21 Dal diario di Antonietta

 

Rubrica radiofonica a cura di Antonietta
Canto:Davanti a questo amore
Un caro saluto a tutti,  amici che non ci avete abbandonato, nonostante le difficoltà di ricezione di questi giorni.
La tentazione di cambiare programma, premere un pulsante per sintonizzarsi, una volta per tutte, su un’altra frequenza è stata grande, quanto quella di spegnere la radio e non pensarci più.
Fuor di metafora, cambiare strada spesso non è una necessità ma una tentazione che ci viene quando il percorso è irto di ostacoli che non ce la sentiamo di affrontare.
Ma più spesso la difficoltà nasce dal fatto che ci ostiniamo a percorrere strade sbagliate e non vogliamo sentire ragioni.Ogni volta che le cose non vanno come vorremmo, dovremmo chiederci dove stiamo andando e perché.
Ma il tempo di fermarsi e riflettere non lo troviamo e neanche lo cerchiamo, tutti intenti a fare, muoverci, agire in una qualsiasi direzione che ci anestetizzi dai pensieri angosciosi di sofferenza e di morte.Passiamo la vita a esorcizzarla, a far finta che non ci sia, che non ci riguardi, convinti che è cosa che capita agli altri, augurandoci di morire nel sonno così non saremo costretti a pensarci..
Viviamo con gli occhi bendati, ostinandoci a negare l’unica cosa certa che non ha risparmiato neanche il figlio di Dio, che ha voluto in tutto essere solidale con l’uomo da condividerne persino il destino di morte, non scegliendo sicuramente la più indolore.
Già morire è una brutta parola, che fa venire i brividi lungo la schiena, solo a pronunciarla..Ma cosa significa, cosa nasconde questo evento, su cui Gesù ci chiama a riflettere, specie nella Settimana santa che stiamo vivendo?
“Se qualcuno vuole venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno, e mi segua. .Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà”.( Lc 9,22-24).
A quale morte Gesù ci chiama? Forse a quella fisica che è scontata per tutti? Sicuramente no, visto che non c’era bisogno che si scomodasse tanto perché ne prendessimo atto.
Il senso lo dobbiamo cercare in quel rinnegare noi stessi, che non è automatico, che non dipende dalle circostanze e dagli altri, è quel farsi da parte, diventare piccoli piccoli, appoggiandosi a Lui perché la morte sia sconfitta per sempre.
Rinnegare se stessi è morire alle nostre idee, ai nostri progetti, alla nostra volontà, per fare spazio alla Sua, questo è l’invito che dobbiamo accogliere, mettendoci in cammino alla volta di Gerusalemme, dove ad aspettarlo c’era l’unica morte che dà la vita, quella spesa per gli altri.
Il deserto fu la palestra dove imparò a morire, come uomo, lottando contro la tentazione del successo, del prestigio, del potere, delle conoscenze e delle parentele che contano, dell’autosufficienza, lui che era Dio e che volontariamente aveva rinunciato a tutto questo il momento in cui, incarnandosi, aveva consegnato la sua volontà al Padre.
Nel deserto imparò a morire a sé stesso fidandosi di Lui, dando allo Spirito la possibilità di riempirlo a tal punto da non temere nulla, nemmeno la morte.
Pur sapendo a cosa andava incontro, Gesù non decide di cambiare strada, cercandone una più agevole e meno pericolosa, perché la molla del suo agire era l’amore, che lo legava al Padre e a tutti quelli a cui Lui l’aveva mandato.
“Io sono la via, la verità la vita”, le parole di Gesù, e dobbiamo credergli, se per testimoniarne la verità, ha pagato un prezzo così alto.
Ma solo se ne facciamo esperienza, ci accorgiamo che queste ci danno la forza di scavare, strade lì dove apparentemente non esistono e arrivare con certezza ad un traguardo che non delude.
La scorsa volta concludendo la lettera al dottore di Milano, mi chiedevo se avevo trovato la strada, se era così importante cercarla, se era valsa la pena sfiancarsi a quel modo.
Era il 1996 e la mia fiducia la riponevo ancora tanto negli uomini e nei loro rimedi.
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Da "Il gioco dell’oca"
Quante cose erano successe da quando Daniela mi aveva annunciato che aspettava un bambino!
Erano passati appena due mesi da quando inaspettatamente me la vidi comparire all’Istituto di riabilitazione che ormai da un anno frequentavo.
Piccola, minuta, con gli occhi smisuratamente grandi, era tornata al lavoro dopo un lungo periodo di assenza.Ne avevo sentito parlare come l’unica fisioterapista del Centro che avrebbe potuto aiutarmi. Ma non pensavo fosse possibile.
Il suo terzo bambino, affetto da una rara e terribile malattia genetica, si era ammalato ancora. Questa volta era stato il cervello a farne le spese, attaccato da un carcinoma.
L’avevo immaginata con il volto scavato, prostrata dal peso di una croce così pesante.
Appena la vidi, capii subito che l’esperienza del dolore le aveva dato una forza non comune per se e per gli altri.
La paura di non trovare le parole per parlarle dei miei problemi, poca cosa di fronte a ciò che le era capitato, svanì di fronte alla sua capacità di mettersi in comunicazione con la sofferenza altrui.
Così mi potei presentare a lei con la mia disperazione e con la voglia mai doma di provare ancora l’ultima chance.Mi confermò la diagnosi dell’osteopata, dal quale ero in cura già da un anno senza successo.
La cosa incredibile era che esisteva un rimedio!
Mi parlò del metodo Bertelè, un programma di rieducazione posturale, assicurandomi che ce l’avrei fatta.
Così cominciai la nuova avventura con una gran voglia di riuscire e con lo spirito di sempre, incurante dei tremendi dolori alle gambe e alle braccia, che si scatenavano dopo ogni trattamento e che mi riducevano spesso all’immobilità.
Ero confortata però dal fatto che, da quando avevo iniziato la cura, di tanto in tanto il dolore sembrava allentarsi, concedendomi un po’ di tregua.
Aspetto un bambino, disse.
Come farò adesso?
Anche l’ultima esile speranza mi sfuggiva di mano.
Subito mi vergognai di aver egoisticamente pensato a me più che a lei. L’aspettava una gravidanza a rischio, quando era ancora alle prese con la terribile esperienza dell’ultimo nato.
Come potevo illudermi che potesse continuare ad occuparsi di me? A torto pensai che non l’avrei più rivista.
Mi dica dove ha studiato; quand’anche fosse la luna ci andrò.
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La luna, quella che aveva incantato Giovani e me quel pomeriggio che non sembrava mai finire, la luna, il luogo dei sogni irrealizzati e irrealizzabili, lontana quanto basta per non deluderti, se ti venisse la voglia di farci un viaggio, trascorrervi una vacanza.
Senza acqua, né aria, sicuramente ti passerebbe la voglia di andare così lontano, per trovare ciò che hai vicino, a portata di mano e non te ne accorgi.
La luna era Champoluc, dove la dottoressa inventrice del metodo applicato da Daniela si trasferiva l’estate con tutto il suo staff, ma a differenza di questa, non bisognava prendere un’astronave, per arrivarci, e di aria e di acqua ne aveva d’avanzo per dare vita ad un paesaggio da mozzafiato con il massiccio del Monte Rosa che si stagliava alle spalle e i boschi e i torrenti e il sole che faceva brillare la neve sulla cima del grande ghiacciaio e le case immerse nei fiori e tutto quanto neanche la fantasia riesce ad inventare.
Poi l’albergo di lusso, i terapisti, la dottoressa impeccabile con il suo camice bianco e i malati…
Già i malati erano l’unica cosa stonata in quella cornice di sogno.
Erano quasi tutti bambini e ragazzi, gli ospiti dell’albergo, affittato per l’occasione dall’equipe del Centro di ascolto,qualche mamma, qualche nonna e…molte badanti.
Erano i figli dei ricchi che se lo potevano permettere di parcheggiarli in quel luogo per andare finalmente in vacanza.
Il dolore innocente, quello incontrai in quel luogo, la luna che, come quella che si staglia nel cielo, ha il suo rovescio, se poco poco ti ci avvicini.
I malati, i grandi malati li avevo incontrati negli ospedali, ma i bambini no, mai… anzi sì, ora ricordo, il primo anno che insegnai a Francavilla in un Istituto di poliomelitici.
Allora non avevo strumenti per vedere, i loro occhi tristi, i loro stanchi sorrisi.
Non mi parlarono le loro stampelle, né la disarmonia dei loro corpi straziati.Non mi accorsi che non c’erano madri, né nonne, né badanti che li accudissero, che erano stati affidati alla carità e alla pietà dello stato che non sapeva o poteva fare di meglio che lasciarli chiusi là dentro.
Trent’anni dopo mi trovai a soffrire con loro e per loro, quelli che la società accantona e nasconde, per la prima volta affondando i miei occhi nei loro, cercando di carpirne il sorriso con una stretta più forte della mano, con il tocco leggero delle dita ad imitare una carezza, con l’incapacità di andare oltre per paura di perdermi.
Quando, finite le terapie, una sera con la dottoressa ci recammo alla baita, arroccata sulla montagna, per incontrare un prete in esilio che celebrava le messe in soffitta, e ci mettemmo a parlare di Dio, urlai con quanto fiato avevo in gola, che Dio è amore, per convincere me prima di tutti, ma fui prontamente smentita da chi pensava di saperne di più.
Lui, il santone, mischiando sacro e profano, non ci stava ad affermare ciò che lo avrebbe portato nella sfera dei giusti, del Giusto che non si dovette nascondere per proclamare la verità e che in esilio c’era venuto per testimoniare l’amore,. L’amore del Padre che aveva donato suo figlio per celebrare la Pasqua con noi e la messa non avesse mai fine.
Canto:Gloria al Signore che salva
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Da "Il gioco dell’oca"
1996
L’esperienza fatta a Champoluc, non aggiunse nulla a ciò che ormai avevo capito, grazie alle sollecite e sapienti cure di Daniela.
Dalla dottoressa mi aspettavo molto di più di quello che fu in grado di darmi.
Ma se da un punto di vista umano, fin dal primo momento, qualcosa non funzionò tra me e lei, da un punto di vista strettamente professionale, mi dette indicazioni e consigli di cui feci tesoro.
Fu grazie a lei che conobbi il dottor R., fu lei che mi fece notare la mia intrinseca difficoltà ad accettare il dolore, ad andargli incontro senza irrigidirmi.
Non volle sapere nulla di me, non prestò ascolto né quella volta, né le successive a ciò che le andavo dicendo, come se già tutto sapesse.
Quell’esperienza mi aiutò a capire che non esistono verità assolute e che tanto più grandi sono le aspettative, tanto più doloroso è doversi ricredere.
Comunque eseguii a puntino tutto quello che lei ritenne utile al mio caso, comprese le terapie che fui costretta a fare a Pesaro, in attesa che Daniela tornasse al lavoro.
Il ricordo di quei viaggi con scadenza settimanale è allucinante.
Continuai, nonostante che, dopo ogni trattamento, non fossi in grado per molti giorni di muovermi senza essere straziata da spasmi dolorosissimi..
Continuai perché ci credevo, perché non avevo scelta, perché non si dicesse che gettavo la spugna alla prima difficoltà, perché ero convinta che quel metodo era giusto.
Ma ci sono terapisti e terapisti.
In quel periodo ne cambiai tanti, ma non tutti riuscivano a dare al mio corpo gli stimoli giusti per farlo tornare a funzionare.
Ero sicura che prima o poi qualcuno ci sarebbe riuscito, anche se non sapevo quando.
L’unica a non crederci fu la dott. B. che mi congedò in occasione dell’ultima visita con un laconico biglietto, in cui si diceva che quella terapia non faceva per me.
Non furono dello stesso avviso Daniela e il dott. R., che mi consigliarono di insistere.
Convinta che era solo questione di tempo, mi armai di pazienza, pronta ad affrontare qualsiasi disagio, dolore o sofferenza, pur di arrivare alla meta.
Avevo trovato la strada. Chi avrebbe potuto fermarmi?
Così, almeno pensavo.
La strada passava per Champoluc, per i suoi boschi, per le sue montagne, ma anche e soprattutto per le persone che vi incontrai, per la sofferenza di cui traboccava l’albergo che ci ospitava, per quell’uomo, ritenuto un santone che non voleva credere alla misericordia di Dio, per il desiderio di cercarla lì dove mai avrei pensato che fosse, per Daniela che doveva mostrarmela tutta, non attraverso l’handicap del suo bambino malato, né quello di tanti suoi pazienti di cui continuava a parlarmi, ma nel suo donarsi a tutti quelli che a lei chiedevano aiuto o di cui lei percepiva il bisogno.
Daniela mi mostrò il volto misericordioso di Dio attraverso l’amore che passava per lei, per le sue mani, per il suo cuore, quell’amore che non risparmiò l’Innocente, il figlio di Dio dal patire e dal morire, perché si smettesse per sempre di soffrire e di morire..
Solo ieri Gesù, a cavallo di un asino entrava in Gerusalemme, in un tripudio di folla osannante, poi il tradimento, l’abbandono, il Calvario, la croce.
E’ questa la fine della strada?
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5 aprile 2004
Venticinque anni, tanti ce ne sono voluti, perché mi accorgessi dove portava la strada che ogni mattina osservavo affacciandomi dal balcone della cucina.
Era bella, piena di vita, al tramonto, l’estate, quando i bambini, attratti dalla frescura, si divertivano a giocare a pallone o si lanciavano sulle biciclette e i tricicli, perché di macchine ce n’erano poche e la strada era chiusa lì in fondo.
L’estate le piante di more s’insinuavano tra i muretti sbrecciati, le coppiette si stringevano più forte dietro le piante di fichi, una festa, le sere di agosto con il sole che, tramontando, restituiva un po’ di ombra alla terra assetata della strada, che non era ancora stata asfaltata.
Che portasse al cimitero non me n’ero mai accorta, per via di quel pino che hanno tagliato da poco e che lo nascondeva ai miei occhi
Ora è dritta, davanti a me, mentre scrivo e penso alla festa che deve venire, ma che sento già invadere l’aria e permeare di sé i cuori guariti dal pianto e dalla paura..
Quante morti dovevo subire, quante accettare per guardare oltre il pino tagliato e non smarrirmi, quel pino che per tanti anni aveva materialmente e idealmente chiuso e concluso la strada, nascondendo ai miei occhi le tombe del cimitero, sparpagliate sulla collina, ombreggiate dal verde degli alberi che tenevano al riparo da sguardi indiscreti il sonno dei suoi abitanti.
Dovevo imparare a morire, pian piano sentirmi l’accetta addosso di quel figlio che se ne andava, nella sua casa di sposo, di quel pino tagliato di fresco che mi aveva svelato il segreto che nascondeva, l’accetta di quel bambino che con la sua malattia mi aveva tolto Daniela e di quell’altro che reclamava sua madre perché voleva nascere e aveva tutti i diritti a portarmela via, l’accetta di quella terapia ritenuta miracolosa, che avrebbe dovuto liberarmi dall’handicap da cui volevo fuggire, l’accetta impietosa di una fine che arriva inaspettata, quella di mio fratello, la prima volta che non avevo trovato rimedi.
Quel fratello mi era venuto ad abitare vicino, dopo anni di lontananza e lo potevo vedere ogni mattina, quando mi alzavo e aspettavo che uscisse il caffè, dalla finestra della cucina.
Questa strada ora osservo e mi parla di morte e di vita attraverso le foglie degli alberi che sono spuntate sui rami, attraverso il sole che ogni giorno scompare dietro le case del cimitero, attraverso la luce che lo rischiara quando al mattino si alza nel cielo, attraverso la forma mutata di una strada, da poco asfaltata, dove prepotenti lampioni oscurano le piccole luci della grande casa dei morti che riposano sulla collina.
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Un Dio di amore che è venuto a predicare la morte, come avrebbe potuto convincermi? Come io avrei potuto convincere gli altri che era vero il contrario?
Nell’ultima cena ho trovato la chiave per entrare dentro il mistero di una morte che dà la vita, di un albero spoglio issato sulla collina, che continua a germogliare e a saziare tutti quelli che hanno fame e sete di amore, tutti quelli che cercano Dio.
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Preghiera
Signore ti ringrazio perché mi hai dato la vita, per godere della vita, non della mia Signore, ma della tua quella che tu hai donato sulla croce, quella che ci chiami a donare ai nostri fratelli.
Ti lodo ti benedico perché sei un Dio di amore, perché mi chiami all’amore, perché in me e in ogni uomo hai messo il desiderio insopprimibile di te.
Ti ho incontrato inchiodato ad una croce, mentre ti cercavo nel cielo, nelle stelle, nello spazio infinito, azzurro e astratto dei miei sogni, delle mie fantasticherie .infantili..
Ti cercavo Signore dovunque c’era grandezza, potenza, gloria, ti ho incontrato nudo, piagato, sofferente, coronato di spine, inchiodato ad un legno..Ti ho cercato nella vittoria, ti ho incontrato nella sconfitta, ti ho cercato in alto e ti ho incontrato mentre ti accingevi a lavarmi i piedi.. Ho guardato il tuo volto sfigurato, il tuo corpo piagato, la tua nudità blasfema e ti ho riconosciuto. Quel volto dell’amore che non riuscivo a trovare lontano, tu l’ hai mostrato a me nella pena dipinta sul volto dei miei fratelli che cercavano una carezza, un bacio, un gesto di tenerezza a cui tu mi chiamavi, l’amore che non dovevo aspettarmi dagli altri ma che dovevo dare a quelli incontrati sulla mia strada.
Signore ti ringrazio dell’invito che fai ad ogni uomo prima di metterti in cammino sulla strada che porta al calvario, quello di cenare con te, ti ringrazio di quel pane e di quel vino, viatico indispensabile perché possiamo aspettare senza paura la tua ora, la nostra ora.
Canto:Davanti a questo amore
5 aprile 2004

La forza politica della santità coniugale

“La forza politica della santità coniugale”, questo il titolo del Convegno del RnS per la Pastorale Familiare, tenutosi a Montesilvano(Pescara) l’11 febbraio 2006. Relatore don Carlino Palumbieri, che, dopo aver fatto riferimento a Tiberiade, luogo dell’amicizia e della condivisione, luogo dell’ascolto della Parola, dove le risorse umane s’innestano in quelle di Dio, ha benedetto il Signore perché tutto questo è presente nella famiglia, Chiesa domestica,  quando c’è Maria che vigila a che non venga meno la gioia delle nozze.
Ha ringraziato il Signore, don Carlino, perché ha creato l’uomo e la donna e ci ha fatto conoscere l’amore.
A nozze si va su invito e l’invito è gratis. La prima bella notizia è che la vita è un invito a nozze, nozze che contano, perché lo Sposo è un personaggio speciale, fuori dal comune,uno Sposo che ha superato una distanza infinita per donarsi alla sua sposa.
Per il giorno delle nozze tutto deve essere, bello, gioioso, nuovo. L’abito, preparato con cura, non rattoppato, ma nuovo, adeguato, perché altrimenti si fa la fine di quell’invitato di cui parla Matteo, che fu cacciato via dal banchetto, perché non si era premurato di indossare la veste adatta all’occasione.
Ci ha invitato, don Carlino a sostare davanti ad una coppia di sposi , in silenzio, perché sono sacramento, non immagine del sacramento, sono il segno tangibile della presenza di Dio fra noi, nella relazione che intercorre tra loro.
Papa Giovanni Paolo II, nella Lettera alle Famiglie del 1994, ha detto che la Chiesa, senza la famiglia non può comprendere se stessa. La Famiglia è il grande mistero di Dio, non il problema. Nella famiglia si fa esperienza di amore filiale, genitoriale, fraterno, si fa esperienza di amore gratuito, si fa quindi esperienza di Dio.
Solo nella famiglia questo è possibile, perciò Dio ha dato alla coppia il compito di somigliargli, creando l’uomo e la donna, due diversi chiamati a diventare una carne sola per dare vita al mondo. Dio ha inventato la la famiglia, non la parrocchia per renderSi visibile al mondo.
Nell’Enciclica “Deus caritas est” il Papa ha detto che l’archetipo per eccellenza, l’esemplare assoluto dell’amore è l’amore tra uomo e donna.
Nel Concilio Vaticano II del 1965, bussola dei credenti del II millennio, sono state evidenziate 5 priorità: 1)Matrimonio e famiglia,2)cultura,3)vita sociale,4)vita politica,5)solidarietà tra i popoli.
Il rinnovamento della società passa prioritariamente dalla santità del matrimonio. E non serve e non è giusto chiamare la famiglia piccola Chiesa, ma a tutti gli effetti Chiesa domestica, profezia di Dio, non istituzionalizzabile, come tutte le profezie, ma oggetto di fede. Quando proclamiamo la nostra fede, dopo l’ascolto della Parola di Dio, non dimentichiamo di affermare con forza e con convinzione che crediamo alla Chiesa, una, cattolica e apostolica, tenendo gli occhi fissi alla famiglia da cui siamo nati e a quella che abbiamo formato con il nostro coniuge, alla nostra parrocchia, dove con altre famiglie, riceviamo i Sacramenti, per finire alla Chiesa, comunità di tutti i credenti.
Il matrimonio, non è un fascio di doveri ma una Grazia. Cinquanta anni fa ci si sposava per procreare, per allevare la prole, per disciplinare e dare uno sbocco al desiderio sessuale.
La Chiesa allora era gerarchizzata e ci si sentiva costretti dentro un cumulo di formule e di doveri.
La bella notizia che dobbiamo annunciare è che siamo chiamati personalmente a diventare santi insieme a tutti i battezzati nella Chiesa dove Dio ci ha chiamati.
La prima Chiesa è la famiglia, la più importante, perché nella famiglia s’impara ad essere santi e si può diventare santi nella famiglia e non “nonostante” la famiglia.
1)La santità non è privilegio di pochi.
2)La santità non è frutto di titoli, ma dono di grazia. Il segreto sta nel diventare ciò che già siamo.(Siamo di Dio, dobbiamo decidere di appartenergli sempre consapevolmente).
3)Nella famiglia c’è la pienezza della carità, perché si sperimenta la pienezza dell’amore.
4)La santità serve nella città terrena ad avere un tenore di vita più umano, vale a dire che “LA SANTITA’UMANIZZA IL MONDO”.
5)Non c’è una santità standard.Nella “Lumen Gentium” si dice che tutti siamo chiamati alla perfezione della carità, all’amore, alla pienezza della vita in Dio.
Sposarsi in Gesù Cristo è una chiamata per la quale si chiede una virtù fuori del comune. Nella “Lumen Gentium” infatti si dice che i coniugi significano il mistero di unità di Cristo con la Chiesa.
Si diventa santi nel, con e per il matrimonio, perché due diventano una carne sola nel matrimonio, non un solo spirito. La santità dei coniugi Beltrame Quattrocchi c’insegna che la via seguita è quella ordinaria di una coppia che si ama in Cristo.
Il giorno delle nozze Dio non ci dice “Auguri” ma dona la capacità di amare sempre e nonostante tutto il coniuge a cui si è promessa la fedeltà.
La fedeltà è alla comunione, all’alleanza, non alla persona. Dio  dona la capacità di non rompere l’alleanza, anzi di renderla più salda attraverso l’esercizio del perdono, dono totale e gratuito fino alla morte. Morire per dare vita all’altro, questo è quello che Dio ci chiede nel matrimonio, essendo i coniugi datori di vita, il primo parto è quello dell’altro, dello sposo o della sposa.
Sposarsi in chiesa è pura follia, perché è amare a braccia inchiodate.
Il coniuge deve aiutare l’altro non a vivere ma a salvarsi, a vivere senza peccato, a superare le difficoltà che derivano dal peccato, a fargli fare esperienza di Dio.
Quella degli sposi è una santità laica, che non possono avere i preti o i monaci.
La santità è nella realtà che viviamo, rendendo straordinarie le cose ordinarie. Ogni coppia deve trovare espressioni di vita, di culto, di preghiera specifiche, non oggetto di letteratura.
Nella”Cristi fideles laici”si parla del rischio di clericizzare i laici, che nella famiglia realizzano ciò che sono. Due realtà non finiranno mai:la famiglia e la Chiesa.
La SPIRITUALITA’ CONIUGALE ha come sua specificità la coniugalità, la relazione, che diventa grazia.
Il Sacramento del matrimonio come quello dell’ordine sono sacramenti di ministero.
La grazia donata deve essere messa in circolo. L’amore diventa grazia per gli altri, perché si diventa canali d’amore e si porta gli altri ad amare nel modo giusto, se ci si conforma a Cristo.
Il giorno delle nozze l’amore viene comandato, diventa il sacramento. Da quel momento si sta insieme per scelta, non per sentimento. Come il rapporto con il figlio è naturale, così lo è quello degli sposi.
Con il matrimonio la coppia naturalmente sta insieme, naturalmente si ama, non perché sia facile, ma perché è nella natura del sacramento amarsi “a prescindere”.
La prima specificità della forza politica della santità coniugale è quella di aprire la porta della nostra casa per permettere agli altri di entrare.
Vediamo gli sposi cristiani chiusi nel bunker dell’appartamento e o possedere case che non abitano.
Gli sposi cristiani hanno un ministero sociale, politico e non possiamo defilarci dicendo che la politica è sporca.
Le opere di misericordia corporali ci ricordano che è dovere occuparsi degli affamati, assetati, ignudi, pellegrini, carcerati, morti, senza contare le opere di misericordia spirituali.
SAREMO GIUDICATI SULL’AMORE.
Mosè, vive 120 anni, i primi 40 in Egitto, poi 40 a Madian cerca di vedere che vita facevano i suoi fratelli e uccide l’egiziano, facendosi giustizia da se. A 80 anni Dio gli comanda di occuparsi del suo popolo che accompagnerà fuori dall’Egitto attraverso il deserto.
Nella parabola del buon Samaritano i verbi sono 10
Lo vide
Si mosse a pietà
Si curvò su di lui
Gli fasciò le ferite
Gli versò l’olio
Lo caricò sul giumento
Lo portò in albergo
Si prese cura di lui
Tornò indietro a pagare.
Questo spirito, questa disponibilità, questo amore rende vivibile la polis e la trasforma in una famiglia.
 
11 febbraio 2006.
 

20 Dal diario di Antonietta

 

Rubrica radiofonica a cura di Antonietta
Canto:Davanti a questo amore

Un caro e affettuoso saluto a tutti amici radioascoltatori.
Radio Speranza ha ricominciato a funzionare a singhiozzo, dopo la brutta influenza che si è presa e che non ancora l’abbandona del tutto.
Siamo in piena Quaresima, e non ci dobbiamo meravigliare se le cose vanno come vanno, se il bene fa tanta fatica ad emergere e affermarsi, se una voce cattolica, come quella di questa emittente, viene messa a tacere o mischiata alle voci profane, che vogliono a tutti costi richiamare l’attenzione su ciò che non appaga ed è destinato a morire.
Questo tempo di preparazione alla Pasqua è un tempo difficile per ogni persona, che si sia messo in cammino alla volta della città santa, seguendo le orme del maestro attraverso il deserto, dove fu sottoposto ad ogni tipo di tentazione, dalla quale uscì sempre più che vincente, grazie a quel legame indissolubile che lo teneva stretto al Padre mediante lo Spirito.
Se vogliamo partecipare alla Pasqua e far festa con lui; non possiamo esimerci da ricalcare le sue orme, entrando nel deserto dove le luci del mondo sono spente e i bagliori, di tutto ciò che ci distrae dall’essenziale, è solo un lontano ricordo.
Entrare nel deserto, significa fare il deserto dentro di noi, fare pulizia di tutto ciò che non gli appartiene, di tutto ciò che ne offusca o ne deturpa l’immagine, creare le condizioni per l’incontro con Lui, lo Sposo, che ci aspetta nella sala alta della casa, il Giovedì santo, dove ci consegnerà il viatico per non venire mai meno, per non morire di fame, rimanendo in comunione costante con lui.
Questo quindi è un tempo di lotta con il nemico, che le studia tutte per farci soccombere.
La sua è un’arte sottile, che tende ad alimentare l’orgoglio, origine di tutti i mali, che affliggono l’uomo, da quando volle mangiare del frutto dell’albero e diventare padrone del suo destino.
Il diavolo è il grande divisore, colui che porta l’uomo a odiare o invidiare gli altri, convincendolo che sono un ostacolo alla sua felicità o uno strumento per la propria realizzazione o autoaffermazione.
Egli, il nemico di Dio, non fa altro che opporsi alla Sua azione, che tende a unire, mettere in relazione se stesso con tutte le sue creature perché l’affresco, il grande mosaico prenda forma e mostri il suo disegno di salvezza, dove ogni tessera, anche la più insignificante, se presa da sola, acquista valore solo se inserita nel meraviglioso quanto imperscrutabile disegno salvifico tracciato dalla Sua mano.
La lotta è quindi quella contro ogni tipo di divisione, la preghiera è finalizzata a che ciò non accada, il campo di battaglia è la nostra vita, la nostra storia, spesa ogni giorno nella famiglia, nel condominio, nel lavoro, nelle amicizie, in ogni relazione più o meno difficile.
Il deserto a cui ci chiama la Quaresima è quello che ci porta a vedere l’essenziale, a fare affidamento solo sulla roccia salda che è Cristo, mentre la lotta all’ultimo sangue viene combattuta sulle strade di questo mondo, sempre più povero di Dio.
Non illudiamoci che la violenza, e tutto ciò che consegue, siano cose che appartengono agli altri, che noi non ci possiamo fare niente, se non bei discorsi e magari manifestazioni pacifiste con tanti striscioni altisonanti quanto ingombranti.
Se riflettiamo un poco, ci accorgiamo che ciò che accade tra le nazioni non è che l’amplificazione di ciò che succede nelle nostre famiglie, nel nostro condominio, nel nostro ambiente di lavoro, dove ci sembrano tutti sbagliati, dove si fa una fatica a procedere perché non sono come noi li vogliamo, più buoni, più gentili, più generosi, più rispettosi, più educati ecc.. ecc.. ecc..
Ci sforziamo di immaginare un mondo migliore, cambiando i connotati a tutti, ma ci guardiamo bene dallo specchiarci, per paura che poi anche noi abbiamo bisogno di un lifting, non si sa poi con quali risultati.
E pensare che, se invece di specchiarci negli stagni putridi e inquinati di questo mondo, ci specchiassimo in Dio, ci accorgeremmo che non c’è macchia che lui non deterga, non c’è uomo che non sia bello ai suoi occhi, purché si lasci guardare e guidare da Lui.
La grande lusinga è che l’uomo basta a se stesso, che non ha bisogno di aiuto, che non ha bisogno di Dio.
Se Gesù è riuscito a rifiutare tutte le ingannevoli proposte di satana, è perché lo Spirito era con lui, lo spirito di amore, che lo univa al Padre e a tutti gli uomini, a cui il Padre lo aveva mandato.
Spirito di amore e di sacrificio rendono possibile il godimento di una festa che non finisce il sabato santo, il settimo giorno, ma che apre la strada all’ottavo, la domenica, il giorno del Signore, il giorno in cui Lui si dona a noi oggi e sempre.
Canto:Questo è il mio corpo.
In questi giorni ho avuto modo di sperimentare tutto questo, attraverso le piccole e grandi prove a cui il Signore mi ha chiamato, come la malattia dei miei anziani genitori, il ricovero in ospedale di mio padre e poi quello di Giovanni, il più grande e il più piccolo, vittime innocenti dell’influenza che si è accanita sui più deboli e bisognosi di cure.
Ancora una volta ho toccato con mano come la famiglia, sia un valore imprescindibile in questa società, dove i rapporti sono regolati dal dare e dall’avere, dove il privilegio di pochi schiaccia ed umilia il bisogno dei molti, dove la persona è rispettata per quello che sembra e non per quello che è.
Quando la molla dell’agire non è il proprio tornaconto, quando le parole non sono per esaltare il proprio operato, quando la luce che guida i nostri passi è la luce di Cristo, quando la verità non ha mille facce, ma si poggia su una parola, la Parola che salva, il Verbo incarnato morto e risorto per noi, cosa può farci paura?
Così abbiamo assistito tutti ai miracoli che compie l’amore, mobilitandoci tutti per soccorrere chi aveva più bisogno, pur non essendo nessuno stato risparmiato dal male, come nessuno ha presentato il conto dell’energia, del tempo e del denaro speso perché la famiglia uscisse indenne dalla bufera, affidando al Signore la guida della barca in preda ai marosi.
Due luci, due piccole e timide fiammelle hanno accompagnato la nostra preghiera, mia e di Gianni, due candele accese nel momento del bisogno, che don Gino ci aveva dato il giorno della candelora.Non avevamo mai saputo che farcene di quelle candele, fino a quando qualcuno ci ha detto che si accendono quando arrivano i temporali.
E che temporale è arrivato! Ma quanta luce quelle candele hanno sprigionato!
E’ bello camminare insieme, anche al buio, se in mano stringi una piccola candela, quella che serve per non mettere i piedi in fallo e illuminare solo il pezzo di strada che ti sta davanti..
Questa è la fede, questa è la forza che ci fa sperare che il deserto si può attraversare indenni, senza paura che il nemico ci tenda una trappola.
Il mio pensiero va a tanti anni addietro quando a guidare la barca ero sola, quando le persone erano solo un mezzo per sentirmi realizzata, se non erano un ostacolo, quando Dio lo cercavo lì dove mai avrei potuto trovarlo, quando ancora mi era ignoto dove portasse la strada che da tanto andavo cercando.
I valori, ai quali tendevo, erano prettamente umani e poggiavano sulla forza l’intelligenza e la capacità dell’individuo, senza nulla attribuire a Chi era il datore di tutti i beni, senza a Lui affidare il compimento di ciò che umanamente non era possibile fare.
Questo è il salto vincente, è la grazia che viene a chi la cerca e la chiede con cuore sincero.
Ma per chiedere bisogna prendere coscienza del proprio bisogno.Quando scrissi ciò che vi vado a leggere non avevo ancora conosciuto il deserto.
Da "Il gioco dell’oca"
 1995
Avevo imparato a convivere con l’handicap e avevo rinunciato a tutte le velleità di un tempo.
Costretta ad un’immobilità forzata, le persone e le cose erano entrate dentro di me in modo prepotente e al deserto di un tempo si era sostituito un universo affollato di sentimenti ed emozioni.
Avevo imparato ad ascoltare e a tenere nel giusto conto i problemi degli altri.
Mi piaceva mettere a disposizione la mia esperienza per il beneficio comune.
Mi gratificava il fatto di riuscire a mettermi in sintonia con tutti quelli che incontravo sul mio cammino e a guadagnarne la stima, specialmente quella di chi, al primo approccio, mi aveva considerato un nemico.
Riuscivo sempre a trovare una parola per tutti e ciò mi faceva sentire importante. A me nessuno osava dare consigli, perché tutti mi vedevano forte e sicura.
Ce la mettevo tutta, ogni mattina, perché lo specchio mi rimandasse il volto disteso e sorridente di chi non aveva problemi. Chiunque m’incontrava si congratulava con me per la splendida forma.
Ero fiera del fatto che riuscivo così bene a nascondermi dietro una maschera ironica e sorridente.
Ma la realtà era pronta a smentirmi con incredibile crudeltà.
Ma chi fece il viaggio a Milano per controllare la tiroide?
Eppure le gambe e le braccia, che sembravano staccarsi dopo l’assunzione dell’Eutirox, che doveva tenere a bada gli ultimi venuti, i noduli in cui m’imbattei per caso, quando cercavo risposte che sto ancora aspettando ai miei disturbi digestivi, erano le mie.
Chi conduceva la lotta con gli ansiolitici per mitigarne l’effetto?
E l’utero che aveva ripreso a scalciare dopo un lungo periodo di tregua? E le cisti in testa che si erano ripresentate con rinnovata arroganza?
Forse che le mani funzionavano, con i pollici ingabbiati in un tutore che ne limitava i movimenti?
E che dire della nuova terapia riabilitativa, che facevo il sabato e che, puntualmente, il lunedì m’impediva di andare a scuola?
E il volto rabbuiato del preside, ogni volta che accusavo un malessere?
Quante volte la pranoterapeuta aveva dovuto venire a casa per alleviare il dolore che non mi permetteva di muovermi?
Ma tutto ciò sembra non appartenermi.
La strada
Al di là delle soddisfazioni personali, quest’anno è successo sicuramente qualcosa d’importante.
Lo sguardo sereno e il volto disteso in una pace tanto a lungo cercata ed infine trovata non si possono attribuire ad un trucco sapiente.
Sicuramente nuovi orizzonti mi si sono aperti dopo l’incontro con la dottoressa B. e con lei.
Ma non è solo questo.
Io, che credevo che a tutto si potesse trovare rimedio, che non c’era problema che non potesse essere risolto e che esisteva un unico modo di essere, mi sono resa conto di quanto sbagliavo.
Ho capito che la vita è ricerca, è impegno, è testimonianza, è abbandono nel mistero profondo e affascinante dell’essere.
Mi chiedo se abbia ancora così tanta importanza guarire, se finalmente ho trovato la strada.
Non ho mai pensato che bisognasse chiedere dove fosse. Io la conoscevo, sapevo che non mi potevo sbagliare: era quella che portava lì in alto, su quella cima che gli occhi a fatica riescono a distinguere, perché troppo forte è il bagliore della luce del sole.
La cima non si vedeva ma, per arrivare, ci doveva essere la strada e, se non c’era, avrei provveduto a costruirla, perché troppo importante era quel punto imprecisato del cielo, dove si confondeva l’aria e la terra.
Non importava che quella strada non fosse stata percorsa da nessuno; anzi mi esaltava l’idea di essere la prima a tracciarla.
Percorso fatto in solitudine. Strada lunga e difficile.
Nonostante la fatica, mai mi sfiorò l’idea che quella non fosse la via giusta. Nonostante le cadute, nonostante gli ostacoli, tutto serviva ad alimentare la mia voglia di vincere.
Ora che il cammino mi ha fiaccato, ora che ho forse visto i contorni di quella vetta indistinta, ora mi chiedo se ne è valsa la pena.
Cadere e rialzarsi, piangere e ridere, annullarsi e inebriarsi in una costante altalena d’impotenza e onnipotenza.
Così procede la vita dell’uomo nella disperata ricerca di se stesso.
Così concludevo la lettera indirizzata al medico di Milano che stava conducendo uno studio sulla sindrome da deficienza posturale, malattia che nasce dalla difficoltà a recepire l’appoggio, qualunque esso sia.
E’ incredibile come Dio non abbia smesso un momento di bussare alla mia porta e di parlarmi, attraverso i sintomi di una malattia dell’anima che avevo trasferito sul corpo.
Dovevo fare silenzio, dovevo imparare a morire, per vedere, per capire, per amare.
La chiave era lì a portata di mano, nel chiuso segreto di una stanza..
31 maggio 2001
 La tua stanza
Franco, manca poco e la tua stanza sarà vuota di vestiti, di scarpe, di fogli, di libri, di dischetti e CD messi lì alla rinfusa, abiti stropicciati, sparsi ovunque, fili aggrovigliati che spuntano e s’intrecciano e s’insinuano fra le multiformi e variopinte scartoffie che sciabordano dagli scaffali che non le contengono.
Quel tuo voler fare le tante, troppe cose che il tempo ti strappa di mano, quel frutto che vuoi cogliere subito, la tua voglia di bruciare le tappe, ti portano a lasciare indifese le tracce di ciò che sei, di ciò che cerchi, di ciò che comunque vuoi nascondere, senza riuscirci.
Franco, la tua camera oggi mi parla di te-, con il suo disordine, con la sua confusione che è anche la mia, mi parla delle tante, troppe baruffe perché non riuscivi, non riuscivo a capire, che ogni tanto bisogna fermarsi, per buttare ciò che ci ostiniamo a portare senza che ne valga la pena, ciò che grava sopra di noi, perché non riusciamo a lasciarlo da parte.
Franco, la tua camera oggi parla di te, più forte, mentre pian piano togli di mezzo ciò che è tuo, ciò che fino a ieri sembrava mio solo mio, perché tu eri cosa mia, come i tuoi pensieri i tuoi desideri i tuoi sogni che ti ostinavi a negarmi…tutto, tutto ciò che, essendo tuo, pensavo mi appartenesse.
Ora te le porti lontano le cose che non sono mai state mie, le strappi dalla tua stanza stupita, dal mio cuore sconvolto da questo temporale di maggio, le porti via senza ordine, senza niente buttare, perché bisognerebbe fare una scelta ed è difficile, specie in questi momenti convulsi che ti separano dal matrimonio.
Le cose, Franco, lo so, lo sai, non vanno lontano: da un armadio ad un altro armadio, guarda caso distante 10 metri…
O di più?
Ma il tuo cuore, Franco, quello dove lo porti?
Il vuoto che lasci di te, del tuo disordine assurdo, dei tuoi silenzi, dei tuoi nervosismi, delle tue attenzioni nascoste, dei tuoi gesti gentili mischiati al fracasso di ciò che non volevi apparisse, della voglia di dirmi, di dirci che ci volevi bene, che volevi ti amassimo come tu sei, come ti sforzavi di essere senza riuscirci, mi sembra incolmabile.
I tuoi diari, lasciati per caso, senza parere poggiati su un tavolo, dimenticati in un angolo, erano lì ad aspettare che qualcuno li aprisse, per capire e conoscere ciò che ti ostinavi a nascondere.
Per sbaglio ne ho aperto, un giorno lontano una pagina e vi ho trovata scritta una preghiera.
L’ ho letta perché era bella, perché era tua, perché non mi sembrava di violare un segreto, visto che l’avevi lasciata lì ad aspettare che finalmente mi accorgessi che c’eri, che il tuo cuore batteva, che avevi trovato un compagno, un amico a cui confidare il tormento e la pena dell’essere soli, un amico che non conoscevo.
Ora quell’amico anch’io l’ ho trovato, ora possiamo parlare con Lui e di Lui senza riserve, senza che la vergogna e il pudore ci chiuda la bocca, ora possiamo sentirci vicini, perché è Lui che ci porta lì dove non sapevamo salire.
Non siamo più soli, perché se l’uno l’altro perde di vista, Lui ci sente e ci rimette in contatto, ricordandoci che l’amore non conosce distanze, riempie i vuoti dell’anima, i vuoti delle stanze deserte, che non rimangono mute, quando un figlio si sposa, quando una madre, invecchiando, non può condividere le sue spensierate e giovani scelte.
Lui è quello che, saldandoli, ricongiunge, i fili spezzati, è quello che riempie di luce le stanze buie e gelate, riscaldandole con il suo dolce tepore.
Oggi, Franco, guardando la tua stanza, a tutto questo ho pensato.
Se non mi fossi fermata un momento, per scriverti dello strazio delle cose portate lontano, non avrei potuto gioire del dono stupendo di cui tu sei stato strumento: il Compagno, l’Amico con cui tu te ne vai, ma anche quello che tu lasci qui dentro, perché in fondo ciò che conta è vedere nella morte dei nostri pensieri la vita dei nuovi pensieri, che sbocciano nel cuore irrigato dal pianto e purificato dall’aria che soffia leggera sulle cose trasformate da Dio.
Bisognava che lui se ne andasse, per accorgermi che in fondo alla strada, su cui si affaccia la sua finestra, c’era un pino da poco tagliato, che per anni mi teneva nascoste, le case del cimitero.
Non è questo forse il percorso a cui ci chiama la Quaresima che stiamo vivendo?
Canto:Davanti a questo amore
22 marzo 2004

Non è bene che l’uomo sia solo


Gen 2,18-25
La condusse all’uomo. I due saranno un’unica carne.

Il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda». Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.
Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo.
Allora l’uomo disse:
«Questa volta
è osso dalle mie ossa,
carne dalla mia carne.
La si chiamerà donna,
perché dall’uomo è stata tolta».
Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne.
Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna.

Parola di Dio

Non è bene che l’uomo sia solo.
Non è bene che l’uomo sia solo, voglio fargli uno che gli sia simile, che gli stia di fronte, che lo guardi e si lasci guardare, uno nel cui sguardo specchiarsi e riconoscersi, uno che gli sia simile.
Più o meno così le parole con cui la Genesi racconta la creazione di Eva.
Mi sono commossa quando la biblista, a Nocera Umbra, ha raccontato la tenerezza di Dio, un Dio discreto e nello stesso tempo coinvolto nel rendere felice la sua creatura.
L’aveva creata lui, il re dell’universo, l’onnipotente, il santo e non bastava all’uomo, non gli poteva essere d’aiuto in quel sentirsi solo nella creazione, smarrito in quel giardino dove abbondavano frutti di ogni specie per nutrirlo, fiori di ogni colore, forma e profumo, per rallegrarlo, animali di ogni dimensione per fargli compagnia.
Eppure l’uomo era triste, un’angoscia profonda lo aveva preso e stava in silenzio, dopo aver dato il nome a tutti gli animali del cielo, della terra e del mare.
Penso a Giovanni, il nostro nipotino, quando gli arriva un giocattolo nuovo: lo adopera per un po’, poi lo mette da parte, perchè non ha amici con cui giocarci.
Così si deve essere sentito Adamo, come un bambino che cerca altri bambini con cui parlare, giocare, condividere. Il papà e la mamma, come anche i nonni, fanno quello che possono, ma loro, i bambini, sentono quel tempo prestato, contato con il contagocce, perchè hanno altro da fare e non possono giocare sempre con loro.
Così Dio, rispettando il suo dolore, fece scendere su di lui un torpore, e con discrezione, da lui stesso, fece uscire la compagna da mettergli a fianco, la custode, l’alleata, la sposa, quella che con lui poteva gioire, piangere e ridere, senza rivendicare il possesso del tempo, perchè era una parte di lui, da lui era uscita, lui l’aveva partorita nel sonno.
Che bello questo Creatore che fa da levatrice, da ostetrica al primo parto dell’uomo.
Un parto indolore, quello delle origini; ma non sarà sempre così.
Il primo parto a cui siamo chiamati è il coniuge, ci è stato detto. Ma per partorire bisogna essere nati, altrimenti come potremmo?
Se non si fa l’esperienza di essere generati non si può fare quella di generare.
Gli voglio fare uno che gli sia simile. Chissà se Dio pensava a tutto questo quando ha creato Eva, la prima donna! Uno che gli sia simile, è una parola! In genere ci si innamora di chi ci completa, di chi è diverso da noi; per questo lo sposiamo, proprio perchè, altrimenti, finiremmo per fare a botte, più che all’amore. Ma poi, passato il periodo dell’innamoramento, scopri che quello che ti aveva attratto non ti piace più e cerchi di trasformare il partner in qualcuno che ti sia simile, che la pensi come te, che si muova come te, che desideri le stesse cose che desideri tu.
Oppure pretendi che faccia ciò che tu mai sei stato capace di fare, incredibilmente cercando in lui quello che ti manca. La somiglianza cercata diventa pretesa di perfezione, non accettazione della sua diversità, debolezza, limite.
Alla ricerca di qualcuno che ti sia simile, vaghi per il mondo, attraversi mille deserti, fai centomila esperienze, batti la testa in miliardi di ostacoli, ma non ti rassegni a cercare uno che ti sia simile e non smetti di litigare con tutti quelli che non la pensano come te.
Chissà perchè Dio ha detto che voleva fare per l’uomo uno che gli fosse simile!
Penso proprio che la lingua ci abbia ingannato e che in quel simile della traduzione italiana si nasconda esplicandolo del tutto il termine “relazione”, sì che la parola di Dio va letta” Non è bene che l’uomo sia solo, voglio fargli uno con cui possa relazionarsi, con cui possa dialogare”
Del resto aveva detto in un altro passo della Genesi:
Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”.
Dio creò l’uomo a sua immagine;
a immagine di Dio lo creò;
 ”maschio e femmina li creò. ”

 

Per essere simili a Dio, per somigliargli, bisogna entrare in una relazione che non porti alla morte, ma che sia fonte di vita. Il Dio Trinitario ha creato la coppia perchè, attraverso la relazione perfetta dell’amore donato gratuitamente all’altro, dessero vita al mondo, lo popolassero.
La sciarpa, le cui estremità devono sempre essere strette nelle mani di ciascun coniiuge, è stata la metafora di cui si è servito Don Carlino per rendere l’idea.
Adamo, quando vide Eva disse: questo è carne della mia carne, osso delle mie ossa, per cui si chiamerà(Ishah) come me( Ish), ma con una lettera in più, per distinguerla da me e per dire che da me è uscita.
Il coniuge che partorisci deve sempre avere qualcosa in più di te, altrimenti che senso ha dire: Prometto di onorarti per tutta la vita?
Non è forse quell’aggiunta che onora l’altro, quel di più che riconosciamo all’altro, mettendobci umilmente al suo servizio, per lavargli i piedi, e qualche volta per rimetterlo in piedi?
Ma doveva venire Gesù per dirci queste cose, lui che dopo aver visto il fallimento delle alleanze umane,ha dato suo figlio, uguale a noi nel limite della carne, diverso per l’assenza di peccato.
Le colpe dei padri ricadono sui figli, e Gesù non poteva scontare una colpa che Suo Padre non aveva commesso e non poteva commettere, ma su di sé ha preso tutte le conseguenze della colpa dei suoi antenati.
Dio padre voleva dare una sposa a suo figlio, ecco perchè ha creato l’uomo, ecco perchè ha pensato di fargli capire, attraverso la donna messagli a fianco, qual era il suo progetto. Ma l’uomo non l’ha capito, per questo Dio si è dovuto incarnare: per insegnare all’uomo che significa amare, che significa somigliare, che significa cercare oltre ciò che nell’altro non possiamo trovare. Nell’altro cerchiamo altro, senza pensare che basta solo una vocale per cercarvi l’oltre.
Non è bene che l’uomo sia solo! Grazie Gesù che sei venuto ad abitare la nostra solitudine, grazie Dio Padre perchè ci hai dato uno che ci risponde, uno sposo perfetto. Grazie Spirito Santo perchè ci dai la capacità di vedere nell’altro l’oltre
Da “Famiglia:segno di speranza” del 7 gennaio 2007