano quando al mattino il sole poggia i suoi raggi sul mare increspato dalla brezza leggera.
Giovanni li chiamò “scintillanti” e da allora ne andammmo in cerca, ne facemmo una professione, per riempire ogni giorno il nostro sacco di grazie a Gesù, a Maria, a Dio, a tutta la corte celeste.
Fu un ‘mpresa far entrare a 6 anni di distanza il piccolo Emanuele nel sacco lui che non conosceva il nostro linguaggio cifrato.
Emanuele diceva che a casa mia c’era il lupo ma lo Spirito santo non va in vacanza e mi suggerì quella volta e fu per sempre che, invece di consolarlo dicendo bugie sul rientro anticipato della madre con eventuale regalino, mi sono fatta lui, sono diventata Emanuele e con lui ho cominciato a entrare nel suo dolore parlandogli della mamma, di quanto era bella, di quanto morbide le sue braccia, dolci i suoi baci.
Che aveva ragione a piangere, anche io l’avrei fatto.
Si rasserenò quasi subito, un po’ quello che accadde a me qualche giorno fa in cui, presa dalla disperazione, tanto stavo male, mi si aprì la pagina delle LAMENTAZIONI.
Mi sono sentita dire che avevo ragione a lamentarmi e che Dio mi metteva in bocca la sua parola per non farmi sforzare.
Mi sono sentita dire che c’è spazio anche per il lamento, che non è peccato e che Dio attraverso un bambino gà anni prima me l’aveva suggerito per farmi guadagnare la fiducia in Lui che mi ama di amore eterno e sa cosa consola l’uomo.
C’è un tempo per ridere, un tempo per piangere, un tempo per ringraziare il Signore di quel pianto e di quel riso.

Il giardino

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Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.(Gn 2,15)

Sfogliando il diario…
Le piante del mio giardino continuano a seccare, mi viene da dire di primo acchito, pensando a questa mia vita sempre più avara di consolazioni.
Molte le ho dovute buttare. Non ho il pollice verde, come mia madre, e l’impresa di ridare vita al giardino primordiale che ci siamo negati con il peccato, sempre più appare impresa disperata.
Ma se mi fermo a guardare un po’ da vicino ci sono piante che continuano a vivere nonostante la mia ignoranza in materia e le condizioni meteorologiche avverse.
Le più resistenti sono le piante umili, quelle che non si distinguono per grandezza , per rarità, per forma, quelle che in genere non si regalano perchè non ci si fa una bella figura.
Ho deciso di occuparmi dei fiori e d’imparare a farli crescere e riprodurli perchè il mio terrazzo sorridesse a chi passa e lo mettesse di buonumore.
Il balconcino fiorito che mi sta di fronte me l’ha suggerito, perchè ad ogni ora del giorno, quando mi affaccio, mi manda un messaggio d’amore, mi parla di Dio che si preoccupa anche la notte di dirmi che lui è lì a dare vita e colore e profumo a tutto il creato, dal più piccolo filo d’erba alla poderosa quercia che mi fa ombra quando il sole scotta d’estate.
Dicevo che quest’anno la lotta è dura, perchè c’è un verme velenoso che mangia la polpa dei miei gerani.
Ma se da un lato succede questo, dall’altro c’è una pianta che probabilmente non piace all’intruso che continua a produrre bacche rosse che cadendo nel terreno spargono il loro seme e rendono rigogliosa la terra nei vasi.
Ma non è solo questo.
C’è una pianta di cui non conosco il nome che dopo tre anni, con pazienza e con amore curata, oggi mi ha mostrato il suo primo bocciolo, rosso, bellissimo, un miracolo della natura.
E che dire delle piccole calle che senza preavviso sono spuntate da un vaso pieno di terra vecchia che aspettava di essere buttato nel bidone del secco residuo e che per mia incuria era rimasto nel grande balcone dove il sole e la pioggia seguono il comando di Dio e non il mio?
Non c’è che dire: Dio ci stupisce, sempre, e non bisogna mai disperare, anzi tenersi pronti alle sue improvvisate.
Ad Abramo che aveva una terra rigogliosa il Signore chiede di uscire e di incamminarsi verso un luogo che non conosceva, una terra che non lui ma Dio sceglierà per i figli e i figli dei figli.
E sarà una benedizione la fede di questo patriarca, una benedizione per tutta la sua discendenza.
Abramo morirà senza aver preso possesso della terra promessa ad eccezione di una piccola grotta per seppellirvi la moglie Sara, la caparra dei beni futuri.
Guardo le mie piante che, in questo giorno che ora è avanzato, brillano sotto i raggi del sole e i miei occhi sono catturati dalle piccole e numerose bacche rosse e dal fiore appena spuntato dopo anni di attesa e dalle calle multicolori che fanno capolino abbracciate e custodite da grandi foglie turgide e verdi.
Buono e misericordioso è il Signore, lento all’ira e ricco di grazia.
Non smetterò mai di lodarlo per tutti i suoi prodigi, per tutte le cose belle che escono dalle sue mani.
Cosa renderò al Signore per ciò che gratuitamente mi dona ogni giorno di godere?
Un sacrificio di lode è ciò che oggi mi sento di mettere sopra il suo altare.
Ieri alla messa, pensavo a cosa offrirgli.
La mia terra desolata e buia, il mio martirio incomprensibile che dura nel tempo, il mio corpo disastrato, le mie paure, la mia rabbia, la mia preghiera a rovescio quando mi ribello, lo sconcerto, il disorientamento il mio rimanere ferma ai suoi piedi per essere immersa nel sangue e nell’acqua preziosissima che sgorga dal suo costato, il mio credere che i miracoli sono sempre possibili, che il mio corpo sarebbe diventato il suo.
Una grande pace è scesa su di me quando ho pensato che se i miei affanni li prendeva lui li avrebbe sicuramente utilizzati per farci una cosa buona.
Se lascia l’iniziativa a me sono specializzata a fare disastri.
Ho creduto che delle mie offerte avrebbe fatto un giardino fiorito, una terra fertile da cui trarre nutrimento io e i miei figli e la mia discendenza.
Al segno della pace il mio pensiero è andato a mia sorella che un antico rancore teneva lontane.
La trave dal mio occhio è caduta quando le ho chiesto perdono per i dispiaceri che volontariamente o involontariamente le avevo procurato.
Con amore ho guardato la pagliuzza dal suo occhio e ho pregato perchè anche lei potesse vedere e amare tutto ciò che Gli appartiene.
Dio mi ha aperto gli occhi alla sua misericordia, mostrandomi che non io ma lui fa vivere e moltiplicare la pianta dalle molteplici bacche rosse.

Luce

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“Voi siete luce del mondo “(Mt 5,14)

Questa notte è stata ancora una notte drammatica, ancora la bestia si è accanita su di me, la bestia che mi toglie il respiro, mi tappa la bocca, mi toglie la luce e la forza di cantare le tue lodi.
Da un po’ di giorni si ripete questa triste liturgia, questa dolorosa battaglia in cui le sevizie, gli attacchi si moltiplicano, mentre le mie forze vengono meno.
Voglio ringraziarti, Signore, per il compagno, lo sposo che mi hai messo accanto che non dorme, ma usa le armi della luce per difendermi e farmi riposare.
Le armi sono la preghiera a Maria, l’invocazione allo Spirito Santo, mani benedette e sante che si stanno addestrando alla battaglia e diventano sempre più efficaci per difendermi dal male.
Ti voglio benedire Signore perchè hai trasformato la valle di Acor in porta di speranza, perchè ci stai facendo capire cosa significa essere sposi, rispondere all’altro, rispondere dell’altro, dare all’altro ciò che tu gratuitamente doni a chi con le mani aperte cerca la tua Grazia, il tuo aiuto, la tua protezione.
Quando Gianni prega su di me e per me io non sono in grado di unirmi alla sua preghiera tanto sto male, e mi limito a dire “Ascolta la sua preghiera, Signore”
E’ quando non abbiamo niente da dare che ti portiamo nella tua interezza.
Stiamo facendo esperienza di povertà, di persecuzione, di dolore, di inadeguatezza dei nostri strumenti umani, entrambi.
Mai come ora abbiamo sentito insopprimibile il desiderio di rivolgerci a te, di contare solo su di te, di aspettare da te la beatitudine promessa.
Il nostro matrimonio si sta trasformando in un sodalizio con te, sempre più stretti a te e a Maria che ci hai donato perchè le spade che ci trafiggono l’anima diventino spade d’amore e di gratitudine a te che ci hai associato al tuo progetto di salvezza.
Tu dici che siamo la luce del mondo, il sale della terra e noi vogliamo crederci, ma anche realizzare ciò per cui tu ci hai creato.
Per questo ti prego Signore squarcia il tuo cielo e scendi e non permettere che le ombre della notte offuschino la luce che viene da te o rendano insipido il sale che rende gustoso il cibo quotidiano.
Cosa offrirti o Dio che nell’intimo non ti abbia già dato?
Sono qui che aspetto cieli nuovi e terra nuova, sono qui perchè credo che tu ci hai già salvato.
Aiutaci a non smarrirci, disorientarci durante i feroci attacchi del nemico. Non offuschi mai con la sua ombra la luce che viene da te solo, Signore.
Rendici specchio immacolato e puro per immillare la tua luce, rendici acqua sorgiva limpida e accogliente perchè possiamo ad essa dare il sapore delle cose che ti appartengono.

Bravura

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” Stefano pieno di grazia e potenza faceva grandi prodigi e segni” (At 6, 8)

” Quante cose si possono fare con Gesù!” fu la frase che mi colpì del compito assegnato dalla maestra di religione al piccolo Marco che doveva parlare di te.
Parole che al momento non capii ma di cui sempre più faccio esperenza.
E’ veramente la cosa più bella che mi potesse capitare, trovare te Signore che mi hai fatto uscire dall’inferno dell’ “Arrangiati! ” a cui mi aveva condannato la vita.
In queslla che poi è diventata un’arte sono diventata maestra tanto da poter dispensare consigli a tutti quelli che si trovavano in panne.
Ho vissuto la fatica di cercare soluzioni ai miei problemi fin da piccola, la fatica di sopravvivere in un mondo avaro di coccole, abbracci e sorrisi.
Ho acquisito strumenti i più disparati per aiutare me e chiunque si trovava in difficoltà sì da essere ricercata e amata per le soluzioni che dispensavo a chiunque ne avesse bisogno.
Mi sentivo brava e mi faceva esistere il pensiero che volere è potere e che , anche quando non riuscivo a centrare l’obbiettivo, il capolavoro era assicurato, perchè quello che trovavo era migliore di ciò che avevo perso.
Mi sentivo importante, sentivo di valere qualcosa per gli altri nella misura in cui rispondevo ai loro bisogni, desideri, necessità.
L’altro è diventato il mio idolo, l’altare su cui sacrificavo il mio tempo e le mie energie, perchè era l’amore che cercavo in tanta solitudine.
Riempivo il vuoto dei non amici con i miei successi, le scoperte, i ragionamenti che portavano ad alleggerire il fardello della vita degli altri.
Porto i segni sul corpo di questo lavoro incessante e sfiancante, le mie ossa, sono rotte, la mia carne dilaniata per lo sforzo di combattere con te, Signore mio Dio, per non dire grazie a nessuno che non fosse la mia intelligenza, la mia volontà, il mio desiderio di vincere.
Signore oggi sono qui davanti a te e il mio cuore è pieno di gratitudine a te che mi hai aperto gli occhi sul mio limite.
Ti sei servito della malattia e della morte di mio fratello per dimostrarmi che non a tutto c’è rimedio e che solo tu sei il Signore della vita.
Mi hai fatto sperimentare l’impotenza di fronte ad eventi imprevisti e imprevedibili, mi hai aperto strade che non conoscevo, mai battute che mi hanno fatto scoprire il colore dei fiori, sentire il loro profumo.
Dalla mia bocca da cui usciva solo rumore, come mi fu diagnosticato , ora esce la tua lode, il canto di gioia e di gratitudine a te che ti sei fatto mio compagno di viaggio, mio potente alleato, mio liberatore.
Grazie Signore di questo giogo che porto volentieri perchè è dolce e leggero e mi fa camminare sicura.

Preghiera

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“Sono io non abbiate paura”(Gv 6,20)

Ti presenti Signore nei momenti più impensati, difficili, quando le acque si agitano e il vento fa traballare la nostra barca.
Tu cammini sulle acque agitate del male, tu domini le forze ostili che ci impediscono di fare la traversata e di giungere al porto sicuro.
Oggi, quando ho letto il vangelo, erano le 3, ho pensato che non avevi nulla di nuovo da dirmi, un vangelo, una storia che ho letto e commentato e meditato tante volte.
Cosa potevo apprendere di più di quanto già non sapessi?
Così ho rinunciato a scrivere la mia meditazione notturna e ho cercato una posizione per riprendere sonno, con il rosario tra le dita e il desiderio di unirmi a te e a Maria nella contemplazione dei misteri del dolore anche se oggi è sabato.
Ieri sera ero rimasta ferma al primo, quello in cui tu schiacciato dal peso dei nostri peccati, solo, preghi e soffri, sudi sangue, tanto grande è l’angoscia che ti opprime.
Così questa notte ho preso sonno dimenticando il resto della tua passione salvo poi svegliarmi con un tremendo dolore alla spalla, il solito da qualche mese che mi perseguita, costringendomi ad indossare il busto attenua le fitte dolorose dei nervi schiacciati dai recenti crolli vertebrali.
Ho affidato a Maria il compito di traghettarmi fino al mattino con la preghiera a lei tanto cara perchè ci stringe insieme a te, suo figlio e nostro fratello, in un unico e grande abbraccio.
Il tuo dolore è diventato il mio dolore attraverso Maria, il senso di quelle fitte spaventose mi si è andato man mano chiarendo e mi sonon riappisolata mente ti contemplavo Signore, vittima innocente, incenso purissimo sull’altare di Dio.
Il mio dolore è diventato il tuo dolore e ho trovato la pace pensando che solo tu potevi trasformarlo in offerta di soave odore per liberare i prigionieri e portare la luce a quelli che vivono incatenati dal peccato.
“Sono io non avere paura” mi sono sentita dire questa mattina, quando una fitta più dolorosa mi ha scosso dalla posizione a fatica cercata per non soffrire.
Sei tu Signore che vieni a visitarmi ogni volta che sto male.
Ti ringrazio perchè fughi le mie paure, perchè ogni giorno, ogni notte mi getti una scala dal cielo perchè io vi salga e mi trovi in paradiso.
Con Maria tutto questo sta divenendo possibile, reale, perchè con lei non posso sbagliare direzione, non posso che avvicinarmi sempre più a te .

Flutti di morte mi hanno circondato,
mi hanno stretto dolori d’inferno;
nella mia angoscia ho invocato il Signore,
dal suo tempio ha ascoltato la mia voce. (Sal 18,5-7)

La Micra e il castello

Sfogliando il diarioMicra 1998
29 gennaio 2010
venerdì della terza settimana tempo ordinario anno pari
letture:2 Sam 11,1-10a.13-17; Salmo 50 ;Mc 4, 21-25
ore 5:47.
“Il regno dei cieli è simile ad un granellino di senapa”.
Tu mi chiedi Signore oggi di esserti fedele nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, mi chiedi di non scoraggiarmi, perché non vedo i frutti di tanti sacrifici.
Tu Signore mi chiedi di rinnovare il mio impegno a servire, perché tu sei un dio fedele, un dio che non inganna i suoi figli, ma se ne prende cura anche quando sembri lontano, occupato a fare altro.
Le nostre storie di uomini, le nostre fatiche quotidiane, i nostri dubbi, tentennamenti, cadute, le nostre infedeltà, le nostre lacrime, la nostra solitudine, angoscia, disperazione, tutto Signore tu vedi e a tutto provvedi.
Tu mandi acqua dal cielo quando la terra è riarsa, tu fai spuntare il sole ogni giorno perché ci riscaldi e ci illumini.
Tu Signore continui a seminare la parola, il granellino di senapa dalla forza dirompente.
La tua parola è spirito e vita, opera nel nascondimento, non si vanta, non urla nelle piazze, la tua parola non giudica, ma ammaestra, consiglia, guida, ama e perdona.
Grazie, Signore, per la tua parola, perché parola d’amore.
Grazie perché, man mano che procedo in questa straordinaria avventura nella conoscenza del tuo regno, mi si alzano vedi, mi si aprono porte… squarci di luce sempre più grandi illuminano castelli meravigliosi della tua sapienza, bontà, misericordia.
Ieri Giovanni, per consolarmi del fatto che la Micra diventasse un sacchetto, una polpetta destinata alla rottamazione, dopo 12 anni di onorato servizio, mi ha detto: “Non piangere nonna, non disperare.La tua macchina si trasformerà in qualcosa di più bello come questa casa che abbiamo di fronte che stanno ristrutturando destinata a diventare uno splendido castello.”
Quando l’ha detto ho pensato a quanto è grande la capacità dei bambini di cogliere l’essenziale delle cose e di guardare oltre.
Io pensavo alla fine ingloriosa della mia macchina, mi vedevo dinanzi il deposito pieno di carcasse di auto e la gru che le sollevava e le metteva sotto la pressa per compattarle e farne polpette.
Chissà perché ho pensato alle polpette.
Certo che ieri, mentre andavo a firmare le ultime carte e a pagare la macchina nuova fiammante che stava nel piazzale, tutto mi parlava di morte: quella nuova, nera mi sembrava un avvoltoio e la mia piccola amica, la Micra ammaccata, incidentata, vecchia di anni, carica di ricordi, con un motore ancora impeccabile destinata a morire.
12 anni, 39.000 km….
È come se le avessi decretato l’eutanasia, sapendo che era ancora viva con tutti gli organi a posto.
Le macchine mi hanno sempre rappresentato per via del fatto che quando le davo indietro era sempre per via della carrozzeria che andava a pezzi.
Il motore era sempre funzionante.
Era la prima volta però che mi capitava di rottamare una macchina che non mi aveva mai lasciato per strada, salvo due forature due giorni di seguito, nei pressi del gommista su cui si affacciava la finestra della cappellina, dove ogni giorno Don Gino esponeva il Santissimo.
Due forature che mi hanno dato l’occasione di stare con Gesù che ha qualificato il tempo del ricalcolo.
Rotture profetiche attraverso le quali ho sperimentato la grazia dell’attesa quando  aspetti con Dio.
La parabola di oggi parla di un granellino di senapa, destinato a diventare un grande albero, dove trovano rifugio e ombra di uccelli.
La mia macchina piena di ricordi sarebbe diventata un castello come Giovanni mi aveva fatto intendere?
Lo era stata un castello perché, attraverso di essa ho conosciuto le case degli uomini, sono entrata nelle stanze più intime dei loro cuori e le ho aggiunte a quelle della mia casa.
Quella macchina effettivamente, pur chiamandosi Micra è riuscita a dilatarsi a tal punto da contenere le stanze che man mano si aggiungevano alla mia casa, sì da farne un grande castello.
La comprai per dimostrare al mio preside e al mondo potevo continuare a lavorare, nonostante l’handicap di non poter camminare.
La comprai per una sfida con il destino, che sembrava accanirsi su di me, costringendomi a fermarmi per tempi sempre più lunghi.
Comprai una macchina a tre porte, perché tanto non dovevo portare nessuno.
Ero sola a portare me stessa, le mie gambe, il mio corpo.
Gli altri andavano a piedi e usavano l’auto solo per grandi spostamenti.
Senza l’auto non avrei potuto recarmi a scuola, andare a trovare mamma o mio fratello negli ultimi mesi, prima che ci lasciasse.
Ho usato la macchina però anche  per raggiungere gli spacci aziendali, il mercato, lì dove era possibile però fermarmi e trovare subito ciò che cercavo.
La macchina si è sostituita per 12 anni alle mie gambe che non erano in grado autonomamente di fare percorsi un po’ più lunghi.
Poi è accaduto quello che allora mi parve irreparabile.
La morte di mio fratello, la dispensa dal servizio, la crisi coniugale, l’allontanamento di mio figlio, deciso a sposarsi.
Relazioni interrotte o in grave pericolo hanno preceduto la svolta.
La macchina è stata la testimone delle mie crisi di panico, dell’incertezza del futuro, del mio vagare alla cieca alla ricerca di qualcosa che rompesse l’atroce cerchio del non senso, del dolore, dell’abbandono.
Poi la conversione.
Il matrimonio di Franco, la nascita di Giovanni, i percorsi cambiati.
Negozi in cui si spende denaro per cose che non appagano sono stati sostituiti da luoghi dove gratuitamente ottenere la gioia e la felicità e la vita.
I semafori, i treni, i taxi, gli aerei, le caprette, i cigni, il mare e poi i presepi, la chiesa e poi i cani, i pesci e tutto ciò che poteva interessare un bambino.
Con la macchina ho dato un passaggio a Vittoria, Gigliola, Lilla, Miranda, Maria, Elena e spesso mi sono detta che avrei fatto meglio a comprare una macchina a cinque porte, perché la funzione era quella di trasportare gli altri non me stessa soltanto.
Poiché non riesco a stare in piedi anche gli incontri si sono sviluppati stando seduta in macchina ferma.
Luciana, lilla, Lucia, Titta, Maria, eccetera tante persone che hanno contribuito a costruire il mio castello che non può andare in frantumi, essere rottamato come una macchina, neanche con esplosivo potente.
Il castello rimane.
Antonietta  è diventata un castello che oggi può accogliere con più comodità le persone è destinata a diventare sempre più grande.
Aveva ragione Giovanni!
Il problema sta nel vedere in un granello di senapa, in una morte, la sorgente di una nuova e più rigogliosa e fiorente vita.
La vita come un granello di senapa, il cuore come albero grande, castello di stanze che si moltiplicano man mano che apri la porta per accogliervi un pellegrino.
Grazie Signore di questa bellissima immagine suggeritami dalla meditazione del Vangelo di oggi.
Una casa che diventa un castello, una Micra si espande e diventa una station wagon, un autobus, un treno, uno strumento d’amore, un abbraccio ancora più grande, quando aumenta il numero delle porte.
Non so perché l’ho comprata nera.
Non è un colore che ho amato e solo da poco ho scoperto che mi sta bene.
Il nero attira i raggi del sole, il nero è assenza di colore.
Quando non hai niente da portare è Gesù che porti nella sua interezza.
Voglio pensare che sia un buon segno averla scelta così.

Il divino panificatore

“Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1 Gv 4,8)
Le parole della Scrittura non sono sempre subito chiare, anzi spesso i concetti sembrano scollegati tra loro.
Come oggi.
Viene da chiedersi cosa c’entri l’amore di Dio, con il nostro amore, con la nostra capacità di amare.
Sfogliando i giornali o ascoltando la televisione o ciò che si dice in ambiti più ristretti, sembra che Dio non abbia niente a che spartire con l’amore umano.
Ieri in chiesa una donna di fede, mia amica, la cui figlia si era separata dal marito  da cui aveva avuto due bambini e si era messa con il padre di due bambine, sfasciando due famiglie, così mi ha risposto quando le ho chiesto come andavano le cose.
“Il matrimonio non può essere una malattia. Mia figlia si era ammalata stando con quell’uomo. Ora è guarita, scegliendo di porre fine a quel matrimonio”
I bambini in questione giocavano al parco con i miei nipotini, e io che li accompagnavo ho assistito alla degenerazione di quel raporto, sentendo e vedendo senza poter fare nulla,  come il tradimento comincia dalle cose più innocenti,  che scalzano dal primo posto il coniuge per altri interessi che aprono la crepa della divisione e aumentano a vista d’occhio le distanze.
“Il matrimonio non può essere una malattia”
Certo che così dovrebbe essere, ma anche per me la malattia comparve appena sposata. Un caso? Non so.
Gianni soleva dire che mia madre lo aveva ingannato spacciando per sana una figlia malata.
In seguito , erano gli anni terribili del silenzio e delle incomprensioni, pensai che ad ingannarmi era stato lui, visto che mi sono ammalata appena sposata.
Quindici anni fa abbiamo incontrato il Signore, gli abbiamo aperto il cuore e gli abbiamo permesso di curare le nostre ferite.
Non siamo ancora guariti, ma sappiamo che con Lui tutto cambia, perchè dove noi non possiamo arrivare arriva Lui e fa miracoli.
Non a caso oggi il vangelo ci parla dela moltiplicazione dei pani, che a ben guardare è l’arte del Divino panificatore che non fa che impastare il nostro pane ogni giorno, tenendo vivo, rigenerando quel poco che ogni giorno gli offriamo, perchè sia efficace e riesca a sfamare non solo noi ma tutti gli affamati d’amore.
Dio sa di cosa abbiamo bisogno, noi no, anche se abbiamo la presunzione di saperlo.
Per questo le nostre energie le spendiamo per avere ciò che ci sembra necessario e imprescindibile.
Ma il vuoto che si crea con l’ingestione di falsi pani, pani contraffatti o altro cibo dalle forme più appetibili, ma molto più dannosi si allarga a dismisura.
Un vuoto che porta ad un altro vuoto quando la molla dell’agire è cercare la propria soddisfazione egoistica.
Ricordo, quando ero bambina,  il pane raffermo che papà tagliava a quadretti sul tagliere, e che metteva a centro tavola la mattina, perchè li tuffassimo nelle nostre tazze fumanti di latte.
E  che dire del pane che mi metteva nonna  nel cestino, per il pranzo , con dentro la mortadella, o il suo profumo?
Avevo tanta fame allora che mio padre mi ribattezzò ” Ho fame”.
A casa nostra  il pane non è mai mancato, mentre il companatico sì, molto spesso.
Fu forse da allora che mi misi a cercare con sempre più impegno ciò che rendeva il pane più appetitoso.
E’ la storia degli Ebrei che nell’attraversamento del deserto si stancarono della manna, e chiesero a Dio qualcosa di più sostanzioso.
Fu allora che dal cielo piovvero le quaglie.
Io non ho chiesto a Dio il companatico, nè mai l’ho ringraziato di quel pane a cubetti, raffermo che ci riuniva felici la mattina attorno al tavolo e di cui sento ancora tanta nostalgia.
Eppure nel Padre Nostro che ci ha insegnato Gesù diciamo” Dacci oggi il nostro pane quotidiano”, e se è Dio che ci suggerisce cosa chiedere dobbiamo essere certi che è la cosa giusta per noi.
Ma la nostalgia a ben pensarci non è tanto per quel pane che mangiavamo allora, quanto per l’atmosfera di pace, di gioia, di amore che si respirava attorno a quella tavola dove mamma e papà si prendevano cura di noi.
E’ l’amore che rendeva quel pane buono, fragrante, appetitoso, soddisfacente, il sapore è quello delle cose buone che non si dimenticano.
“L’amore è una malattia, quando cerchi nell’uomo la perfezione, ma è grazia quando quella perfezione la chiedi a Dio e aspetti che pian piano il suo lievito sia impastato con le tue lacrime, con le gioie e i dolori della vita, perchè ti rimanga nel cuore sempre il profumo e il sapore di buono di quando da piccola tuo padre e tua madre d’accordo preparavano la colazione .
La comunione, la condivisione, l’amore sono gli ingredienti del Pane del cielo che non vorremmo mai mancasse sulle nostre tavole.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano, Signore.
Aiutaci a renderti grazie, anche se non è appetibile e non è quello che ci aspetteremmo.
Fa’ Signore che sappiamo attendrne i benefici con umiltà, pazienza e perseveranza, con fede ferma in te che hai fatto bene ogni cosa e ci ami di amore eterno.

5 gennaio 2000

Dal diario di Antonietta
Il 5 gennaio era la data fatidica, per rimuovere il gesso che mi aveva imbalsamato 10 mesi prima.
Ma ad aspettarmi non c’erano ali che mi facessero librare in volo come una farfalla, finalmente libera dal bozzolo.
Il rumore della sega elettrica che si muoveva sul mio corpo imbalsamato non disturbava le mie orecchie, tutte protese a sentire il tonfo di ciò che era diventato ormai inutile sostegno.
Mi svegliai dal sogno quasi subito.
Perché non riuscivo a stare in piedi?

Questo mi portò la Befana con un giorno d’anticipo il 5 gennaio del ’77, proprio perché l’opulento e ricco Babbo Natale si era fatto beffe di me regalandomi, l’anno prima, una pelliccia che non feci in tempo ad indossare e che mai indossai, perchè da quel giorno mi misi a letto ad aspettare che il tempo passasse e l’incubo finisse.
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Ne dovevo fare di strada per incontrare il dono giusto, fatto su misura per me,un altro 5 gennaio!
Dovevo mettermi in viaggio con i Magi e con loro accettare la fatica della ricerca, la stanchezza del cammino, il tempo dell’attesa.
Allora i re Magi, la stella cometa erano simboli, astratti e lontani, di una festa che non mi parlava di Dio
Ma proprio loro sono stati i simboli del presepe, che più mi hanno portato a riflettere.
Chi ero io, chi questi incomprensibili personaggi, che sembravano appartenere ad un altro copione, ad un’altra storia che non quella semplice di povera gente qualunque, artigiani, contadini, pastori, di un villaggio sperduto della Galilea di 2000 anni fa?

I re Magi sono stati i battistrada, con loro mi sono messa a seguire la stella, con loro mi sono fermata a chiedere dov’era il re dei Giudei, perché potessi adorarlo.
Poi il deserto, quel deserto che mi sono lasciata alle spalle, esteso a perdita d’occhio, la paura di smarrirmi tra le dune di quel mare di sabbia, fino a quando ho visto la stella fermarsi a indicarmi dov’era il Bambino…
Era il 5 gennaio del 2000
I lontani, i sapienti, i ricchi della terra, anche a loro, a me era, è dato vedere, sentire, adorare!
Il 5 gennaio del 2000, finalmente sono entrata dentro la grotta!
Erano secoli che camminavo, secoli, non il tempo che dista dal Natale alla Befana…
Mi sono fermata il 5,…il Signore ha avuto pietà… non mi ha fatto camminare ancora… un giorno prima sono arrivata, ma Lui era lì ad aspettarmi….Erano 2000 anni che mi aspettava…nella messa, la sera prima dell’Epifania…
La parola la stessa: ”Ti adoreranno, Signore, tutti i popoli della terra” s’incarnò nella mia vicenda personale e mi trovai, senza saperlo, mischiata ai pastori e ai re magi a contemplare il miracolo dell’amore di Dio.
E pensare che quegli strani personaggi, li solevano nascondere in un anfratto dell’ultimo monte e da lì si ricacciavano la notte della Befana.
La notte della Befana la ricordo come la più lunga, anche se noi non ci decidevamo mai a chiudere gli occhi, e spesso facevamo le finte perchè volevamo in anicipo i doni.
Tutto ciò che era stato nascosto quella notte veniva alla luce, i doni il Dono, i re, il Re.
Strane analogie che rivelano il significato arcano di questa magica notte in cui pastori e re s’inchinano davanti al Santo Bambino, perché Lui non fa distinzioni e non ha preferenze: per tutti c’è il dono infinito di un Dio fatto uomo, perché l’uomo divenga simile a Lui.

Quest’anno, quando ho visto il presepe fatto sotto all’altare, ho pensato che proprio erano rimasti in pochi, quelli che si sobbarcavano la fatica di prepararlo, e si erano ridotti a farlo la vigilia, con poche idee, e ancor meno strumenti, un presepe senza pretese, più piccolo e con tante statuine mancanti.
Erano soliti farlo in fondo alla chiesa, liberata dai banchi e da tutto ciò che era d’intralcio a farci entrare tutto, il grande fondale azzurro e i monti e i villaggi, le statuine in movimento, il deserto e la grotta più grande della città, che non lo aveva voluto quel bambino, davanti al quale erano fermi i pastori, estasiati, ammirati, stupiti..
“I pastori non ci sono entrati”, mi ha risposto don Gino, quando gli ho chiesto che fine avevano fatto; ma io subito mi sono consolata, pensando che i pastori eravamo noi, invitati a quella povertà di spirito che rende capaci le orecchie di ascoltare per primi l’annuncio degli angeli, per potere dai banchi direttamente recarci alla grotta.
Era un invito a farci piccoli, quel presepe. Ma c’era posto per tutti?
Il bambinello, sicuro ce lo avevano messo, ma era difficile vederlo, dentro la grotta. Una pecora lo copriva in parte o del tutto, a seconda del posto di osservazione, ma dietro la testa spuntavano le orecchie delll’asino, che sembravano da lontano due corna nere.
Poi il motorino, montato al contrario, faceva andare in retromarcia l’asino intorno al pozzo e nel cielo non c’era nessuna stella. Un presepe montato a rovescio, che ti faceva venir voglia di sollevare lo sguardo, di andare oltre i pizzi della tovaglia, perfetti e preziosi che scendevano da sopra l’altare e il parte fungevano da cielo di quello squarcio di mondo riuscito un po’ male.
La culla era lì sopra, ad accogliere colui che rende il presepe perfetto, quello dove non mancano i pezzi, dove trova posto un cielo senza stelle, una grotta senza pastori.
Ogni giorno la mensa è imbandita, per accogliere un Dio fatto uomo, che ubbidisce alle parole di un sacerdote, per trasformare il pane ed il vino in ciò che possiamo vedere, toccare, adorare, accogliere.
Lui, la vita, dà vita ai nostri presepi, dà loro un senso e rimette a posto le statue di gesso e i paesi e i villaggi e fa brillare le luci nel posto giusto e fa smettere di far andare i motorini al contrario, perché diventa lui il motore, che permette alla gente di smettere di fare le stesse cose, e di cominciare a camminare, tendendo le orecchie al coro degli angeli che cantano il gloria, affrettando il passo verso la luce che viene dal cielo e che illumina, in modo inequivocabile, la strada per arrivare alla grotta, andando oltre, guardando sopra…sopra l’altare.
Quel 5 gennaio del 2000, Gesù era lì ad aspettare per mostrarsi finalmente svelato a me, che ero stanca, stremata dal duro e faticoso cammino, da una marcia che sembrava non avere mai fine.
Ora non devo più aspettare che passi la notte della Befana, per sperare che mi arrivino i doni, non devo chiudere gli occhi e far finta di stare a dormire, come quando ero bambina.
Ora basta che sposti lo sguardo e ogni giorno diventa Natale e ogni momento è Epifania del Signore.
Non c’è pecora che mi ostruisca la vista, non c’è pastore o re che non mi parli di Dio.

IL MIO ALBERO

9-03-1944/9-03-2015


Ora che il mondo lo vedo girare, perché ho imparato a fermarmi, che i colori li ho stampati nel cuore, quelli dei sentimenti vissuti e accettati, mi chiedo che ne è stato del “gioco dell’oca”, dei dadi che per anni ho continuato a gettare, sperando, una volta arrivata alla meta, di vincere quell’assurda partita portata avanti da sola.
L’infanzia tradita, l’”arrangiati!” portato all’estremo, la malattia a ricordarmi che non bastavo a me stessa, la normalità cercata nello stare seduta, il farmi piacere le cose anche quando le avrei vomitate, il non volersi arrendere all’evidenza di un handicap, insopportabile per chi la vita la viveva correndo, il non voler ammettere che non c’era speranza, perché tutte le cose hanno un termine, dove sono andati a finire?
Quanti anni sono passati da quest’oggi vissuto nell’ascolto della voce che viene da dentro, di quella che mi torna da ciò che mi si pone dinanzi, che si unisce alla sinfonia del creato per portarmi prostrata a pregare per tutte le cose che sono, per quelle che riesco a capire, per quelle che non capisco, perché è dolce l’incontro con Lui quando viene improvviso a spiegarmele.
Con lo sguardo perso nel tempo, affondandovi forte le dita, cerco l’albero da cui sono uscita, per trovarvi scritto nei cerchi ciò che unisce i pezzi della mia storia.
Percorrendo la valle della memoria, lo vedo, nella terra, stendere le sue radici, insinuarsi nei suoi tanti e misteriosi meandri, fondersi con le sue viscere vive.
Lo guardo, mentre sbuca tra i sassi, attraverso le crepe del suolo, mentre cerca di sollevarsi a fatica verso il cielo, per catturarne la luce..Il mio albero è questa mia vita, che ieri mi appariva contorta, una pianta da sradicare perché, a guardarla un po’ più da vicino, non era bella per niente: la corteccia piena di tagli, di ferite che non si rimarginano, il tronco storto da un lato, mutilato nelle sue braccia, le foglie in parte ingiallite, malate, le migliori cadute ai suoi piedi, quelle che avrebbe voluto riprendersi, se ne fosse stato capace..
Il mio albero voleva vivere libero, senza dar conto a nessuno.
Lo spazio non lo voleva dividere, perché ne aveva bisogno per tenersi stretti quei rami belli e vitali che, pur togliendo forza al suo fusto, era un peccato tagliare.
Ma lo sforzo diventava sempre più grande per sostenere l’inutile peso.Il mio albero ha imparato a morire, ad amare le sue cicatrici ,quelle che segnano il tempo lungo ,faticoso e sofferto della sua crescita.
Ha imparato ad accogliere tra i suoi rami, divenuti robusti, gli uccelli che al mattino lo svegliano, i piccoli insetti che lo percorrono, attingendo la linfa da lui.
Il mio albero oggi lo guardo e ringrazio quella Croce non a caso incontrata, dove né fiori né foglie abbelliscono il legno, ma Colui che mi ha riportato alla vita.