Racconti di solidarietà: “lo toccò”

 

bergoglio malato aids lo toccò

VANGELO (Mc 1,40-45)

In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato.
E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro».
Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.

Quando Gianni non si presentò alla radio quel lunedì, tirai un sospiro di sollievo, perché era arrivato il momento che si scoprissero le carte e si vedesse chiaramente chi faceva e chi non faceva.
Ci eravamo impegnati con don Remo, il direttore di Radio Speranza, a portare avanti una trasmissione (“Famiglia oggi: riflessioni di coppia”), in cui comunicavamo agli ascoltatori l’esperienza, faticosa e nello stesso tempo esaltante, del camminare insieme a Cristo, che avevamo scoperto potente alleato.
Pian piano il peso del lavoro si era riversato sulle mie spalle a tal punto che Gianni dava per scontato che, massimo la domenica mattina, lo Spirito Santo faceva il miracolo di rimettere in ordine tutta la mole di appunti che io ero andata prendendo durante la settimana, limitandosi a mettere in bella copia il testo sopra il computer.
Non c’è che dire, un bel sodalizio; ma il suo comportamento negli ultimi tempi mi stava dando sui nervi, perché mi sentivo sola in quella battaglia e non vivevo ciò che dai microfoni volevo passasse.
Mi ero gettata in quell’avventura un po’ per fede un po’ per scommessa, sperando che Gianni si svegliasse dal sonno. Ma niente era cambiato.
Quel lunedì, quando uscii dagli studi, ero soddisfatta per come erano andate le cose, perché il discorso sulla solidarietà, che deve partire da valori vissuti nella famiglia, mi aveva dato lo spunto per parlare della nostra esperienza personale, scaturita da una preghiera fatta insieme per una coppia in crisi: l’inizio di una dolce abitudine che continua ad accompagnarci, condizione imprescindibile per abolire le distanze che ci dividono.
Mentre io disquisivo alla radio sulle distanze colmate e da colmare, Gianni, con salto da atleta, alla stessa ora, aveva superato tutti gli ostacoli, per essere vicino a suo cugino in cerca di aiuto, che il padrone di casa non vede l’ora di sfrattare, perché non si lava e puzza.
Solo da poco ho imparato ad apprezzare ciò che naturalmente Gianni fa da sempre, nonostante nei lunghissimi anni della mia malattia non abbia mai fatto lo schizzinoso, accudendomi in ogni genere di necessità, quando l’immobilità mi teneva inchiodata ad un letto o ad una poltrona.
L’incontro con un Crocifisso e con chi da Lui prende luce, mi ha portato a vedere, rispettare e servire i crocifissi messi sulla mia strada..
LUCIANA
Luciana è una di questi, la più importante per la mia storia personale, perché in lei e con lei ho scoperto il potere rigenerante e salvifico della croce portata con i fratelli.
La prima volta che l’incontrai, ricordo, mi fermai alle mani sporche, alle unghie ingrommate di roba marrone, ai jeans lisi, ai neri scarponi ricoperti di polvere.
Cosa avevo io da spartire con una che, a mezzogiorno, nei pressi del centro, va in giro conciata a quel modo?
Quando si fermò a salutare la mia accompagnatrice, non alzai neanche lo sguardo, tutta presa a cercare una sedia per porre fine al mio inseparabile dolor di schiena. Se l’avessi fatto subito, mi sarei imbattuta nel suo inusuale copricapo, un foulard che le fascia la testa, legato alla maniera dei corsari, e mi sarei posta qualche domanda, che andava oltre il vestito e lo sporco.

Solo quando mi decisi a guardarla negli occhi, mi specchiai in due polle di acqua sorgiva..

Ci ritrovammo a parlare come se ci fossimo conosciute da sempre, io che di lei non sapevo niente, lei che di me aveva intuito tutto, perché “dove hai gli occhi hai il cuore” e Luciana gli occhi e il cuore li ha aperti alla sofferenza del mondo, anche se passa i suoi giorni chiusa in un garage, senza che luce e aria vi circolino liberamente.
Lì restaura mobili per la gente perbene che, pur amandoli, non ama la gommalacca che penetra nelle unghie quando devi restaurarli, né la gente che se ne porta appresso l’odore.
Cominciai a frequentarla quando mi mise a disposizione una sedia, l’unica cosa che mi faceva decidere di fermarmi a parlare lontano da casa mia. E ci si mise d’impegno per farmene trovare sempre una, che non traballasse, cosa non facile nel suo negozio.
Mi piaceva ascoltarla perché mi faceva entrare nelle storie delle persone, raccontandomi ciò che non appariva allo sguardo dei frettolosi passanti. Attraverso i suoi discorsi mi accorsi che esisteva un mondo sommerso , invisibile, di cui i pochi accattoni incontrati non erano che la punta dell’iceberg.
Luciana sembrava un giocoliere che ogni giorno dal cappello faceva uscire qualcosa di straordinario. Erano le persone che, grazie al suo abbigliamento poco ortodosso, si lasciavano avvicinare e delle quali scopriva preziosi tesori da esplorare.
Il restauro migliore, mi accorsi che lei lo faceva alla persona, restituendole la dignità che Dio dà ad ogni uomo.
Luciana è stata la battistrada che mi ha portato a concepire la solidarietà non come un gesto grandioso ed emblematico, fatto una volta per tutte, ma un insieme di piccoli gesti gratuiti, ripetuti ogni giorno, nei riguardi di chi il Signore ci mette di fronte. Mi colpì il fatto che pregava per gente che non conosceva, che accoglieva nella sua casa senzatetto ed emarginati, che si adoperava affinchè quelli che non hanno cittadinanza nella nostra società opulenta, avessero di che mangiare e vestirsi, privandosi spesso del necessario per loro.
Fino a quel momento la carità che conoscevo era quella che non mi scomodava, neanche per andare a fare un vaglia alla posta, con la scusa che non potevo stare in piedi, quella che era garantita dalla riconoscenza di chi aveva effettivamente bisogno, quando i bisogni degli altri li misuravo sui miei, quando la carità non nasceva dalla rinuncia e dal sacrificio.
I bisogni degli altri, Luciana, m’insegnò a vederli nelle storie anonime di tanta gente con cui si fermava a parlare. I poveri, i veri poveri, poi costatammo insieme, non erano quelli a cui manca il tetto, il cibo o il vestito, ma quelli che avendo tutto questo e tanto di più, non hanno nessuno che gratuitamente gli doni un sorriso o una carezza.
Man mano che procedevano le nostre conversazioni in mezzo alla polvere, all’odore acre delle vernici, mi sono resa conto che il tempo, il bene più prezioso che Dio ci ha dato, dopo la vita, era quello che dovevamo essere disposti a donare agli altri, senza avarizia, quello sottratto al riposo, allo svago, a volte anche al lavoro.
La compassione è un sentimento che ci siamo dimenticati o non abbiamo mai conosciuto, riflettevamo insieme, in una di quelle mattine che ci vedevano parlare fitto fitto, mentre lei era intenta al lavoro, è un sentimento divino, è il sentimento che Dio ha provato quando ha deciso di mettersi nei nostri panni e di traslocare nel nostro mondo, abolendo le distanze che ci dividevano da Lui.
Frequentando Luciana, le parole ascoltate ogni giorno durante la Celebrazione Eucaristica: ”Fate questo in memoria di me”, non mi sono sembrate poi così tanto scontate come credevo, e mi hanno fatto capire che servire Cristo non significa andare tutti i giorni alla Messa, ma servirlo nei poveri, nei sofferenti, nei bisognosi, anche se sono sporchi e mandano cattivo odore.
Gesù non ha avuto paura di sporcarsi, quando ha deciso di venirci in aiuto, non disdegnando di nascere in una stalla ed essere deposto in una mangiatoia, riscaldato dal fiato di un bue e di un asino, mentre gente senza fissa dimora andavano ad adorarlo.
Quanto cattivo odore intorno a Gesù, il figlio di Dio fatto uomo, ma quale messaggio d’amore ci ha trasmesso attraverso quelle che sono state le sue preferenze!
Tutta presa a riflettere su come ero e come sono, non senza un certo compiacimento, mi è capitato sotto gli occhi un vecchio articolo sullo tsunami che mi ha fatto ricordare Dominicus, il seminarista indonesiano che, grazie all’interessamento di Luciana, ha trovato persone che s’interessassero a lui. Mi ero dimenticata di Dominicus quest’anno, e ci voleva l‘articolo per prendere coscienza che in Indonesia c’è stato lo tsunami.
Chissà se Dominicus è ancora vivo! Quando ha scritto gli auguri di Natale sicuramente lo era. E dire che ci sentivamo la coscienza a posto, Gianni ed io, dopo aver, con la carta di credito, mandato una bella sommetta a chi di dovere, per finanziare gli aiuti.
Se le immagini che scorrono sul teleschermo avessero il potere di sporcarci di terra, di tingerci con il sangue di tante vittime che abbiamo visto morire insieme alle speranze dei pochi sopravvissuti, potremmo rispondere di sì.
Eppure Gesù, per guarire il cieco nato, <Sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: “Va’ a lavarti nella piscina di Siloe”> parole che ci interpellano proprio su quello sporcarsi di Gesù che per guarire il cieco nato prende della terra e l’impasta con la saliva, per metterla sugli occhi del malato che cerca la guarigione.
L’amore, adesso ne sono più che convinta, passa attraverso un contatto fisico con ogni fratello che incontriamo sulla nostra strada e presuppone la nostra docilità a sporcarci e ad essere sporcati, toccare ed essere toccati.
Il lunedì successivo, con Gianni, di tutte queste cose abbiamo parlato alla radio, contenta, questa volta, di avere accanto chi, come Luciana, non ha mai avuto paura di usare il corpo per avvicinarsi alla gente, al contrario di me che, dimenticando di averlo, spesso uso solo la mente.
Abbiamo raccontato di quella passeggiata di fine agosto, quando, bighellonando tra le bancarelle di un mercatino, verso il tramonto, ci siamo imbattuti in Luciana che dalla mattina stava in piedi a vendere le cianfrusaglie, di cui volentieri anche noi ci eravamo liberati, per i poveri della città.
Abbiamo ripercorso il sentimento che ci ha portato a guardare con altri occhi chi sta dietro un banchetto, per guadagnarsi la vita o strapparne un poco per gli altri, che tutto ciò comporta sacrificio e fatica, che il contrattare, specie per ciò che è destinato alla beneficenza, è peccato mortale, che alla sera i banchetti bisogna che ci sia uno che se li carichi sopra le spalle o su un furgone e che la roba rimasta va incartata e messa per bene in ordine, da parte, perché la prossima volta non ci si impazzisca, anche solo a cercarle, le cose.
Abbiamo ringraziato il Signore per le tante storie nelle quali Luciana ci ha fatto entrare.Abbiamo ricordato quanto ci ha regalato il batticuore di Monica, che abbiamo accompagnato a Roma ad incontrare il marito, sposato da meno di un anno, che si era fatto tre giorni di pullman, senza dormire per riabbracciarla, dalla Bulgaria; il sorriso sdentato di Ovidio e la puzza sui suoi vestiti di chissà quanti pacchetti di sigarette, fumate durante il tragitto; la tenerezza e il pudore dell’abbraccio dei due giovani, quando si sono rivisti. E che dire della solidarietà che si è accesa intorno al pancione della piccola albanese rimasta all’agghiaccio, dopo che le avevano chiuso, in pieno inverno, le porte della stazione, e che avrebbe abortito, se il passa parola delle piccole e silenziose formiche e la generosità di Luciana, che non si è arresa neanche di fronte all’irreperibilità della donna, non gli avessero fatto recapitare una coperta?
Ci siamo chiesti dove avevamo la testa, in che mondo vivevamo, quando ai vestiti da regalare staccavamo i bottoni, quando ci sentivamo a posto con la coscienza, dopo aver largheggiato nel fare l’elemosina al disgraziato che suole sostare davanti alla chiesa, o al lavavetri, che con quei soldi volevamo levarci di torno.
Ma accanto a questi ricordi sono emersi quelli legati ai volti di chi non ci ispira simpatia, di chi non lo merita, degli scorbutici, di quelli che non ci fanno pietà ma solo rabbia, perché potrebbero darsi una “smossa”, come si dice dalle nostre parti, e prendere per i capelli la propria vita invece di buttarla e di lamentarsi, aspettando che qualcuno venga a salvarli.
Abbiamo pensato che il difficile sta proprio lì, dove la compassione fa fatica a farsi largo e non ti fa aprire il cuore, a causa di un giudizio che ne tiene chiuse le porte.
Come si fa, c’è da chiedersi, ad imporre ad un uomo di amare? Se non c’è attrazione, come può nascere l’amore? Come può perpetuarsi, se l’altro cessa di essere amabile?
La risposta ci è arrivata, mentre, uniti nella preghiera, contemplavamo il Crocifisso.

La stella

 

 CARINA

Carina non hai più bisogno che qualcuno ti metta a posto il computer per entrare in contatto con un mondo che speravi meno crudele di quello in cui sei da sempre vissuta.

Alle due il tuo cane si è messo d’improvviso a guaire, disperatamente, ma tu non lo sentivi.
Stavi morendo, sola, lontana, abbandonata in un letto che aveva provvisoriamente accolto il morbo di Cuscin o un tumore al fegato in fase terminale o tutto il resto, tanto non ci si poteva sbagliare perché non c’era niente che non avessi provato.

Quando ti avevo incontrata, un mese fa, i tuoi occhi mi vennero incontro, due fanali aperti alla vita che sempre più ti sfuggiva di mano, due pozzi profondi dove non riusciva ad annegare la tua prepotente energia.
Seduta sulla sedia a rotelle, mi hai accolto con un sorriso, il viso sfiorito anzitempo, i tuoi anni caricati sopra le spalle come fossero tanti di più, contati su una pelle cadente e disfatta, su muscoli inconsistenti, su brandelli di carne attaccati ad un corpo in rovina.
Stavi dando lo straccio in cucina come fosse cosa normale, lo sguardo stupito di bimba che vuol fare le cose dei grandi e si meraviglia che i grandi non la lascino fare.
Sulla testa una vistosa parrucca, troppo bionda, troppo finta per non sembrare che stava a coprire un dramma, uno dei tanti di un corpo scampato al naufragio di tutte le navi del mondo..
Come il dito che ti mancava, servito ad un medico per farci uno studio.
.
Dei medici avevi il terrore, come anche degli ospedali, e ti era ridotta a farti anche le punture da sola per paura che fossi, ancora una volta, usata per fare da cavia agli esperimenti di chi voleva indagare su quel raro esempio di morbo di Cuscin.
Lo avevano fatto già dodici volte, senza mai dirti niente, spiegarti, chiederti il consenso ad esplorare quel misterioso universo che era il tuo involucro che disorientava per come facesse a stare attaccato.
Il cervello, però, non aveva mai smesso di funzionare, né mai aveva perso di lucidità, nonostante gli attacchi ischemici ti incalzassero sempre più da vicino..
Le altre trenta operazioni te l’avevano detto cosa ti avrebbero fatto.
Ma cos’era cambiato?
Il morbo di Cuscin non perdona, è malattia devastante, tanto che a tredici anni ti chiuse in manicomio un padre padrone che di te non sapeva che farsene.
Ne uscisti dopo un anno o due, non ricordo, perché, come si può rinchiudere dentro dei muri la prepotente voglia di vivere?

Tu la vita la volevi afferrare, godere, convinta che ne valesse la pena, senza mai piangerti addosso, neanche quando ti fecero quella trasfusione fatale che ti regalò l’epatite e tutto quanto ne conseguì.

Ma era necessaria dopo quell’intervento all’intestino per ridurtelo, visto che avevi cominciato ad ingrassare in modo spropositato.
Tutta colpa di quell’ipofisi impazzita che si accanirono più volte a rimuovere dalla tua testa senza peraltro riuscirci.

La vita, tu, la volevi gustare, prendere, accarezzare con le tue mani che diventavano sempre più magre, sempre più lunghe, sempre più storte e deformi.
Così ti sei presa pure il gusto di vedere un sogno trasformarsi in realtà, perché tu che non potevi avere bambini, andavi ai giardini a vederli, per fotografarli con gli occhi, sperando che l’immagine impressa scendesse dentro la pancia.
Nella pancia ci scese quell’angelo che doveva cambiarti la vita, ma fu solo l’illusione di un attimo perché l’uomo, il padre, il marito ben presto ti lasciò sola, con quel bimbo fotografato ai giardini, per un‘altra che sembrava migliore di te.
La vita te la sei ripresa con quel figlio per cui niente mai ti è sembrato troppo per poterlo vedere felice.
Ma quando rivolesti accanto il marito che ti aveva tradita, per godere di una gioia più piena, quel figlio se lo legò al dito e tu lo perdesti per sempre.

Seduta sulla sedia a rotelle, tutto il tempo che siamo state a parlare, mi hai comunicato una forza che non conoscevo, il tono franco e sicuro, gli occhi fissi nei miei …tranne quando la voce chiara e spedita si è incrinata e una lacrima è scivolata via, prima ancora che potessi asciugarla, mentre parlavi del figlio.

Carina non hai più bisogno che qualcuno ti dimostri che il mondo non è poi così crudele come avevi più volte sperimentato, non ti serve più gente che non ti compianga, non dando a vedere che ne aveva pietà.
La pietà te la volevi cacciare di dosso, la volevi rimandare al mittente ogni volta che qualcuno si fermava a guardarti seduta sulla sedia a rotelle con il corpo straziato dalle troppe ed evidenti ferite.
Tu gli occhi e le gambe le avevi.
Di cosa potevi avere bisogno?
Così quel giorno, che mi sembra perso nel tempo, mi parlavi del tuo disappunto per il mondo che non riusciva a capirti: troppo forte o troppo debole.
Mai per come veramente eri, come in fondo tu ti sentivi.

Mi avevi telefonato, tre mesi fa, perché, dopo aver letto ciò che io avevo scritto di me,nel libro in cui parlavo della mia storia , volevi conoscermi, incontrarmi, certa che sicuramente non avrei fatto fatica a vedere ciò che agli altri si nascondeva.
Non avrei mai pensato che con me potessi avere qualcosa in comune, visto che di violenze sul corpo e sull’anima ne avevi subite a bizzeffe ed io ero una pulce a tuo confronto.
Le tue parole mi confermarono che la condivisione non è fatta di numeri, perché la sofferenza unisce comunque, qualunque sia il conto di quello che ti è capitato.

Oggi, ferma accanto alla cassa, nella stanza dell’obitorio, ti guardavo ma non ti trovavo..
Stesa immobile, vestita da uomo, da uomini che non ti hanno amata o non ne sono stati capaci, la lunga parrucca divisa a metà, con la riga in mezzo alla testa, i finti capelli di paglia lunghi e sciolti fino alla vita, la corona arrotolata alle dita, il Cristo troppo dorato che pendeva dai grani di plastica. Tutto finto appariva ai miei occhi.
.
Tu non stavi in quell’assurdo pupazzo, immobile e travestito, sotto il velo con cui sono soliti i vivi coprire i loro defunti, tu eri lì viva, presente, più grande di noi, ci circondavi, ci abbracciavi, ci parlavi, con gli occhi, con il cuore finalmente placato, perché stavi vicino a tuo figlio.

Seduto lì accanto, lui, il bimbo rapito ad un sogno, con la testa piegata in avanti, con il corpo ripiegato in se stesso, in silenzio stava a sentire ciò che tu gli sussurravi all’orecchio, gli occhi vuoti persi nel pianto, il cuore gonfio di commozione nel giardino dove l’avevi rapito.
Con la mano stretta alla mano lo portavi a cercare tra i fiori i fili persi e spezzati del tuo amore scansato e dimenticato.

Carina non hai più bisogno di chi ti aggiusti il computer per metterti in contatto via internet con gente che non conosci, non hai più bisogno di chi ti capisca, di chi ti faccia i massaggi o ti curi.

Oggi una stella ha cominciato a brillare, a mandare messaggi dal cielo dove sei  andata ad abitare.
Ora che la luce la prendi direttamente alla fonte, riesci a parlare più forte e con più convinzione di quanto sia importante aprire il cuore ai sentimenti nascosti, di quanto possa l’amore.

Il diacono

Non avevo mai visto all’opera un diacono, tranne quando, in certe celebrazioni, legge il Vangelo o dà la Comunione. Attraverso gli amici del sito http://www.gesualcentrodellavita.net/, ho preso coscienza di quanta passione, determinazione, fatica, sacrificio, ma sorattutto fede accompagnino questi umili e operosi servitori della vigna del Signore.

In occasione della recente perdita di una mia carissima parente, che mi aveva fatto da mamma e che viveva lontano da me, ho avuto modo di sentire il balsamo benefico delle parole di un diacono, che è venuto a casa a benedire la salma, ha pregato con noi e per noi, spezzando la parola di Dio con chiarezza e competenza.

Oltre a consolarci, si è fatto carico delle esigenze della figlia, credente non praticante, che pretendeva che il funerale fosse officiato da un sacerdote, nonostante la sua indisponibilità per quel giorno.

Non gli sono stati di ostacolo, per accontentarla,  gli  impegni di famiglia, precedentemente presi, ed è riuscito, alle 16 del giorno più caldo di agosto, a Roma, a trovare un sacerdote che dicesse la messa, a coinvolgere la moglie, sottraendola ai nipotini che abitualmente le vengono affidati, a reperire un giovane adulto, che con la sua chitarra ha accompagnato i canti intonati dalla sua signora.

Voglio ringraziare il Signore di tutto l’amore che ha riversato in quei cuori, sì da poterne dare in abbondanza anche a noi.

Voglio benedirlo per tutti gli uomini di buona volontà che intraprendono questo cammino, perchè sono una grande risorsa per la Chiesa.

Zia Manuelina

Quando muore una madre,una nonna, una zia, ci sentiamo tutti un po’ orfani, anche se non è la nostra, anche se è avanti negli anni. Non vorremmo mai che morissero le persone che si sono occupate di noi, che hanno vegliato sul nostro sonno, asciugato le nostre lacrime, provveduto a che non ci mancasse nulla di ciò di cui avevamo bisogno.
Ci precedono in cielo gli occhi, le orecchie, le mani, i piedi, il cuore di queste creature, di cui Dio si serve, per mostrarci la sua tenerezza, la sua premura costante.
Un pezzo della nostra storia oggi ci è stato consegnato, perchè in essa vi scopriamo le traccce del Suo passaggio nella relazione con questa sorella, che ha traghettato molti di noi, presenti al suo funerale, nel mare della vita.
Oggi, radunati attorno a lei, per darle l’estremo saluto (figli, nipoti, pronipoti, e quanti la conobbero e ebbero modo di apprezzare i doni da Dio a lei elargiti) non vogliamo piangere perchè ce l’ha tolta, ma vogliamo, con il cuore colmo di gratitudine, dire grazie a LUI, perchè ce l’ha donata.
Questa sia l’occasione, per guardare oltre, e riconoscere che il Signore ha vigilato e continua a vigilare sul nostro cammino, senza mai stancarsi.

.

F…come FELICITA'

Due uomini molto malati, occupavano la stessa stanza d’ospedale. A uno dei due era permesso mettersi seduto sul letto, che si trovava giusto vicino all’unica finestra della stanza. L’altro doveva rimanere sdraiato. I due fecero conoscenza e divennero amici. Parlarono delle mogli e delle famiglie, delle case, del lavoro e dei viaggi che avevano fatto. Ogni pomeriggio l’uomo che stava nel letto, vicino alla finestra poteva sedersi e passava il tempo raccontando al suo compagno di stanza tutte le cose che poteva vedere fuori dalla finestra. Quello dell’altro letto cominciò a sentire meno lunghe le ore, vivendo di riflesso 8i colori del mondo esterno. La finestra dava sul parco con un delizioso laghetto. Le anatre e i cigni giocavano nell’acqua mentre i bambini facevano navigare le loro barche giocattolo.
Giovani innamorati camminavano abbracciati tra fiori di ogni colore e c’era una bella vista della città in lontananza. Mentre l’uomo vicino alla finestra descriveva tutto ciò nei minimi dettagli, l’uomo dall’altra parte della stanza chiudeva gli occhi e immaginava la scena. Una notte l’uomo vicino alla finestra morì pacificamente nel sonno. Timidamente l’altro uomo chiese all’infermiera se poteva spostarsi nel letto vicino alla finestra. Fu accontentato. Lentamente, dolorosamente, l’uomo si sollevò su un gomito per vedere per la prima volta il mondo esterno. Delusione: la finestra si affacciava su un muro bianco. L’uomo chiese all’infermiera che cosa poteva avere spinto il suo amico morto a descrivere delle cose così meravigliose al di fuori di quella finestra. L’infermiera rispose che l’uomo era cieco e non poteva nemmeno vedere il muro. Forse, voleva solo fare coraggio all’amico. La felicità di rendere felici gli altri
(Dalla rivista QUALEVITA)

A Elisabetta

Mi hai chiesto che ti scrivessi qualcosa, mentre mi preparavi ciò di cui avevo bisogno. Davanti al bancone ho fatto fatica anche a chiedertelo, interessata di più a cogliere i segni di una rinascita, dopo l’abbandono da parte della persona che amavi e con la quale avevi concepito un figlio, che all’estratto conto o al nuovo libretto di assegni.

Mi sono andata a sedere subito, perchè la fatica a stare in piedi è insostenibile. Non so cosa ti aspetti da me, cosa ti ha colpito per chiedermi parole nuove, diverse, parole di vita, visto il tempo brevissimo che abbiamo avuto per scambiarcele.

Alle tante, che potrei aggiungere, voglio che si sovrapponga l’immagine della gioia, della pace, della serenità che solo l’autore della vita può donare. Voglio ringraziare il Signore per te, che dici di non credere, ma che hai negli occhi stampata la nostalgia della prima carezza che il Signore ti ha fatto, quando ti ha dato la luce.

"Quando non abbiamo niente da portare, è allora che portiamo Cristo nella sua interezza"

Il cane di peluche

Sfogliando il diario

Passando davanti alla stanza, dove tu eri solito rilassarti, sprofondato sulla poltrona, ho avuto una stretta nel cuore.
Al centro del tavolo, non un vaso di fiori, una pianta, un piatto prezioso di porcellana  o di lucido argento, quelle cose che, a parer mio, danno un tono all’arredo e mostrano la classe e il gusto della padrona di casa. Niente di tutto questo.
Una tovaglietta senza pretese,  che parla del lavoro paziente e amoroso di una mamma o una nonna, che  non c’è più, pulita e stirata, accoglieva un piccolo cane smarrito in quello spazio inusuale, tutto per lui.
Era stato abituato ad accontentarsi di un angolo della testata del letto, dalla mia parte, un po’ in ombra perché non si doveva vedere.
Eppure quando me lo regalasti, subito mi chiesi che fine avrebbe fatto quel peluche dal colore sbiadito, ma dagli occhi teneri e tristi, che mi ricordavano i tuoi, quando ti nascondevi.
Me lo misi vicino e fu la prima volta che una cosa che non avevo comprato o scelto personalmente prendesse un posto di tanto riguardo.
Me lo guardavo ogni volta che mi mettevo a dormire, me lo stringevo quando quel letto diventava la mia prigione,  ancorata ai problemi da cui avrei voluto fuggire.
A lui, non a te, ho chiesto conforto, in lui mi sono illusa di ritrovarti le volte che ti chiudevi nella tua stanza, muto, immobile per paura che mi accorgessi che un pensiero ti attraversava la mente, che una lacrima rigava il tuo volto, che il cuore aveva accelerato i suoi battiti per la donna che sarebbe diventata tua moglie.
Per anni quel cane mi ha parlato di te, dei sentimenti nascosti, del tuo cuore in attesa che la carezza non la facessi ad un pupazzo di stoffa.
Ora te ne sei andato, ti sei sposato con la donna che ti sei scelto.
Chissà se ancora ti ricordi di quel semplice dono, chissà se hai smesso di chiuderti dentro,  affidando un messaggio d’amore agli occhi ingenui e spauriti di un piccolo cane marrone.
Oggi, attraverso la fessura di una porta socchiusa, quell’immagine mi ha catturata, trasportandomi in un mondo che non conoscevo, tornato alla luce, quando proprio non ci pensavo.
Quel cane mi ha parlato di te e di me, di un rapporto difficile, di parole non dette, di sguardi furtivi, di lacrime non tutte versate, di attese, di ansie e di angosce, di un amore non esternato, quasi mai capito, mai condiviso.
Ho visto il cane perdersi nella stanza ormai vuota, troppo vuota e troppo grande per lui; mi è sembrato che prima o poi scomparisse in quello stagno,  come un sasso gettato lontano, mentre i cerchi si allargano e vengono riassorbiti dall’acqua.
Ma niente di tutto questo è successo.
La stanza, che sembrava ormai vuota, ha cominciato a riempirsi della tua voce, dei tuoi occhi sinceri e innocenti, delle tue calde mani affettuose, del tuo viso sorridente e sereno, dei tuoi sentimenti non più celati, di tutto ciò che finalmente riuscivo e riesco a vedere.

 5 agosto 2001

I poveri

 

Per questa Pasqua avevamo deciso, io e mio marito, di invitare un povero, uno che aveva bisogno di calore, di famiglia, di amore.
Poi mi sono ammalata.
Quando sono uscita dall’ ospedale stavo peggio, per la diagnosi e per i problemi da affrontare, vecchi e nuovi, alla ricerca di qualcosa che mi togliesse almeno il dolore, con l’impossibilità di provvedere a me stessa e agli altri.
I poveri sono entrati a far parte della nostra famiglia il giorno in cui, non essendoci nessun parente disponibile ad assistermi,  ho chiamato Dubrinka, per farmi aiutare anche solo a prendere l’acqua sul comodino.  
Lei, la bulgara del piano di sotto, si è fatta attendere giusto il tempo di accompagnare a scuola Christian e Denise, i nipoti di cui si prende cura a tempo pieno, mentre la figlia è al lavoro.
Dopo aver timidamente girato la chiave appositamente lasciata nella toppa, si è presentata con gli occhi lucidi al mio capezzale, disposta a qualsiasi cosa, pur di non vedermi ridotta a quel modo.
Da quel giorno ogni mattina è salita per sapere di cosa avevo bisogno e per portarmi qualcosa di cucinato.
L’appuntamento del mattino pian piano è diventata una dolce abitudine, un’occasione per conoscere meglio quella nonna "speciale" che aveva suscitato la mia ammirazione, il giorno in cui  sentii consolare Giovanni, il mio nipotino di tre anni, che era caduto, con queste parole:"non piangere, perchè la nonna dice che, quando si cade, si diventa grandi".
A parlare era stata Denise, una bimba poco più grande di lui, che con il fratellino stava giocando nel cortile condominiale, mentre la nonna e la mamma traslocavano al piano di sotto dei  mobili da un camioncino.
Pensai alla fortuna di quei bambini che avevano una nonna che parlava così saggiamente.
Poi seppi che di fortuna ne avevano avuta ben poca quei bimbi, che avevano perso da poco il papà e che dovevano fare a meno anche della mamma, costretta a lavorare  lontano da casa.
Ci siamo presentate allora e, sempre, in seguito, salutate con un sorriso, ogni volta che frettolosamente guadagnavo il sedile dell’auto, e lei si offriva di portarmi la borsa o qualunque cosa poteva ai suoi occhi, sembrarle pesante per me.
Come poi venni a sapere, Dubrinka aveva lasciato in fretta la sua casa in Bulgaria, ed era venuta in soccorso della figlia e dei suoi due cuccioli, sbattuti in un guscio di noce nel mare in tempesta di un paese che non era il loro.
Il  marito, che l’avrebbe dovuta seguire in un secondo tempo, lo hanno trovato morto dopo tre giorni. Chissà se si sarebbe salvato, con qualcuno vicino, quando il cuore ha lanciato il segnale d’allarme!
A Natale, perchè Giovanni avesse amici con cui giocare, li abbiamo invitati in campagna.
Ma, solo dopo due mesi, mi sono accorta che, mentre dormivo, Dubrinka mi aveva pulito tutta la casa, infissi e vetri compresi.
…………..
Volevamo invitare un povero, dicevo, per questa Pasqua e avevo pensato a loro, per sdebitarmi di tutte le volte che Dubrinka si era fatta sguardo, mani, piedi, forza dell’amore di Dio,specie in questi ultimi tempi, in cui la malattia mi ha tenuto inchiodata ad un letto.
Ma il Signore ha avuto compassione di noi, della nostra impossibilità a provvedere ai bisogni degli altri, del nostro essere rimasti soli, per via di una festa che sempre più si consuma al ristorante.
Domenica i poveri siamo stati noi, che ci siamo fatti lavare i piedi da questa piccola famiglia scampata al naufragio, noi, gente perbene che assolve il precetto, se si confessa una volta all’anno e si comunica almeno a Pasqua.
La comunione ce l’hanno fatta fare loro,  i diversi, gli extracomunitari, che ci hanno invitato a far festa a casa loro, per celebrare la Pasqua ortodossa, che, guarda caso, quest’anno coincide con quella nostra. Loro non si confessano, ma ci hanno fatto riflettere su quanti peccati ci siamo dimenticati di confessare.
8 aprile 2007

26 Dal diario di Antonietta

 

Rubrica radiofonica a cura di Antonietta
Un caldo e affettuoso saluto a tutti amici.
La scorsa volta non vi ho salutato alla fine della trasmissione, temendo di diminuire l’efficacia della parola di Dio, che è venuta a suggellare e concludere la lettura del libro, "Il gioco dell’oca, trasformando un’esperienza personale in esperienza paradigmatica, nella quale tutti un po’ si possono riconoscere e dalla quale attingere spunti per cercare nella propria storia il progetto che Dio ha su ognuno di noi.
A tutti Dio garantisce, pur nella diversità dei percorsi, nella multiforme varietà dei carismi, cieli nuovi e terra nuova, per tutti ha una parola di perdono e di consolazione, tutti troveranno posto nella Gerusalemme santa, nelle sue braccia aperte e misericordiose, dove non ci sarà né lutto, né lamento, ma solo la gioia dei redenti dal Signore, il canto di esultanza dei salvati.
La liturgia della sesta domenica di Pasqua mi aveva offerto lo spunto per riflettere su questa parola di speranza, che riguarda tutti, proprio tutti quelli che si aprono all’amore di Dio.
“Ecco io faccio nuove tutte le cose”, dice il Signore nostro Dio, e in quel “tutte” ci sono le nostre piccole e grandi croci, i nostri dubbi, le nostre cadute, le nostre lacrime, i nostri lutti recenti e passati, la nostra disperazione, i nostri fallimenti, le nostre frustrazioni.
Dio fa nuove tutte le cose, non stendendo una mano di vernice bianca su ciò che è indecoroso vedere, come spesso accade quando si ha fretta di coprire le brutture della nostra società invereconda, cieca e malata..
Dio fa nuove tutte le cose, continuamente rinnovando la faccia della terra, perché lo Spirito possa abitarvi e operare in modo duraturo.
Quando scrissi "Il gioco dell’oca” non sapevo, che quello era solo l’inizio di una storia, che non si potrà dire conclusa, se non alla fine dei giorni assegnatimi.
Né, quando cominciai questa collaborazione con Radio Speranza, immaginavo cosa avrei detto in questi sette mesi di incontri con voi, non prevedendo che un libricino di 100 pagine potesse essere così ricco di stimoli per riflettere sulla parola di Dio più che sulla mia..Dalla meditazione su quanto ogni giorno mi ha suggerito, durante la Messa, sono nati queste trasmissioni che hanno finito per raccontare non una storia passata, ma l’eterno presente di un richiamo struggente e accorato di un Padre che cerca suo figlio, che non smette mai di sperare che un giorno torni da Lui.
Durante questo periodo l’ ho lasciato parlare, come non mai mi sono messa in ascolto, perché di storie di malattie ne è piena la terra, ne sono pieni i libri, e, se non sei medico e non hai ricette da dare, non trovi chi ti presti attenzione.
Ma Lui il Maestro, il Medico, il Guaritore, la ricetta me la dava ogni volta, ogni volta che gliela chiedevo con umiltà, per me che volevo servirlo nel migliore dei modi, per voi che chiedevo poteste attingere alla stessa corrente di Grazia.
Così una storia di solitudine antica e senza scampo è diventata storia di speranza, storia di una presenza costante, che si è realizzata non in un ieri passato e dimenticato, ma in un oggi che si dilata, in un tempo che diventa infinito, nella misura in cui si fa spazio all’infinito di Dio..
"Il tempo è nelle nostre mani nella misura in cui l’infinito è nei nostri cuori”, non ho più bisogno di scriverlo sulla prima pagina dell’agenda, come per tanti anni ho fatto, per meditarle e farle mie, ora che le ho scritte nel cuore quelle parole, e a quell’angelo mandato dal cielo, voglio dire il mio grazie, a quel bimbo piccolo piccolo, un mucchio di ossa scomposte in un corpo di cera, due occhi indifesi, ma il viso disteso, sereno di una dolcezza struggente nel languore di chi si abbandona fiducioso all’abbraccio. Sua madre, fu lei che me le sussurrò all’orecchio, mentre, a Champoluc, impaziente, pensavo al tempo che mi sfuggiva di mano..
Il dolore innocente anche a questo doveva servire, a portarmi a riflettere sul bene più prezioso che Dio ci ha donato: la vita e il tempo per poterne apprezzare il valore, quel tempo che a volte vorremmo fermare, a volte accelerare, ma raramente accogliamo per ascoltarne la voce.
Voglio ringraziare il Signore per tutti quelli che direttamente o indirettamente mi hanno parlato di Lui, mi hanno portato a Lui, per tutti quelli dei quali si è servito per accompagnarmi, curarmi amarmi, a cominciare da mia madre…per il segno di Croce che stampava sulla nostra fronte prima di andare a dormire, per le sue novene e i suoi rosari, per tutte quelle preghiere che mi infastidivano e mi indispettivano, perché sembravano sortire l’effetto contrario.
Voglio ringraziare mio padre per quella boccetta di acqua di Lourdes che mi gettò addosso con fede, con rabbia, con disperazione, quando un giorno mi vide dibattermi nel letto in sofferenze a cui nessuno riusciva a trovare rimedi.
L’11 febbraio, festa della Madonna di Loudes, andarono in frantumi con l’ultimo incidente le lenti multifocali, decretando la fine delle mie sicurezze.
Voglio ringraziare la Madonna perché mi ha aperto gli occhi ad una nuova dimensione, quella della fede che non ha bisogno di lenti per stupire di fronte alle meraviglie del creato, di fronte a tutto ciò che è uscito dalle mani di Dio.
Voglio ringraziare quell’amica un po’ snob che per Natale mi regalò un piccolo presepe, racchiuso in una piccola scatola.
Natale 2002
Più penso al presepe, e più mi immergo nel mistero della notte di Natale in cui Dio si è fatto vedere e si è donato a noi. Quando Laura, un Natale di tanti anni fa, mi regalò il minuscolo presepe messicano di ceramica bianca e blu, contenuto in una piccola scatola dipinta con tanti alberelli e stelle luccicanti, non pensai che quello era un tuo regalo, Signore, non pensai che mi volevi parlare come poi hai fatto, attraverso quel dono inusuale e stravagante che mi veniva da una non credente un pochino snob e tanto ricca.
Ho pensato che aveva avuto buon gusto nello scegliere e l’ho invidiata per la possibilità di camminare alla ricerca di cose straordinarie e di comperare ciò che voleva con i soldi che aveva. Laura era uscita fuori dagli schemi con quel presepe, come sempre si era distinta con i regali acquistati nei negozi di lusso.
Io la ricambiavo, rompendomi la testa e le braccia, con marmellate e sottaceti e conserve fatte con le mie mani.
Le ho sempre regalato cose che lei non poteva comprarsi con i soldi e anche quell’anno, soddisfatta, ricambiai il dono in tal modo, commiserandola per ciò che non sapeva fare, esaltandomi per ciò che io riuscivo a fare.
Laura, quel piccolo presepe sicuramente non ci aveva messo molto a trovarlo, mi accorsi l’anno dopo, che avevo ricominciato a girare, che i negozi ne erano pieni, ma, alla distanza, il regalo speciale che non si compra, non io ma lei l’ha fatto.
Sì perché il presepe ha cominciato a parlare a trasmettermi pace, calore, senso da dare ad un Natale che ogni anno diventava una conta di morti, un’angoscia per chi non ritorna, per gli anni che passano, per i pesi che si accumulano sopra le spalle.
7 gennaio 2003
Davanti al presepe che mi accingo a smontare penso a Nuccio, il fratello da cui mi ero separata a causa di un grazie che non gli riusciva di dirmi, ogni volta che gli portavo il regalo, il 5 gennaio di ogni anno, giorno in cui era nato.
Penso alla rabbia che con il tempo aumentava e continuavo a portarmi dietro, per quel dovere che mi pesava sempre di più e che alla fine non volli più assolvere.Penso con malinconia alle conseguenze di quel gesto che ci privarono dell’unica occasione di incontrarci e di tenere ancora in vita un legame, che nel cuore non avevamo mai cancellato.
Penso all’orgoglio che non ci permise di passare sopra a tante cose, alle occasioni mancate di gioire e di condividere affetti ed esperienze comuni
Penso poi alla sua malattia, un fulmine a ciel sereno, penso a quel tumore al cervello che lo aveva proprio fatto uscire di testa, se aveva cominciato ad andare alla Messa, tutte le mattine alle sette.
Penso alla novena che iniziò a Padre pio, si vedeva che il male faceva progressi, mi dissi allora, penso al suo desiderio di un sacerdote che gli portasse l’Eucaristia, ma quando ce lo fece capire, non c’era più tempo per ridere delle sue apparenti stranezze.
Penso al mio darmi da fare per cercargliene uno, perché i moribondi hanno diritto a vedere un desiderio esaudito, e penso a quell’Ostia bianca che brillava nella camera con le serrande abbassaste, a mia madre e mia sorella in ginocchio, a me che non potevo distogliere lo sguardo dalla luce che da essa emanava, penso al tempo che si era fermato su quell’angolo di paradiso, dove io cercavo di entrare senza ancora aver trovato la chiave
Poi penso alla strada, quella che per anni ho cercato, quella che m’indicò lui, mio fratello, un giorno che, affacciandomi alla finestra, vidi dove portava..
Era venuto ad abitarmi vicino, nel cimitero che concludeva la strada, coperto per anni da un pino, che non me lo faceva vedere.
Da allora cominciai a parlargli, a sentirlo più vicino che mai, ogni giorno che al mattino mi alzavo e vedevo la sua luce filtrare dalla grande casa dei morti, immersa nel verde della collina..
Ma pian piano le cose cambiarono e lo persi di nuovo di vista.

NUCCIO 16 gennaio 2002
Guardo invano in fondo alla strada
Tra le case e le poche piante rimaste.
Cerco un varco tra le nuove venute
Costruzioni dell’ultima ora
Per poterti di nuovo incontrare.
.
Non ti vedo su questa collina
Dove i morti riposano in pace
Dove tu sereno abitavi.

Dalla strada deserta non giungono
Che rari e ovattati rumori.
L’orologio batte il tempo che passa.
Il ronzio del computer l’accompagna.

Non rispondi.
Eppure tutto è tranquillo
Perché tu possa continuare a parlare.
.
Dove sei fratello scomparso, prima ancora che ti conoscessi?
Dove sei compagno di giochi?

La tua voce non arriva al mio cuore
Le mie orecchie non sanno tacere
Perché sento che oggi ho paura.

Paura delle cose che non si vedono
Paura delle cose che sono
Paura di una morte che mi sbarri la strada
Questa piccola che mi sta qui davanti
Paura che tutto finisca
Che rimanga sola a pregare..

Ricordi quando mi salutavi
Ammiccando con la tua lucina tremante?
Era quella in fondo alla fila
Su in alto
Non mi potevo sbagliare.
Mi piaceva parlarti dalla finestra
Mentre il caffè aspettavo che uscisse.
Eri venuto ad abitarmi vicino
E l’avevo scoperto per caso.
Il pino che ti copriva ai miei occhi
Era stato ad un tratto abbattuto
Il cipresso potato di fresco
Si sforzava di farsi da parte
Per portarmi la tua luce nel cuore.
Mi piaceva salutarti ogni giorno
E sapere che mi stavi a sentire.

Ma le foglie hanno cominciato a spuntare
Dai monconi dei rami recisi
Liberandosi dalla forma geometrica
Che le aveva tenute imbrigliate..

Il luogo che ti ospitava
Sottraendosi pian piano alla vista
Diventava sempre più piccolo
Attraverso la vegetazione opulenta
Della primavera inoltrata.

Poi sono venute le case
Numerose, a riempire gli spazi
Arroganti si sono levate
A coprire anche il cielo
In fondo alla strada

Non ti ho più potuto vedere
La mattina alzandomi presto.
Il saluto è diventato formale
Perché ad un tratto tu eri sparito.

Dove sei silenzioso fratello?
Dove sei amico fedele?

Sempre più faccio fatica a parlarti
Pur se guardo lontano in collina
La mia voce rimbalza sui tetti
Nel buio della mattina.

La distanza è diventata abissale
La tua voce non riesco a sentire.

Fratello che non vivi nello spazio e nel tempo
Di questi nostri ingombranti pensieri
Ti prego rispondimi presto
Ti prego rispondimi ancora
Come quando ti mandavo al mattino
Un bacio e una preghiera.
.……………………….
E’ tardi
Si sono accese le luci.
Sui lampioni vestiti di bianco
La neve continua a cadere.
Il cielo è sempre più cupo
Il silenzio sempre più greve.
L’orologio ha fermato i sui battiti
Perché il tempo fa fatica a passare.
Il ronzio del computer è un lamento
Che accompagna il mio pianto che sale.
.
Nella notte che avanza pian piano
Cerco ancora tra le case e il cipresso
Quella luce un pochino speciale
Con cui tu rompevi il silenzio
Per poter insieme pregare.
…………………………
Il cielo pian piano si apre
Al mattino che spegne i lampioni
Con lo sguardo perso nel tempo
Canto questa mesta canzone.
.
Le foglie spuntate sul ramo
Mi parlano della vita che si rinnova
Come anche le case lì in fondo
E i panni stesi ai balconi

Il rumore che dalla strada si alza
Non è l’eco di mesti pensieri
Non c’è più tempo per piangere
Non si può continuare a sognare
……………………
La strada che ho qui davanti
Non è quella che porta in collina
Né questa che il mattino rischiara
E’ una strada tutta speciale
Che mi porta veloce all’incontro.
Se ti cerco nello spazio del cuore
Nel calore di questo richiamo
Non mi serve guardare lontano
Né cercare la tua luce sul monte

Tu sommesso sei entrato qui dentro
Ora brilli
E non devo vedere
Ora parli
E non devo sentire.
E’ bello, insieme, ritrovarsi a pregare.
…………………………………….
Mi piacerebbe farlo davanti al presepe, ogni volta che parlo con lui, perché è lui che mi ha portato dentro la grotta e mi ha fatto vedere Gesù.
Quel 5 gennaio del 2000, giorno del suo compleanno, fu il suo modo tutto speciale, per ringraziarmi dell’amore da me gratuitamente donato, nei suoi pochi giorni rimasti.
……………….
Un altro 5 gennaio mi viene in mente, quello del 1977, che non fu come l’avevo pensato a godermi l’ebbrezza di un sogno, quella di vivere libera dalla bianca gabbia di gesso con cui mi ero fusa nei 10 mesi del tempo, che per me si era fermato.Ma allora non ci furono ali ad accogliermi per farmi volare, ma la disperazione, l’angoscia, la morte che di nuovo mi veniva a trovare.
Ma per mettersi in comunicazione con Dio non c’è albero che ne impedisca la vista, nè gesso, né handicap, se a Lui tieni tese le mani.

Ottobre 2001…
Le mani.
Ieri ho incontrato le mani di un paralitico.
Nel silenzio della preghiera pian piano hanno cominciato a parlarmi.
Erano lisce e bianche come quelle di un bimbo, che si affida a chi lo accompagni dove solo non è capace di andare.
Quell’uomo, con lo sguardo innocente, seduto sopra la sedia a cui, per accomodarlo, non erano bastate due braccia, pregava con gli occhi sereni di chi sta in paradiso.
Le mani giacevano immobili sulle gambe colpite dal male.
Ma ad un tratto, come acqua che sgorga, dalle bocche venne fuori quel canto, che pian piano divenne torrente e poi fiume che, lento e solenne, tutto accoglie nel suo letto scavato.
Fu allora che quelle mani si sono levate, per unirsi al coro degli angeli, che riempiva tutta la chiesa.
Un momento, poi mentre l’una ricadeva pesante, l’altra in alto rimaneva sospesa a salutare il Santo che passava tra i banchi.
Ieri, Gesù non l’ho visto nell’Ostia che il sacerdote sollevava sopra di noi, ma in quella debole mano che prendeva forza da Lui.

Guardo ora le mie, le mani con cui ho costruito la casa del mondo.
Sono gonfie, deformate, lì dove l’articolazione è importante per prendere, afferrare, tenere serrate le tante troppe cose che non volevo lasciarmi sfuggire.
Mentre scrivo, aspettando il mio turno, le osservo.
Con esse ho costruito i miei idoli, le mie certezze, con esse ho percorso il tempo del silenzio e dell’attesa, della paura e della rabbia, facendole muovere in modo instancabile, quando la malattia mi costringeva a fermarmi.
Ora sono andate in pensione, le mie mani, che non hanno conosciuto riposo per scialli, pupazzi, vestiti, coperte, borse e tutto ciò che da esse facevo spuntare.
Non correggono più errori che non mi competono, in compiti in classe per alunni che non ci sono.
Le guardo, disadorne e dolenti. Alle dita due anelli: la fede e un crocifisso piantato in un campo d0
i rose..
Le mie mani, oggi, hanno imparato a pregare.
22 maggio 2004
Guardo questi anelli che porto alle dita e penso a tutti quelli preziosi che Gianni, nel corso degli anni, ha regalato a me, che non ero mai sazia, penso al nostro rapporto difficile, perché per lui era una sofferenza parlare, penso ai giorni vissuti da soli, ognuno a coltivare il suo campo, penso alla Chiesa dove in quel tardo pomeriggio invernale cercai chi potesse dirmi ancora qualcosa, penso a lui che in un’altra Chiesa si trovò a fare la stessa cosa, penso a noi che a Loreto trovammo Maria, la regina delle famiglie, ad accoglierci, a consolarci, a parlarci del dono stupendo che suo figlio Gesù aveva lasciato a tutti gli sposi del mondo, la grazia del sacramento, lo Spirito, che se invocato, fa nuove tutte le cose.
Penso a quest’oggi, in cui i silenzi sono sempre meno pieni di rabbia e i discorsi sempre più pieni di Dio.
Penso alla sfida che ci siamo prefissi e che con l’aiuto del Signore vorremmo vincere: testimoniare come due “io” diventino un “noi” nella costruzione della casa nuova, trasformata in cantiere di santità..
………………………….
La fede, la croce, il rosario, le strade che portano a Dio e che fanno sì che il giorno dell’ascensione non ci sentiamo un po’ orfani perché Gesù se n’è andato, ma pieni di gioia perché con Lui possiamo salire al Padre, e rimanervi, con l’aiuto dello Spirito che continua a camminare con noi.

17 maggio 2004















20 Dal diario di Antonietta

 

Rubrica radiofonica a cura di Antonietta
Canto:Davanti a questo amore

Un caro e affettuoso saluto a tutti amici radioascoltatori.
Radio Speranza ha ricominciato a funzionare a singhiozzo, dopo la brutta influenza che si è presa e che non ancora l’abbandona del tutto.
Siamo in piena Quaresima, e non ci dobbiamo meravigliare se le cose vanno come vanno, se il bene fa tanta fatica ad emergere e affermarsi, se una voce cattolica, come quella di questa emittente, viene messa a tacere o mischiata alle voci profane, che vogliono a tutti costi richiamare l’attenzione su ciò che non appaga ed è destinato a morire.
Questo tempo di preparazione alla Pasqua è un tempo difficile per ogni persona, che si sia messo in cammino alla volta della città santa, seguendo le orme del maestro attraverso il deserto, dove fu sottoposto ad ogni tipo di tentazione, dalla quale uscì sempre più che vincente, grazie a quel legame indissolubile che lo teneva stretto al Padre mediante lo Spirito.
Se vogliamo partecipare alla Pasqua e far festa con lui; non possiamo esimerci da ricalcare le sue orme, entrando nel deserto dove le luci del mondo sono spente e i bagliori, di tutto ciò che ci distrae dall’essenziale, è solo un lontano ricordo.
Entrare nel deserto, significa fare il deserto dentro di noi, fare pulizia di tutto ciò che non gli appartiene, di tutto ciò che ne offusca o ne deturpa l’immagine, creare le condizioni per l’incontro con Lui, lo Sposo, che ci aspetta nella sala alta della casa, il Giovedì santo, dove ci consegnerà il viatico per non venire mai meno, per non morire di fame, rimanendo in comunione costante con lui.
Questo quindi è un tempo di lotta con il nemico, che le studia tutte per farci soccombere.
La sua è un’arte sottile, che tende ad alimentare l’orgoglio, origine di tutti i mali, che affliggono l’uomo, da quando volle mangiare del frutto dell’albero e diventare padrone del suo destino.
Il diavolo è il grande divisore, colui che porta l’uomo a odiare o invidiare gli altri, convincendolo che sono un ostacolo alla sua felicità o uno strumento per la propria realizzazione o autoaffermazione.
Egli, il nemico di Dio, non fa altro che opporsi alla Sua azione, che tende a unire, mettere in relazione se stesso con tutte le sue creature perché l’affresco, il grande mosaico prenda forma e mostri il suo disegno di salvezza, dove ogni tessera, anche la più insignificante, se presa da sola, acquista valore solo se inserita nel meraviglioso quanto imperscrutabile disegno salvifico tracciato dalla Sua mano.
La lotta è quindi quella contro ogni tipo di divisione, la preghiera è finalizzata a che ciò non accada, il campo di battaglia è la nostra vita, la nostra storia, spesa ogni giorno nella famiglia, nel condominio, nel lavoro, nelle amicizie, in ogni relazione più o meno difficile.
Il deserto a cui ci chiama la Quaresima è quello che ci porta a vedere l’essenziale, a fare affidamento solo sulla roccia salda che è Cristo, mentre la lotta all’ultimo sangue viene combattuta sulle strade di questo mondo, sempre più povero di Dio.
Non illudiamoci che la violenza, e tutto ciò che consegue, siano cose che appartengono agli altri, che noi non ci possiamo fare niente, se non bei discorsi e magari manifestazioni pacifiste con tanti striscioni altisonanti quanto ingombranti.
Se riflettiamo un poco, ci accorgiamo che ciò che accade tra le nazioni non è che l’amplificazione di ciò che succede nelle nostre famiglie, nel nostro condominio, nel nostro ambiente di lavoro, dove ci sembrano tutti sbagliati, dove si fa una fatica a procedere perché non sono come noi li vogliamo, più buoni, più gentili, più generosi, più rispettosi, più educati ecc.. ecc.. ecc..
Ci sforziamo di immaginare un mondo migliore, cambiando i connotati a tutti, ma ci guardiamo bene dallo specchiarci, per paura che poi anche noi abbiamo bisogno di un lifting, non si sa poi con quali risultati.
E pensare che, se invece di specchiarci negli stagni putridi e inquinati di questo mondo, ci specchiassimo in Dio, ci accorgeremmo che non c’è macchia che lui non deterga, non c’è uomo che non sia bello ai suoi occhi, purché si lasci guardare e guidare da Lui.
La grande lusinga è che l’uomo basta a se stesso, che non ha bisogno di aiuto, che non ha bisogno di Dio.
Se Gesù è riuscito a rifiutare tutte le ingannevoli proposte di satana, è perché lo Spirito era con lui, lo spirito di amore, che lo univa al Padre e a tutti gli uomini, a cui il Padre lo aveva mandato.
Spirito di amore e di sacrificio rendono possibile il godimento di una festa che non finisce il sabato santo, il settimo giorno, ma che apre la strada all’ottavo, la domenica, il giorno del Signore, il giorno in cui Lui si dona a noi oggi e sempre.
Canto:Questo è il mio corpo.
In questi giorni ho avuto modo di sperimentare tutto questo, attraverso le piccole e grandi prove a cui il Signore mi ha chiamato, come la malattia dei miei anziani genitori, il ricovero in ospedale di mio padre e poi quello di Giovanni, il più grande e il più piccolo, vittime innocenti dell’influenza che si è accanita sui più deboli e bisognosi di cure.
Ancora una volta ho toccato con mano come la famiglia, sia un valore imprescindibile in questa società, dove i rapporti sono regolati dal dare e dall’avere, dove il privilegio di pochi schiaccia ed umilia il bisogno dei molti, dove la persona è rispettata per quello che sembra e non per quello che è.
Quando la molla dell’agire non è il proprio tornaconto, quando le parole non sono per esaltare il proprio operato, quando la luce che guida i nostri passi è la luce di Cristo, quando la verità non ha mille facce, ma si poggia su una parola, la Parola che salva, il Verbo incarnato morto e risorto per noi, cosa può farci paura?
Così abbiamo assistito tutti ai miracoli che compie l’amore, mobilitandoci tutti per soccorrere chi aveva più bisogno, pur non essendo nessuno stato risparmiato dal male, come nessuno ha presentato il conto dell’energia, del tempo e del denaro speso perché la famiglia uscisse indenne dalla bufera, affidando al Signore la guida della barca in preda ai marosi.
Due luci, due piccole e timide fiammelle hanno accompagnato la nostra preghiera, mia e di Gianni, due candele accese nel momento del bisogno, che don Gino ci aveva dato il giorno della candelora.Non avevamo mai saputo che farcene di quelle candele, fino a quando qualcuno ci ha detto che si accendono quando arrivano i temporali.
E che temporale è arrivato! Ma quanta luce quelle candele hanno sprigionato!
E’ bello camminare insieme, anche al buio, se in mano stringi una piccola candela, quella che serve per non mettere i piedi in fallo e illuminare solo il pezzo di strada che ti sta davanti..
Questa è la fede, questa è la forza che ci fa sperare che il deserto si può attraversare indenni, senza paura che il nemico ci tenda una trappola.
Il mio pensiero va a tanti anni addietro quando a guidare la barca ero sola, quando le persone erano solo un mezzo per sentirmi realizzata, se non erano un ostacolo, quando Dio lo cercavo lì dove mai avrei potuto trovarlo, quando ancora mi era ignoto dove portasse la strada che da tanto andavo cercando.
I valori, ai quali tendevo, erano prettamente umani e poggiavano sulla forza l’intelligenza e la capacità dell’individuo, senza nulla attribuire a Chi era il datore di tutti i beni, senza a Lui affidare il compimento di ciò che umanamente non era possibile fare.
Questo è il salto vincente, è la grazia che viene a chi la cerca e la chiede con cuore sincero.
Ma per chiedere bisogna prendere coscienza del proprio bisogno.Quando scrissi ciò che vi vado a leggere non avevo ancora conosciuto il deserto.
Da "Il gioco dell’oca"
 1995
Avevo imparato a convivere con l’handicap e avevo rinunciato a tutte le velleità di un tempo.
Costretta ad un’immobilità forzata, le persone e le cose erano entrate dentro di me in modo prepotente e al deserto di un tempo si era sostituito un universo affollato di sentimenti ed emozioni.
Avevo imparato ad ascoltare e a tenere nel giusto conto i problemi degli altri.
Mi piaceva mettere a disposizione la mia esperienza per il beneficio comune.
Mi gratificava il fatto di riuscire a mettermi in sintonia con tutti quelli che incontravo sul mio cammino e a guadagnarne la stima, specialmente quella di chi, al primo approccio, mi aveva considerato un nemico.
Riuscivo sempre a trovare una parola per tutti e ciò mi faceva sentire importante. A me nessuno osava dare consigli, perché tutti mi vedevano forte e sicura.
Ce la mettevo tutta, ogni mattina, perché lo specchio mi rimandasse il volto disteso e sorridente di chi non aveva problemi. Chiunque m’incontrava si congratulava con me per la splendida forma.
Ero fiera del fatto che riuscivo così bene a nascondermi dietro una maschera ironica e sorridente.
Ma la realtà era pronta a smentirmi con incredibile crudeltà.
Ma chi fece il viaggio a Milano per controllare la tiroide?
Eppure le gambe e le braccia, che sembravano staccarsi dopo l’assunzione dell’Eutirox, che doveva tenere a bada gli ultimi venuti, i noduli in cui m’imbattei per caso, quando cercavo risposte che sto ancora aspettando ai miei disturbi digestivi, erano le mie.
Chi conduceva la lotta con gli ansiolitici per mitigarne l’effetto?
E l’utero che aveva ripreso a scalciare dopo un lungo periodo di tregua? E le cisti in testa che si erano ripresentate con rinnovata arroganza?
Forse che le mani funzionavano, con i pollici ingabbiati in un tutore che ne limitava i movimenti?
E che dire della nuova terapia riabilitativa, che facevo il sabato e che, puntualmente, il lunedì m’impediva di andare a scuola?
E il volto rabbuiato del preside, ogni volta che accusavo un malessere?
Quante volte la pranoterapeuta aveva dovuto venire a casa per alleviare il dolore che non mi permetteva di muovermi?
Ma tutto ciò sembra non appartenermi.
La strada
Al di là delle soddisfazioni personali, quest’anno è successo sicuramente qualcosa d’importante.
Lo sguardo sereno e il volto disteso in una pace tanto a lungo cercata ed infine trovata non si possono attribuire ad un trucco sapiente.
Sicuramente nuovi orizzonti mi si sono aperti dopo l’incontro con la dottoressa B. e con lei.
Ma non è solo questo.
Io, che credevo che a tutto si potesse trovare rimedio, che non c’era problema che non potesse essere risolto e che esisteva un unico modo di essere, mi sono resa conto di quanto sbagliavo.
Ho capito che la vita è ricerca, è impegno, è testimonianza, è abbandono nel mistero profondo e affascinante dell’essere.
Mi chiedo se abbia ancora così tanta importanza guarire, se finalmente ho trovato la strada.
Non ho mai pensato che bisognasse chiedere dove fosse. Io la conoscevo, sapevo che non mi potevo sbagliare: era quella che portava lì in alto, su quella cima che gli occhi a fatica riescono a distinguere, perché troppo forte è il bagliore della luce del sole.
La cima non si vedeva ma, per arrivare, ci doveva essere la strada e, se non c’era, avrei provveduto a costruirla, perché troppo importante era quel punto imprecisato del cielo, dove si confondeva l’aria e la terra.
Non importava che quella strada non fosse stata percorsa da nessuno; anzi mi esaltava l’idea di essere la prima a tracciarla.
Percorso fatto in solitudine. Strada lunga e difficile.
Nonostante la fatica, mai mi sfiorò l’idea che quella non fosse la via giusta. Nonostante le cadute, nonostante gli ostacoli, tutto serviva ad alimentare la mia voglia di vincere.
Ora che il cammino mi ha fiaccato, ora che ho forse visto i contorni di quella vetta indistinta, ora mi chiedo se ne è valsa la pena.
Cadere e rialzarsi, piangere e ridere, annullarsi e inebriarsi in una costante altalena d’impotenza e onnipotenza.
Così procede la vita dell’uomo nella disperata ricerca di se stesso.
Così concludevo la lettera indirizzata al medico di Milano che stava conducendo uno studio sulla sindrome da deficienza posturale, malattia che nasce dalla difficoltà a recepire l’appoggio, qualunque esso sia.
E’ incredibile come Dio non abbia smesso un momento di bussare alla mia porta e di parlarmi, attraverso i sintomi di una malattia dell’anima che avevo trasferito sul corpo.
Dovevo fare silenzio, dovevo imparare a morire, per vedere, per capire, per amare.
La chiave era lì a portata di mano, nel chiuso segreto di una stanza..
31 maggio 2001
 La tua stanza
Franco, manca poco e la tua stanza sarà vuota di vestiti, di scarpe, di fogli, di libri, di dischetti e CD messi lì alla rinfusa, abiti stropicciati, sparsi ovunque, fili aggrovigliati che spuntano e s’intrecciano e s’insinuano fra le multiformi e variopinte scartoffie che sciabordano dagli scaffali che non le contengono.
Quel tuo voler fare le tante, troppe cose che il tempo ti strappa di mano, quel frutto che vuoi cogliere subito, la tua voglia di bruciare le tappe, ti portano a lasciare indifese le tracce di ciò che sei, di ciò che cerchi, di ciò che comunque vuoi nascondere, senza riuscirci.
Franco, la tua camera oggi mi parla di te-, con il suo disordine, con la sua confusione che è anche la mia, mi parla delle tante, troppe baruffe perché non riuscivi, non riuscivo a capire, che ogni tanto bisogna fermarsi, per buttare ciò che ci ostiniamo a portare senza che ne valga la pena, ciò che grava sopra di noi, perché non riusciamo a lasciarlo da parte.
Franco, la tua camera oggi parla di te, più forte, mentre pian piano togli di mezzo ciò che è tuo, ciò che fino a ieri sembrava mio solo mio, perché tu eri cosa mia, come i tuoi pensieri i tuoi desideri i tuoi sogni che ti ostinavi a negarmi…tutto, tutto ciò che, essendo tuo, pensavo mi appartenesse.
Ora te le porti lontano le cose che non sono mai state mie, le strappi dalla tua stanza stupita, dal mio cuore sconvolto da questo temporale di maggio, le porti via senza ordine, senza niente buttare, perché bisognerebbe fare una scelta ed è difficile, specie in questi momenti convulsi che ti separano dal matrimonio.
Le cose, Franco, lo so, lo sai, non vanno lontano: da un armadio ad un altro armadio, guarda caso distante 10 metri…
O di più?
Ma il tuo cuore, Franco, quello dove lo porti?
Il vuoto che lasci di te, del tuo disordine assurdo, dei tuoi silenzi, dei tuoi nervosismi, delle tue attenzioni nascoste, dei tuoi gesti gentili mischiati al fracasso di ciò che non volevi apparisse, della voglia di dirmi, di dirci che ci volevi bene, che volevi ti amassimo come tu sei, come ti sforzavi di essere senza riuscirci, mi sembra incolmabile.
I tuoi diari, lasciati per caso, senza parere poggiati su un tavolo, dimenticati in un angolo, erano lì ad aspettare che qualcuno li aprisse, per capire e conoscere ciò che ti ostinavi a nascondere.
Per sbaglio ne ho aperto, un giorno lontano una pagina e vi ho trovata scritta una preghiera.
L’ ho letta perché era bella, perché era tua, perché non mi sembrava di violare un segreto, visto che l’avevi lasciata lì ad aspettare che finalmente mi accorgessi che c’eri, che il tuo cuore batteva, che avevi trovato un compagno, un amico a cui confidare il tormento e la pena dell’essere soli, un amico che non conoscevo.
Ora quell’amico anch’io l’ ho trovato, ora possiamo parlare con Lui e di Lui senza riserve, senza che la vergogna e il pudore ci chiuda la bocca, ora possiamo sentirci vicini, perché è Lui che ci porta lì dove non sapevamo salire.
Non siamo più soli, perché se l’uno l’altro perde di vista, Lui ci sente e ci rimette in contatto, ricordandoci che l’amore non conosce distanze, riempie i vuoti dell’anima, i vuoti delle stanze deserte, che non rimangono mute, quando un figlio si sposa, quando una madre, invecchiando, non può condividere le sue spensierate e giovani scelte.
Lui è quello che, saldandoli, ricongiunge, i fili spezzati, è quello che riempie di luce le stanze buie e gelate, riscaldandole con il suo dolce tepore.
Oggi, Franco, guardando la tua stanza, a tutto questo ho pensato.
Se non mi fossi fermata un momento, per scriverti dello strazio delle cose portate lontano, non avrei potuto gioire del dono stupendo di cui tu sei stato strumento: il Compagno, l’Amico con cui tu te ne vai, ma anche quello che tu lasci qui dentro, perché in fondo ciò che conta è vedere nella morte dei nostri pensieri la vita dei nuovi pensieri, che sbocciano nel cuore irrigato dal pianto e purificato dall’aria che soffia leggera sulle cose trasformate da Dio.
Bisognava che lui se ne andasse, per accorgermi che in fondo alla strada, su cui si affaccia la sua finestra, c’era un pino da poco tagliato, che per anni mi teneva nascoste, le case del cimitero.
Non è questo forse il percorso a cui ci chiama la Quaresima che stiamo vivendo?
Canto:Davanti a questo amore
22 marzo 2004