3 ottobre 2005

Da una settimana il reparto Geriatria, ala est dell’Ospedale Civile della mia città è diventato luogo di osservazione e meditazione. Non per mia scelta, perché avrei desiderato che mia madre non avesse avuto bisogno di quella struttura per stare bene. Ma l’ospedale è luogo d’incontro: incontro con la sofferenza, prima di tutto. La sofferenza dipinta sui sui volti dei ricoverati, la sofferenza di chi sta al capezzale dei malati.

Ma è principalmente luogo d’incontro con l’amore di Dio che si manifesta nelle parola gentili degli infermieri, che, nonostante la stanchezza, a fine giornata, hanno ancora la forza di sorridere e di tranquillizzare con una carezza o una stretta di mano il malato che si lamenta.

Il volto di Cristo sofferente l’ho visto in mia madre la sera del ricovero, quando la febbre impediva al sangue di affluire al cervello o in mia sorella che vive con lei, che senza tregua, si adoperava per rianimarla.
Ho contemplato il Signore, l’ho adorato in quei volti, in quella relazione d’amore che stava per rompersi, agli occhi degli uomini.
Io guardavo e la tenerezza e il pianto hanno cancellato ogni altro pensiero, che non fosse di apertura alla grazia che Dio mi stava donando, in quella manifestazione d’amore fedele e disinteressata.
Di fronte al letto di mamma per tre giorni ho contemplato le mani di due anziani coniugi, quella di lei inerte, nonostante i tubi e le macchine a cui la sua vita era attaccata, e quella di lui, perennemente poggiata sopra la sua, mano tremante e calda di un vecchio che non voleva staccarsi dalla sua sposa. Due novantenni con le mani intrecciate a dire che l’essere famiglia è questo: restare fedeli al patto di non separarsi mai, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, “finché morte non ci separi”.Così dice la formula, pronunciata il giorno del matrimonio.
Poi ho visto nipoti assistere i nonni, anche di notte, accudirli con amore, con dedizione, con rispetto, ho visto anziani che, pur se con la mente confusa, mostravano la loro gratitudine con un sorriso a chi riusciva ad infrangere il silenzio in cui erano piombati.
Ho visto anche persone sole, abbandonate, senza famiglia, che l’hanno trovata in quelli che, per l’occasione, sono diventati il braccio, gli occhi, la tenerezza di Dio, trovandosi lì ad accudire un loro vicino di letto.
Nell’ospedale ho contemplato il progetto di Dio sulla famiglia umana e me ne sono innamorata ancora di più; ho contemplato il progetto di Dio su tutti gli uomini, chiamati a diventarere suoi famigliari: figli,fratelli, sposi a Lui promessi.

3 ottobre 2005

Elogio del litigio di coppia

 

Gianni per Antonietta
Ti ringrazio,Signore,per il dono che tu mi hai fatto, il più grande di tutti:Antonietta. L’hai preparata per me fin dalla notte dei tempi e me l’hai donata. E io l’ho accettata con ardore, non sapendo dove mi avrebbe portato questa accettazione, ma fidandomi del fatto che tu me la presentavi..
Era per me? Oggi posso dire di sì,ma allora non ne sapevo niente. né la conoscevo bene. Mi sono buttato nell’ ”avventura” senza pensarci e così, inconsciamente allora, pian piano con sempre maggiore consapevolezza,oggi ti ringrazio per quel dono.
Mi riservavi anni di difficoltà, di tribolazioni, di sgomento, di paura, talvolta di disperazione, ma anche di gioia. La più grande, la più intensa e santa è stata ricevere da te e da lei un figlio, lo scopo della nostra vita. E ora mi concedi la gioia di conoscerti in tutta la tua santità,di ricevere consolazione dalla tua presenza, dalla preghiera, dalla tua Parola. E queste gioie sono giunte a me, tramite lei, che mi è sempre vicina e mi aiuta a non perdere la strada maestra, a mantenermi in essa, a rivolgerti le suppliche le preghiere, le intenzioni, le orazioni più struggenti e care.
Noi ti ringraziamo, Signore, e ti lodiamo, accompagnati dai doni che tu, per mezzo dello Spirito, hai mandato su tutta la nostra famiglia.
Lode e gloria a te ,Signore.

Antonietta per Gianni
Signore, ti ringrazio per il dono della fede, che mi ha fatto aprire gli occhi sul tesoro che mi avevi consegnato 32 anni fa, quando io e Gianni ci presentammo davanti a te,per unirci in matrimonio.
Ti ringrazio, Signore, perché hai guarito il mio cuore, trasformando la delusione in riconoscenza, il desiderio di avere in quello di dare, la presunzione di essere migliore con la consapevolezza che, attraverso Gianni,ho imparato tante cose, più utili di tante parole e discorsi ineccepibili.
Ti ringrazio, Signore, perché ci doni il tempo per stare insieme e insieme costruire la casa su fondamenta salde. Ti ringrazio perché il fine per cui ci muoviamo ora sei tu, perché la nostra casa è diventatala tua, perché i nostri progetti sempre più coincidono con i tuoi, perché hai colmato i nostri silenzi con la tua Parola, doni gioia ai nostri cuori, quando lavoriamo per te. Ti benedico, Signore, perché stai operando sul sacro vincolo che ogni giorno diventa sempre più saldo.
Ti benedico perché pensavo di essermi sbagliata, quando le mie aspettative rimanevano deluse, quando Gianni non era come lo avrei voluto.
Grazie Signore, perché non hai permesso che mi volgessi indietro, perché mi hai portato a riconoscere che l’uomo che mi avevi messo accanto era proprio quello che tu avevi pensato per me da sempre.
Ti ringrazio perché è buono, leale, fedele e lo è sempre stato, e mai lui ha dubitato di me.
Ti ringrazio perché, attraverso di lui, tu mi hai dato ciò di cui avevo bisogno e non tutto ciò che desideravo.
Grazie perché ciò ciò che a lui mancava non l’ho cercato altrove, ma in te.
Grazie per la sua imperfezione che mi ha fatto desiderare la tua perfezione, me l’ha fatta cercare e trovare.
Grazie Signore, perché in te abbiamo trovato la fonte di ogni bene e la gioia di abbeverarci insieme.
Ti ringrazio, Signore, per ogni momento in cui mi hai curato, accompagnato, accarezzato, amato attraverso di lui.
Ti benedico, Dio Padre onnipotente, per questo compagno con il quale mi hai chiamato a fare esperienza di comunione con te nell’amore gratuitamente donato a lui.
Carlo Rocchetta: Elogio del litigio di coppia.
Per una tenerezza che perdona (EDB)
2004

11 Famiglia oggi:riflessioni di coppia

Rubrica radiofonica a cura di Gianni e Antonietta.
 
Canto: Cristo è risorto veramente (CD – "Risorto per amore" 1)
Dagli studi di Radio Speranza vi salutano Gianni e Antonietta. Un’altra settimana è passata, speriamo non invano, per ognuno di noi. Gianni ed io ce la stiamo mettendo tutta perché il disegno di Dio non venga sbilenco sulla tela di cui noi siamo la trama e l’ordito. E’ bellissima questa immagine che abbiamo rubato al testamento spirituale di Maria Beltrame Quattrocchi che, insieme a suo marito Luigi, è stata beatificata dal nostro pontefice. Quando non riusciamo ad andare d’accordo, ricordo a Gianni che dobbiamo diventare santi insieme, come loro, e non possiamo permetterci il lusso di avere musi lunghi e covare rancori per molto tempo. Gianni si mette a ridere, pensando che il perfezionismo mi ha dato alla testa, perché gli sembra assurdo che possa succedere ad una coppia qualunque come noi di diventare santa. Ma, se guardiamo la storia della salvezza, ci accorgiamo che Dio non ha puntato sulla forza, sull’intelligenza o su quanto conta nel mondo per cercare i suoi collaboratori.
Quando mi sono convertita, pensavo di valere tanto, non fosse altro perché avevo sulle spalle una storia di sofferenza che avevo sopportato con una forza inaudita, e mi compiacevo nel pensare che avevo combattuto come un titano e che sul corpo portavo le conseguenze del mio ardire, come Prometeo, che, dopo aver rubato il fuoco agli dei, fu condannato in eterno a vedere il suo fegato divorato da un’aquila, o come Sisifo, costretto a spingere fin sulla cima di una montagna un masso che puntualmente gli rotolava addosso, o come Atlante condannato a portare sopra le spalle tutto il peso del mondo, eroi mitologici di cui avevo ereditato la forza e l’arroganza
Gianni, invece, si è presentato al Signore, con la consapevolezza di valere poco e con la convinzione che il suo destino era segnato, per quella tendenza innata a deprimersi ogni volta che non riusciva a fare le cose come avrebbe voluto. Dice un detto popolare: " Dio li fa poi li accoppia" e l’assortimento non poteva essere più azzeccato perché, come carattere siamo agli antipodi. Com’è possibile che il rapporto funzioni? Ma in natura vediamo che proprio questo accade e che i poli opposti si attraggano.
La famiglia, comunità di persone legate dal vincolo dell’amore, si basa sull’unione di un maschio e di una femmina, quanto di più diverso possa esistere.Eppure Dio ha pensato alla famiglia, quando ha creato Adamo ed Eva, per affidare a lei il compito di mettere in circolo l’amore.
C’è un sacerdote, a Pescara, che consiglia alle coppie della sua parrocchia, che stanno per sposarsi, di attaccare in camera da letto piuttosto che il quadro della Madonna o di qualche santo, quello che contiene la copia ingrandita della promessa che si fanno il giorno del matrimonio, senza nulla togliere alle immagini sacre che non si offendono, lui garantisce, se le si sposta in un’altra stanza o in un cassetto. Infatti, spesso il senso delle parole ci sfugge, specie quando le pronunciamo in situazioni particolarmente stressanti, in cui il coinvolgimento emotivo ci toglie la capacità di essere lucidi e attenti. Il nuovo rito del matrimonio, per fortuna, ha lo scopo di far riflettere un po’ più a lungo su cosa si sta celebrando. Gianni ricorda a tutti il brivido freddo che gli ha attraversato le ossa, quando abbiamo rinnovato le promesse matrimoniali, a 29 anni di distanza

" Prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, finchè morte non ci separi"
Ripetere questa formula, dopo 29 anni di matrimonio è stato facile, perché le parole mi sono venute da sole, sicure per averle sentite pronunciare in mille occasioni dalle altre coppie che si sposavano. Ma, quella volta, mentre le dicevo, era come se un martello pneumatico si abbattesse ripetutamente sulla testa, sul viso, sulla bocca, sulla lingua.Ogni parola aveva una forza e una potenza tale da costringermi a fermarmi meglio sui piedi, lì sotto l’altare della Chiesa di S. Giuseppe, al cospetto del Signore Dio nostro. Ogni parola mi è rimbalzata nella mente e vi si è incuneata, fissata indelebilmente. Ogni parola si è fermata nel mio cuore e vi si è stabilita per sempre.
Le ho pronunciate con la coscienza del dopo, quella che fa rivivere attimo per attimo tutta la vita, la fa scorrere alla moviola nella mente con le sue immagini più forti, ridando vita e spessore a sentimenti sepolti e dimenticati.
Nella salute e nella malattia… è stato questo il motivo del brivido inatteso e sferzante che ha attraversato la schiena e la mente quando l’ho ripetuto a distanza di tanti anni. Ma chi ci pensava alla malattia, quando ci siamo sposati? La nostra storia passa attraverso la malattia di Antonietta, che si presentò quasi subito, appena sposati. Quante delusioni, quante attese, quanti bocconi amari, nella ricerca del tesoro perduto. Non ci avevo mai pensato che potesse ammalarsi, Antonietta, una forza della natura, sana come un pesce, vitale fino allo sfinimento. E invece si è ammalata, un cavallo da corsa a cui sono state tagliate le gambe, ecco cosa era diventata, nonostante non avesse mai rinunciato a correre. Io mi sentivo impotente e non mi riusciva neanche di darle coraggio, perché la sentivo forte, più forte di me. Ma non ho mai smesso di pensare a lei, di starle vicino in silenzio, anche se alla lunga il percorso ci ha sfiancati e non eravamo più in grado di farci compagnia. Poi è arrivato il Signore, come un turbine ha spazzato via le nuvole fosche che gravavano sulla nostra vita di coppia e ci ha mostrato un pezzetto di cielo. Era azzurro, era bello, era nuovo, era pulito, e potevamo ripeterle all’infinito quelle parole. " Prometto di esserti fedele sempre nella gioia e nel dolore nella salute e nella malattia."

 

Fu forse la prima volta che un sentimento forte e profondo l’abbiamo consapevolmente condiviso.
Nella salute e nella malattia, furono le parole che ci fecero sentire quanto eravamo stati vicini per tutti gli anni che ci era sembrato di andare da soli. Fu come quando, arrivati sulla vetta di un’alta montagna, ti affacci insieme al tuo compagno di cordata e guardi l’abisso che ti sei lasciato alle spalle. Fino a quel momento non ci avevi pensato, tutto preoccupato ad inerpicarti attraverso sentieri stretti, sui rigidi costoni di roccia avari di appigli, ma senza mai parlare con chi condivideva con te la fatica del procedere, per non consumare energia e pensando che l’altro non ti avrebbe sentito, perché stava sopra o sotto ma mai a fianco e la paura, lo scoraggiamento, la speranza, il freddo, il caldo, la sete, la fatica, sembravano e appartenere a te solo, perché eri solo quando vedevi il vuoto davanti ai tuoi occhi, solo quando sentivi le sferzate del vento gelido e i raggi del sole accecante, solo davanti al buio senza stelle della notte. Poi arrivato alla cima, guardi il cielo sgombro di nubi, il sole che brilla luminoso senza che niente lo offuschi, guardi a fianco, e vedi il compagno che ti è di fronte e insieme ti scopri a guardare l’abisso che ti separava dalla vetta faticosamente conquistata, il monte santo dove il Signore ti ha chiamato a ringraziarlo per quei sentieri ripidi e stretti per quella roccia dura e scoscesa, per quegli appigli che Lui ti ha fornito, per attaccare la corda attraverso chi ti è stato vicino, chi ti è stato fedele nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia.

Di questo vogliamo fare memoria, perché sempre più sentiamo quanto sia importante verbalizzare i sentimenti, le emozioni che, se non condivise, portano alla morte. Ecco il problema sta proprio nel condividere, nel far partecipe l’altro di ciò che vivi, pensi, senti e non solo di quello che fai e che tutti potrebbero riferire se fossero muniti di un microfono e di una cinepresa.
Quando a casa Gianni tornava dal lavoro aveva l’abitudine di stare in silenzio, perché a riempirlo c’ero io con le mie tante parole che da un lato gli toglievano la fatica di pensare e dall’altra gli impedivano di far emergere ciò che desiderava sotterrare.Quando il torrente che mormora s’incontra con il mar morto i due stanno bene perché ognuno rimane quello che è senza cambiare l’altro. Ma alla lunga nella vita di coppia ci si accorge che si è sconosciuti l’uno all’altro, perché non ci si è preoccupati di mettersi in ascolto in modo vero e profondo, non ci si è preoccupati di far crescere l’altro..

 

Canto: Dalla tristezza alla danza (CD – "Risplendi Gerusalemme" – 12)
"La parola e l’amore sono i due poteri divini che abbiamo dentro", questo ci siamo riportati al termine di un ciclo di incontri sulla comunicazione che abbiamo seguito a Montesilvano per iniziativa del RnS. "Piuttosto che cambiare partner impariamo a comunicare", ci ha detto don Carlino Panzeri e allora abbiamo riflettuto sulla nostra storia e abbiamo ripensato a quante volte il partner l’avremmo voluto cambiare perché non riuscivamo a comunicare. Poi la svolta, quando, appunto abbiamo messo in comune il brivido freddo, gelato che ci ha percorso la schiena quando abbiamo ripetuto le promesse matrimoniali. Ce lo siamo detto e abbiamo da lì ricominciato tutto da capo, pian piano capendo che il più grande il sommo il perfetto maestro della comunicazione è Gesù Parola incarnata che si è fatto uomo per comunicare a noi il vero volto del Padre, per dirci chi siamo e a cosa siamo stati chiamati. Il corso seguito a Montesilvano a cura della pastorale familiare e giovanile si snodava attraverso tre momenti fondamentali: il Caos, il Logos, il Cosmos.
Il Caos, la confusione, la disgregazione del mondo in cui viviamo, ce l’ha illustrato egregiamente il primo relatore, il professor Lorenzo Cantoni, quando ci ha parlato del bla bla della Babele dei nostri giorni, la torre che ci siamo costruita per celebrare la vittoria del non senso, del vuoto, dell’immagine che passa sul teleschermo senza sporcarti, toccarti, cambiarti. La parola che cambia la vita ce la siamo dimenticati, è merce preziosa, è tesoro nascosto che solo gli affamati di Dio, i poveri di spirito possono trovare e gustare. Il totem attorno a cui si celebra il funerale della comunicazione è il televisore, in funzione del quale si dispongono i mobili della casa. Provare a mettere al posto del teleschermo al centro della scena un frigorifero o un aspirapolvere nessuno l’ha fatto, anche se gli abbiamo battuto le mani, quando ce l’ha suggerito. Sarebbe stato bello averne il coraggio, ma almeno il televisore potevamo cambiarlo di posto, dietro le poltrone per esempio così che, per vederlo, bisogna fare fatica, bisogna pensarci un po’ su e chissà che nel frattempo non incroci lo sguardo di chi ti sta di fronte, che con te trasporta il televisore perché non cada, e ti viene voglia di chiedergli perché mai ha quella faccia, se gli è successo qualcosa.

Del caos, non c’era bisogno di tante parole per descriverlo, tanto siamo in esso invischiati, ma forse c’era bisogno che qualcuno lo guardasse da fuori e ce ne parlasse, perché ci svegliassimo e ci rendessimo conto di vivere in un mondo senza parole. Chi ha inventato la parola è Dio, che con la parola ha dato ordine al caos primordiale, con la Parola ha dato inizio alla nuova creazione. Ma la Bibbia è la storia di un popolo duro d’orecchi come la nostra che non vogliamo sentire.. Di quali parole l’uomo ha bisogno per ricomporre l’unità perduta, per ritrovare attraverso la frantumazione a cui questa società lo ha costretto, la sua identità più vera e profonda, quella di essere figlio di Dio e fratello in Gesù.? Gesù, la Parola che salva, è venuto ad insegnarci un altro alfabeto, non quello di una legge fatta di prescrizioni e di precetti, ma quella dell’amore che non ha bisogno di parole quando una madre dà mangiare al suo bimbo, quando si alza la notte per vegliare sul suo sonno, quando previene il suo pianto con un bacio o una carezza
La parola, il Logos ti apre al mistero della grande famiglia dei figli di Dio che, come genitore attento e premuroso testimonia come il cuore sia capace di capire, accogliere e soddisfare tutte le esigenze e le attese dei figli. Parola e amore hanno la stessa accezione, perché si identificano in una persona, Cristo Gesù, che ha messo in comunicazione il cielo e la terra con un gesto infinito d’amore, ha mostrato il vero volto del Padre nel dono totale e gratuito di sé.
Così don Carlino, Pancieri ci ha parlato di come si comunica, di come i rapporti possano essere sanati, come la costruzione del corpo di Cristo, la Chiesa, possa crescere ben compaginato e connesso se si guarda a Gesù che ha agito partendo dall’ascolto, ha cambiato posizione, si è scomodato, messo nei panni dell’uomo, traslocando nel suo mondo per poterlo capire e farsi capire di più.
Ci ha invitati a cambiare posizione, quando vogliamo comunicare, mettendoci dall’altra parte, non per rimanerci, ma per vedere, per sentire le stesse cose del nostro interlocutore e poi donargli tutto ciò che possiamo, proprio come ha fatto Gesù, morendo a se stesso e donandosi tutto a noi.
Parlare e amare, amare e servire questi sono i verbi da coniugare insieme a Lui, per cambiare i connotati al volto di questa nostra società orfana di tutto, anche di sogni, una società che deve ritrovare il padre e la madre, quelli che Dio impersona, quei genitori che sempre più nella famiglia umana disattendono a ciò per cui sono stati chiamati.
La famiglia dei figli di Dio non può che imparare l’alfabeto, le parole dell’amore, che nella propria famiglia d’origine, dove s’impara a parlare. La famiglia, la coppia è quella che è chiamata a incarnare la buona notizia dell’amore che salva.
Ma quando non ci sono famiglie, coppie che parlano di Dio, basta fermarsi ad osservare il creato

19 aprile 2002
Oggi Signore ti ho incontrato in un prato, appena svegliato dalla luce del sole d’aprile.
Una brezza leggera muoveva i teneri fiori spuntati tra i fili sottili e lucenti dell’erba.
Le farfalle dai mille colori, le api laboriose e tranquille, i calabroni rumorosi e pacifici, i piccoli insetti si muovevano in quell’oceano scintillante di luce dove ogni arcobaleno impallidisce.
Ti ho incontrato Signore in quei fiori di cui non sentivo il colore e il profumo ti ho incontrato e ti ho riconosciuto in quello scambio di vita e di morte che vedevo attuarsi in quel prato.
Ogni cosa mi parlava di te, nel suo esistere, nel suo essere l’una diversa dall’altra, nel suo porsi ognuna indifesa all’altra che la ricercava o la respingeva,
Ti ho incontrato e ti ho visto Signore nella forma delle singole cose, nella vita che ognuna portava dentro, nella legge che a loro avevi dato
Concludiamo con questa riflessione perché, all’interno di ogni famiglia, dal Caos nasca la vita..

Vi date la vita e siete datori di vita

     

  • Voi coniugi vi date la vita e siete datori di vita quando, rientrando a casa dopo una giornata faticosa di lavoro, vi venite incontro l’un l’altro e vi scambiate un saluto premuroso e affettuoso
  •  

  • Vi date la vita e siete datori di vita quando vi ascoltate vicendevolmente, quando intuite i sentimenti profondi che l’altro vive (monotonia, pesantezza, scoramento) e piuttosto che respingerlo lo accogliete così com’è e lo aiutate a superare il suo limite, il suo buio, la sua solitudine
  •  

  • Vi date la vita e siete datori di vita quando voi mogli state dietro ai fornelli, a preparare qualcosa di appetitoso per le persone che amate, e voi mariti lavorate sodo per non far mancare nulla.
  •  

  • Vi date la vita e siete datori di vita quando, vi prendete cura dei vostri figli, quando volete che abbiano un avvenire, date loro i mezzi perché studino, comprate con misura i giocattoli perché si divertano, stimolate in loro la voglia di unirsi ad altri ragazzi, li educate a rispettare gli anziani, a compiere gesti di solidarietà.
  •  

  • Vi date la vita e siete datori di vita quando accudite i vostri genitori ormai anziani e non li confinate in un istituto, ma li tenete nella vostra casa e fate sentire la vostra presenza, il vostro calore, la vostra attenzione, anche se a volte può essere duro e faticoso. Oppure, se costretti dalle necessità non li abbandonate in un istituto ma continuate a prendervi cura di loro
  •  

  • Vi date la vita e siete datori di vita quando riuniti intorno alla stessa tavola e non infastiditi dalla "balia elettronica", mettete in comune l’andamento della giornata, confidate i vostri umori e insieme al pane, spezzate le tensioni accumulate durante il giorno, oppure inondate di calore le vostre vite o partecipate contenti, nonostante la stanchezza, al vocio dell’irrefrenabile vostro figlio più piccolo.
  •  

  • Vi date la vita e siete datori di vita quando, appartati da occhi indiscreti, mettete in comune il vostro amore, nell’intimità del vostro talamo nuziale, nuovo altare per celebrare il vostro amore, e per assaporare la gioia di incontrarvi e stare insieme
  •  

  • Vi date la vita e siete datori di vita quando di comune accordo decidete di donare la vita ad una vostra creatura o quando accogliete nella vostra casa un bambino che non è frutto delle vostre viscere, e lo amate con la stessa cura e intensità.
  •  

  • Vi date la vita e siete datori di vita quando decidete di spendere il vostro tempo per gli altri: in un incontro per fidanzati e per le famiglie, in un centro di accoglienza, in una comunità di ragazze madri, in una casa per bambini bisognosi di affetto.
  •  

  • Vi date la vita e siete datori di vita quando partecipate alla vita della scuola, siete onesti nella gestione pubblica e testimoniate il vostro impegno di cristiani nel posto di lavoro.
  •  

  • Vi date la vita e siete datori di vita quando, di fronte al dolore, al negativo, al conflitto dell’altro, piuttosto che immobilizzarvi, sfuggirlo o negarlo, lo assumete e lo attraversate
  •  

  • Vi date la vita e siete datori di vita quando insieme pregate, quando scoprite nelle pagine vive della Bibbia e della storia Dio che parla e vi lasciate orientare, ammaestrare e condurre da Lui.

 

Canto: Cristo è risorto veramente (CD – "Risorto per amore" 1)
24 gennaio 2005

9 Dal diario di Antonietta

Rubrica radiofonica a cura di Antonietta
Benvenuti a questo nono appuntamento, grazie al quale il Signore mi dona di portare nella mensa comune le briciole dei suoi insegnamenti, che mi parlano sempre di amore, del suo, prima di tutto, e poi di quello che siamo chiamati a donare nella misura in cui lo riceviamo.
Come ho avuto modo di sperimentare, la malattia dell’uomo, quella che provoca in lui più sofferenza, è malattia d’amore.
Ognuno cerca dalla nascita, fino alla morte la risposta ad un bisogno inderogabile inscritto nel suo D.N.A., quello di essere amato.
Fino a quando non si scontra con l’amore di Dio e non ne rimane folgorato, continua a vagare alla ricerca di chi o di cosa possa soddisfarlo, riponendo la sua fiducia in idoli falsi e bugiardi..
Perciò la volta scorsa, mettendo da parte falsi pudori e orgoglio, visto che la storia della mia malattia l’avevo già pubblicata in un libro, ho cominciato a leggervi le pagine relative al suo insorgere, in seno alla mia famiglia d’origine, dove l’amore gratuitamente donato, non è stato nella misura della mia fame.
A poco più di un anno, infatti, fui affidata, in occasione della nascita di mia sorella, a degli zii senza figli, che abitavano lontano dalla mia città, che non conoscevo.
In modo del tutto inconsapevole quel distacco divenne una frattura profonda e creò il baratro che mi separò dalla vita e dagli affetti e mi impedì di godere di tutto ciò che da quel momento la mia famiglia mi offriva, ma io disdegnavo, cercando altrove il compenso al mio malessere sempre crescente.
Siccome non avevo malattie importanti come i miei fratelli, nascondevo i problemi che mi si presentavano, con la convinzione che per attirare l’attenzione o bisognava essere molto malati, o straordinariamente sani.
Perciò mi sforzai di nascondere agli altri, ma prima di tutto a me stessa i sintomi dei miei malesseri a cui non davo e non davano importanza.
Finii per vergognarmi di stare male e mi trovai a cercare qualsiasi cosa che mi assolvesse da quella che cominciai a pensare fosse una colpa.
Ma non tutto fui capace di nascondere per cui ogni tanto mi ritrovavo al centro dell’attenzione.
Leggo a pag.29 de "Il gioco dell’oca"
1958
L’atteggiamento sempre più curvo, i piedi piatti e la mole eccessiva (a 14 anni pesavo 100 chili) indusse mia madre ad occuparsi di me ancora una volta.
Per i primi due problemi fu chiesto il parere ad uno che pare se ne intendesse.
I tacchi e una bella "guepière" furono le prime protesi che misi per correggere il mio corpo.
Per l’obesità, visto che non si riusciva a farmi smettere di mangiare, mia madre si preoccupò di farmi fare dei vestiti che nascondessero il più possibile quella vergogna.
Ci si mise anche mio zio, fratello di mia madre, a voler risolvere il problema. Mi portò con se, nella sua casa a Bologna, e cominciò l’opera di rieducazione.
Lui, che era in perenne lotta con i suoi chili di troppo, senza successo, si mise d’impegno ad eliminare i miei: al ristorante, mentre lui trangugiava tortellini, pretendeva che io ordinassi caffellatte; al quinto piano lui saliva con l’ascensore, io a piedi.
Si mise in mente anche di raddrizzarmi la schiena, costruendomi una rudimentale protesi fatta con un asse di legno, chiodi e spago.
Non indossai mai quell’arnese, senza sapere che la vita teneva in serbo per me aggeggi molto più infernali, ai quali non avrei potuto sottrarmi.
Quegli anni e i successivi furono accompagnati da dolorosissimi ascessi ai denti e da coliche terrificanti che spesso si concludevano con uno svenimento, ma ai quali non davo e non davano mai peso.
Per me era importante superare la crisi per riprendere la mia vita normale.
Non ho mai avuto il minimo dubbio che tutto si sarebbe rimesso a posto nel giro di poco tempo.
Era come se quelle cose non capitassero a me e quasi mi meravigliavo se qualcuno le prendeva sul serio. L’imponente fasciatura al ginocchio destro a causa di una rovinosa caduta, di cui porto ancora il segno, non solo non meritò l’attenzione di un addetto ai lavori, ma fu esibita da me come un trofeo.
Anche un incidente stradale, di cui fui causa inconsapevole, e vittima, mi vide leccarmi le ferite di nascosto con grande vergogna.
1960
Con ancor più grande vergogna vissi le interminabili sedute da un sedicente dentista, molto stimato da mia madre, che si protrassero per anni fino a quando trovai il coraggio di parlarle del fastidio che mi procurava il suo voler curare i denti in piedi.
Mia madre andò su tutte le furie, accusandomi di infangare con le mie fantasie una persona timorata di Dio, che andava tutte le dome-niche a messa.
Fu forse allora che cominciai a dubitare di me?
Certo che a raccontarla ora, la storia, direi cose diverse, guardando alla mia vita non come un susseguirsi di fallimenti e di errori e sicuramente non trascurerei fatti che con il tempo mi sono apparsi essenziali, per la mia crescita nella conoscenza del progetto di Dio sulla mia vita.
Per fortuna che non ha permesso che, pur quando lo sentivo lontano, tacessi ad un medico, che stava facendo uno studio sulla "sindrome da deficienza posturale", malattia da cui sarei stata affetta, il piccolo segno di croce che mia madre stampava sulle nostre fronti, ogni sera, prima che ci addormentassimo.
A rifletterci, però, visto che si tratta di disturbo che nasce dalla difficoltà ad appoggiarsi a qualsiasi sostegno, vivendo come se non ci fosse, non fu sbagliato, neanche da un punto di vista medico, ricordare che mia madre, consapevole della sua incapacità o impossibilità a provvedere a noi in tutto, con quel segno di croce, consegnava noi figli a Colui che non ci avrebbe mai fatto cadere, accogliendoci nelle sue braccia di padre tenero e potente nello stesso tempo.
A noi figli, nati in quel periodo, era concesso, dopo lo svezzamento solo quell’unico contatto con chi ci aveva messo al mondo, perché ci abituassimo ad essere forti e autonomi, indipendenti da quelle coccole che non ci avrebbero fatti crescere e diventare adulti.
I baci, le carezze, gli sguardi, le lacrime di dolore o di commozione, chi poteva vederli, chi contarli, chi ricordarli, se tutto avveniva nel silenzio e nel buio della camera dove eravamo immersi nel sonno?
A riscrivere la storia alla luce di chi l’ ha pensata e l’ ha scritta per primo, comincerei dal nome, quel nome, Antonietta, che mi era sempre sembrato un dispetto di chi me l’aveva affibbiato, con la scusa che non ci si poteva sottrarre alla tradizione di trasferire sui piccoli nati il nome dei nonni paterni innanzi tutto e materni, se era il caso.
E siccome io ero la seconda, mi toccò quello della madre di mio padre, che non mi aveva allevato e che avevo avuto modo di conoscere poco.
Per liberarmi dal complesso di un nome non scelto, non amato, non accettato, mi è venuta, però, in soccorso la parola di Dio
Il salmo 47 ci ricorda che Dio ha creato le stelle e ad ognuna ha dato un nome, pur se sono tante che non le possiamo contare, infinite per noi, ma non per lui che ad ognuna ha dato un posto e una funzione:
Se a cose inanimate ha dato tanta dignità da poter essere chiamate per nome, quanta più dignità ha riservato all’uomo nel nome del quale ha scritto il suo destino di salvezza e di grazia.!
Nel salmo 147 leggiamo
Signore ricostruisce Gerusalemme,
raduna i dispersi d’Israele.
Risana i cuori affranti
e fascia le loro ferite;
egli conta il numero delle stelle
e chiama ciascuna per nome.
e in Isaia al capitolo 43
"Non temere, perché io ti ho riscattato,
ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni.
Se dovrai attraversare le acque, sarò con te,
i fiumi non ti sommergeranno;
se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai,
la fiamma non ti potrà bruciare;
poiché sono il Signore tuo Dio,
il Santo d’Israele, il tuo salvatore.
Perché tu sei prezioso ai miei occhi,
perché sei degno di stima e io ti amo
Queste le parole che mi portarono a riflettere su quanto Dio ami tutto ciò che ha creato e che il nome è un segno della relazione d’amore che unisce il creatore alle sue creature, la mamma al figlio, il bimbo al suo giocattolo.
5 gennaio 1948
Eravamo tanto eccitati quella sera tanto da non riuscire a dormire, nonostante quella fosse la condizione perché la befana arrivasse e portasse i suoi doni.
A me portò una bambola bionda, di porcellana, grande quanto quelle che si intravedono nelle vetrine di lusso.Mi fu chiesto di darle un nome, ma non ne trovai nessuno che me la facesse sentire mia, mentre mia sorella non ebbe dubbi a chiamarla Mariateresa, la sua compagna di giochi più cara.
Io, non avendo compagne di gioco, mi dovetti accontentare di chiamarla con un nome che le misero gli altri, Susy, oggetto inanimato nelle mie braccia che non avevano ancora imparato ad amare.
Così, illuminata dalla parola di Dio ho meditato su quel nome che mi era sembrato uno scherzo di cattivo gusto che il destino mi aveva riservato, il primo dei tanti che la vita aveva in serbo per me.
Illuminato dall’alto, è venuto finalmente alla luce, per risplendere tutto, il tesoro prezioso che la nonna di cui portavo il nome aveva lasciato in eredità a me e a tutti, figli e nipoti che godiamo oggi della ricchezza di una famiglia unita e in pace, una famiglia che la vide madre di cinque figli a cui insegnò l’arte di amarsi, comprendersi e aiutarsi per tutta la vita, pur essendo nati da padri diversi
Nonna Antonietta me la ricordo con la corona in mano che ci chiamava a raccolta sul suo lettone, quando scoppiavano i temporali.
Noi ci stringevamo, nascondendoci nelle sue lunghe e ampie sottane, con gli occhi chiusi ad immaginare i morti che passeggiavano in cielo, comodamente seduti in carrozza., incuranti del fracasso e dello scompiglio che provocavano.
Così ci avevano detto, quando, per farci stare buoni inventavano favole per allontanare i fantasmi e dimenticare la paura.
Ma lei non li aveva dimenticati i foschi bagliori di morte, i colpi assordanti delle bombe sganciate su Pescara, dagli aerei che di passeggiate ne avevano fatte tante nel cielo per rompere le ginocchia al nemico e impedirgli di nuocere ancora.
La guerra nei sopravvissuti aveva lasciato un segno indelebile di paura ma soprattutto di fede.
Quella fede che servì per non impazzire, quando i tedeschi si vennero a prendere mio padre, mentre io nella pancia mi ritraevo alla pressione del fucile puntato su mia madre che mi portava nel grembo
Ma papà riuscì a liberarsi e a nuoto attraversò il fiume, seguendo la voce di dentro che lo consigliò di stare alla larga dal ponte che si sbriciolò davanti ai suoi occhi, mentre intorno l’acqua bolliva e le bombe fischiavano, ma senza colpirlo.
Quella fede li accompagnò, quando in marcia per fuggire alla strage, da Paglieta dove erano sfollati, si ritrovarono in cento, stretti in una fumosa cucina, a recitare la supplica alla Madonna di Pompei, mentre gli aerei sganciavano bombe da pazzi e il cielo sembrava scoppiare, ma tacquero all’amen finale.
Ne ebbero bisogno quando, a piedi, arrivarono al Sangro e poi a Vasto, nel grande teatro, dove in cinquecento ammucchiati dormimmo tutti, me compresa, ancora racchiusa nel caldo e sicuro rifugio della pancia di mamma.
Quanta fede ci volle per pensare che era giusto tornare in paese per farmi nascere in una casa che non fosse un teatro o una stalla!… e papà che sfidò il coprifuoco per chiamare la levatrice, perché io ero stanca di star chiusa là dentro e volevo vedere la luce, quelle luci davanti alle quali il mio nipotino ha tenuto gli occhi sgranati la notte di capodanno.
Ma io avevo sbagliato anno e mese e luogo per assistere ai fuochi d’artificio che hanno incantato Giovanni..
Era, infatti, il 9 marzo del 1944
Ce ne volle di fede e di speranza per caricare sopra al carretto le poche masserizie e rimettersi in marcia, a guerra finita, alla volta di Pescara, con me e mio fratello piccini e mia sorella in procinto di nascere nel pancione di mamma.
Nonna Antonietta li stava aspettando, nella casa sistemata alla meglio con le poche cose scampate allo scempio delle bombe e degli sciacalli, come una chioccia che chiama a raccolta i pulcini., nessuno escluso, perché smettano di avere paura..
Ma noi continuavamo ad averne, quando scoppiavano i temporali, mentre lei continuava a pregare la Madonna che ci aveva salvati tutti dalla grande catastrofe..
Non a caso il mio secondo nome è Maria, colei che ci ha protetti e continua a proteggerci ma che tardi ho imparato ad amare.
Nel mio nome, quindi, è scritta la mia storia passata, una storia di sofferenza, di fede e di valori vissuti e testimoniati, ma anche quella presente in cui colgo i frutti di un seme non da me gettato, né coltivato, e quella futura che si apre alla speranza di un Dio che viene, ogni volta che apriamo il nostro cuore all’amore, amore per le nostre ferite, amore per i nostri fratelli, amore per lui soprattutto che non si è risparmiato, pagando il nostro a caro prezzo con il sacrificio di se stesso sulla
Abbiamo parlato di guerra, ma abbiamo anche e soprattutto parlato di amore, per questo oggi volevo concludere con una preghiera
Ma ancora una volta il Signore mi è venuto incontro risparmiandomi la fatica di cercare le parole.
Le aveva scritte lui nella liturgia del giorno: lunedì della prima settimana di avvento.
Dal libro del profeta Isaia
Alla fine dei giorni,
il monte del tempio del Signore
sarà elevato sulla cima dei monti
e sarà più alto dei colli;
ad esso affluiranno tutte le genti.
Verranno molti popoli e diranno:
"Venite saliamo al monte del Signore,
al tempio del Dio di Giacobbe,
perché ci indichi le sue vie
e possiamo camminare per i suoi sentieri"
Poiché da Sion uscirà una legge
e da Gerusalemme la parola del Signore.
Egli sarà giudice tra le genti
e sarà arbitro tra molti popoli.
Forgeranno le loro spade in vomeri,
le loro lance in falci;
un popolo non alzerà la spada
contro un altro popolo,
non si eserciteranno più nell’arte della guerra.
Casa di Giacobbe, vieni,
camminiamo alla luce del Signore..
Questa parola di speranza ci accompagni e ci guidi e risplenda in questo nostro tempo illuminato ancora dai foschi bagliori di morte.
Mai come oggi è attuale l’invito di Gesù ad amarci come lui ci ha amati.
Invochiamo il suo Spirito perché l’impossibile diventi possibile e la sua parola si realizzi nelle nostre famiglie, nelle nostre città, nel mondo intero.
10 dicembre 2003

13 Famiglia oggi:riflessioni di coppia

Rubrica radiofonica a cura di Gianni e Antonietta
Canto: Cristo è risorto veramente (CD – "Risorto per amore" – 1)
Cari amici, all’ascolto di Radio Speranza, buongiorno da Antonietta e Gianni.
Oggi vi vogliamo salutare così, anche se ci hanno raccomandato di non fare riferimenti temporali, perché questa trasmissione va in onda anche in differita.
Ma se la nostra lingua è carente, per quanto riguarda un augurio che abbracci l’intera giornata, vogliamo inventarcele noi le parole che mancano al vocabolario, per invitare ad accogliere la luce che brilla anche di notte, perché è proprio quando tramonta il sole che non ci vediamo e abbiamo bisogno di aiuto, abbiamo bisogno di fede..
Le candele che si accendono il giorno della presentazione al tempio di Gesù, la Candelora per intenderci, sono piccole, ma servono a ricordarci proprio questo: ricordavamo la volta scorsa, illuminano quel tanto che basta per non mettere i piedi in fallo e il resto lo lasciano al buio.

Quelle candele che ci consegna il sacerdote il 2 febbraio, ricordano le parole del vecchio Simeone: "Ora lascia, o Signore che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola; perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele".
Il vecchio Simeone aveva aspettato per tutta la vita il momento in cui avrebbe visto sorgere un sole che non tramonta; è bellissima l’immagine di questo vecchio che prende in braccio il bambino, un bambino speciale, s’intende, ma che è immagine e simbolo della vita che sboccia.
Alla gioia di Simeone si affianca quella dell’anziana profetessa Anna, che non appena vede Gesù, si mette a lodare e ringraziare il Signore, anche lei cogliendo tutta la portata di quel momento a lungo aspettato. Viene da chiedersi perché proprio a due anziani viene data la capacità di accorgersi della luce nascente. Forse perché hanno imparato a fermarsi, ad attendere, ad apprezzare ciò che veramente conta nella vita.
La vita che sembra non appartenere agli anziani è ciò che invece nascondono dentro di loro, la vita considerata nel suo fluire, quella vera che non conosce tramonto, ma solo momento del divenire del tempo, che da finito diventa infinito.
Il teologo moralista Giordano Muraro, così si esprime a riguardo:
"Forse l’immagine che più di ogni altra esprime questo modo di essere è quella delle stagioni. C’è la primavera, l’estate, l’autunno e l’inverno. Ma sono tutte stagioni di vita e ognuna ha i suoi frutti, anche l’inverno, che è il tempo del riposo e della vita nascosta, e prepara al rilancio della vita.
Per quanto possa sembrare assurdo, la primavera è simile all’inverno, perché entrambi non hanno frutti, ma li preparano, anche se con modalità diverse: la primavera con l’esplosione dei fiori che contengono i frutti; l’inverno con un silenzio spoglio, che accoglie i semi deposti nel tempo precedente e ne conserva e apprezza la vitalità, aspettando le condizioni necessarie per iniziare una nuova primavera.
La persona, mentre diventa fisicamente meno produttiva o addirittura improduttiva, può sviluppare in se altre dimensioni di vita, alle quali fino a quel momento ha dedicato poco tempo o lasciato addormentate o inespresse. E’ la fase cruciale della storia della persona. Il tempo della storia si esaurisce, e si apre un cammino che si perde nello spazio sconfinato dell’eternità. Continua a vivere nella storia, ma incomincia a capire che la strada in cui fino a ieri aveva camminato si apre su un orizzonte che non ha più confini.
La morte non è il baratro che ingoia tutto nel suo silenzio vuoto e immobile, ma è un passaggio ad una nuova dimensione di vita. Per questo l’anzianità può essere paragonata alla stagione invernale, quella che nasconde e alimenta i germi della vita nuova. Non è facile prendere coscienza di questa dimensione della vita quando si è nella gioia della fioritura e nel tempo in cui tutto fruttifica in abbondanza.
In quel momento la vita sembra bastare a se stessa. Le condizioni per avvertire l’esigenza di una nuova dimensione di vita sono il silenzio, la povertà, l’umiltà, quando si riconosce l’insufficienza di ogni altra esperienza. Allora la vita diventa capace di percepire l’impercepibile, come è avvenuto per Simeone ed Anna nell’abbraccio con il Bimbo".
Canto: Io vedo il re (CD – "Risplendi Gerusalemme" – 3)
Quel Bimbo, portatore di gioia e di luce, è frutto del sì di sua madre e suo padre, Maria e Giuseppe, del sì di una coppia, anch’essa un pochino speciale, che ha accettato di accogliere il progetto di Dio nella propria vita, attraverso quel figlio che non apparteneva a loro, ma a Dio che, servendosi di loro, lo aveva donato a tutta l’umanità. Questa coppia ha tanto da insegnarci per quanto riguarda il segreto del loro accordo silenzioso, perché erano strettamente uniti a Dio con la preghiera e con l’ascolto della sua parola, tanto da non avere dubbi su quale fosse la sua volontà alla quale si sono sempre uniformati.
La scorsa volta abbiamo concluso la trasmissione rilevando quanto fosse importante nel matrimonio la consapevolezza che ci si sposa in tre e che la Grazia insita nel Sacramento, lo Spirito Santo, rende possibile l’eternità dell’amore, l’unità indissolubile della coppia, l’uniformità dei voleri, specie nelle decisioni più impegnative come sono quelle di apertura alla vita.
Il 6 febbraio 2005 abbiamo celebrato la ventisettesima giornata per la vita e ci sembra bene con voi riflettere sul messaggio che i Vescovi hanno indirizzato alla comunità cattolica italiana.
FIDARSI DELLA VITA
"La vita è un intreccio di relazioni e le relazioni richiedono che ci si possa fidare gli uni degli altri.
Secondo una tendenza culturale diffusa, la vita degli altri però non è degna di considerazione e rispetto come la propria.
In particolare non riscuote un rispetto sacro la vita nascente, nascosta nel grembo di una madre; né quella già nata, ma debole; né la vita di chi non ha i genitori, oppure li ha ma sono assenti e cerca di averli, col rischio di aspettare molto a lungo, forse addirittura di non averli mai.
Così chi attende di nascere rischia di non vedere mai la luce, e chi attende in un istituto l’abbraccio di due genitori, rischia di vivere per tutta la vita con il desiderio di un evento che mai accadrà.
Scontiamo modi di pensare e di vivere che negano la vita altrui, che non si fidano della vita perché diffidano degli altri, chiunque essi siano. E invece nella Genesi si legge: "Non è bene che l’uomo sia solo!".
Lo scopo dell’esistenza sta nella relazione. Con l’Altro che ci ha creati, ci ama da sempre e per sempre, e per noi ha in serbo la vita eterna. E con gli altri, a cominciare da chi più ha fame e sete di vita e di relazione: come il bambino non ancora nato o i molti bambini senza genitori.
C’è il bambino non ancora nato, icona e speranza di futuro: entrare in relazione con lui, considerandolo da subito ciò che egli è, una persona, è la più straordinaria avventura di due genitori.
In questo senso l’aborto, quando è compiuto con consapevole rifiuto della vita, superficialmente o in obbedienza alla cultura dell’individualismo assoluto, è la più terribile negazione dell’altro, la più gelida affermazione dell’individuo che ignora l’altro perché riconosce soltanto se stesso.
In non poche circostanze in verità l’aborto è una scelta tragica, vissuta nel tormento e con angoscia, sbocco di povertà materiale o morale, di solitudine disperata, di triste insicurezza: in queste situazioni a negare l’altro è, in ultima analisi, tutta una società, cieca nei riguardi dei bisogni delle persone e insensibile al rispetto del figlio e della madre.
Anni di esperienza inducono a ritenere che la via maestra per vincere la cultura dell’individualismo, ma anche per superare la fragilità che durante una gravidanza può nascere per la paura di non farcela, consiste nel fare compagnia alle madri in difficoltà, aiutandole a capire che gli altri esistono, ti aiutano, non ti lasciano sola e, portando assieme a te il tuo peso, lo rendono sopportabile, fino a farti scoprire che non di un peso si tratta, ma della gioia più grande
Ci sono poi molti bambini e ragazzi che trascorrono la loro infanzia in un istituto, perché i loro genitori li hanno abbandonati o per i più svariati motivi non sono in grado di tenerli con se. Il loro futuro è incerto e insicuro, perché tra pochi mesi questi istituti saranno definitivamente chiusi.
Si aprirà così per le famiglie italiane – sia per quelle che godono già del dono di figli propri, sia per quelle che vivono la grande sofferenza della sterilità biologica – una grande opportunità per dilatare la loro fecondità attraverso l’adozione o l’affido temporaneo.
Se una famiglia si dimostra disponibile, non va lasciata sola. Deve avvertire intorno a sé una rete di solidarietà concreta, fatta non solo di complimenti ed esortazioni, ma di tante forme di aiuto e di solidarietà. E chi si rende disponibile per l’adozione o l’affido, deve sentirsi parte di un’avventura collettiva, in cui gli altri ci sono, vivi e presenti.
Risuonano perciò particolarmente suadenti in questo momento, per le famiglie e per la comunità, le parole di Gesù: "Chi accoglie questo fanciullo nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Poiché chi è il più piccolo tra tutti voi, questi è grande" (Lc 9,48).
Perché dunque non fidarsi della vita rispondendo ad una sfida che viene dagli eventi? Ne guadagnerebbero le famiglie nel vivere l’esaltante avventura di una fecondità coraggiosa che fa sperimentare che "vi è più gioia nel dare che nel ricevere" (At 20,35). Ne guadagnerebbero molti figli nel trovare finalmente l’affetto e il calore di una famiglia e la sicurezza di un futuro. Ne guadagnerebbe l’intera società nel mettere in evidenza segni convincenti che le farebbero prendere il largo nella civiltà dell’amore.
La vita vincerà ancora una volta? Osiamo sperarlo e per questo chiediamo a tutti una preghiera unita a un atto di amore accogliente e solidale".
Canto: Come Tu mi vuoi (CD – "Io scelgo te" – 2)
Dopo aver letto queste parole ci sono venuti in mente i nostri amici: Sergio ed Elisabetta che non si sono rassegnati al fatto che dopo 13 anni il sospirato figlio non venga e continuano a chiedersi cosa il Signore voglia da loro, Simona e Marco che non sono andati tanto per il sottile per averlo e hanno fatto ricorso più volte all’inseminazione artificiale, spendendo anche ciò che non avevano. Abbiamo pensato alle due creature nate dall’esperimento, gravemente malate, a cui è affidato il compito di riempire il vuoto affettivo dei loro genitori.
Abbiamo pensato a Tommaso, affetto da una rara malattia genetica, cuore di una famiglia unita nell’amore, a Luciano che da 55 anni dipende dalle cure di sua madre a cui continua a regalare sorrisi, a quel bimbo ucraino, rimasto nell’istituto, che Letizia e Lorenzo non se la sono sentiti di prendere, perché all’Adozione internazionale avevano precisato che lo volevano sano e che sano non era, alle due sorelline che stanno aspettando di essere date in affido alla coppia, qui in Italia, perché non è mai troppo tardi per cominciare ad amare; abbiamo ricordato il dramma di Elvira con una storia familiare disastrosa alle spalle, legata ad un tossico che non ce l’ha fatta a dire di sì al bimbo che portava nel seno, come non ce l’hanno fatta Mauro e Marcella, dopo sei mesi di attesa spensierata e serena, ad accettare che il bimbo che aspettavano, presentava qualche malformazione e hanno fatto ricorso, consigliati dai medici, all’aborto terapeutico.
Abbiamo aperto la Bibbia e ci è balzata davanti la figura di Abramo, l’uomo di Dio, il prototipo del credente, colui a cui il Signore ha dato tutto perché è stato disposto a tutto, anche a sacrificare sopra l’altare quell’unico figlio che Dio gli aveva concesso in tarda età e che voleva riprendersi
subito.
La storia della fede è la storia di tanti sì, quelli che hanno cambiato la storia, come il sì di Abramo e il sì di Maria, ma anche tutti quei piccoli sì che ogni giorno pronunciamo per portare cemento alla casa del Padre, i nostri sì ripetuti con fatica, con sofferenza, con rabbia, con rassegnazione, che confluiscono nell’oceano accogliente e generoso della misericordia di Dio.
Abbiamo istintivamente sentito il desiderio di pregare per quelli che non lo fanno, per quelli a cui tutto è dovuto, per quelli che non riescono a fare il salto, e non riescono a godere dei frutti della promessa.
Ci siamo uniti al coro dei bambini mai nati che insieme agli angeli celebrano la gloria di Dio e pregano per i loro genitori perché Dio allarghi loro le braccia e gli apra il cuore.
Poi ci è venuto in mente Giovanni, il nostro nipotino, a parere di molti nato troppo presto, perché i genitori potevano godersi un poco la vita, i primi anni di matrimonio, e non l’hanno fatto, il profeta che il Signore ci ha mandato a domicilio per istruirci delle cose che Lo riguardano e ci riguardano.
E un altro Giovanni ci è venuto alla mente, il bimbo nato a Monica e Alberto dopo 13 anni di matrimonio, frutto di un’attesa lunga ma serena in compagnia di Gesù.
Abbiamo sentito forte il desiderio di ringraziare, lodare e benedire il Signore per la vita che vediamo e per quella che cova nascosta nel grembo della natura, nel grembo della madre, per la vita di ogni uomo chiamato a mettere in circolazione l’amore.
Ecco, l’amore fa la differenza tra una storia di solitudine e di fallimento e una storia piena di occasioni per godere dei frutti della promessa. L’amore viene da Dio, l’amore è Dio, che ci chiama a contemplarlo nel nostro partner, con il quale costruire la civiltà dell’amore, la città di Dio.
.Lo Spirito Santo è lo strumento perché una storia di uomini diventi capolavoro di Dio. Solo invocandolo, accogliendolo, permettendogli di operare, gli sposi toccano con mano che la felicità consiste nel dare e non nel prendere, nel portare frutto, e non nel cogliere i frutti di un giardino che non abbiamo provveduto a coltivare con i doni dello Spirito, con l’amore gratuitamente donato perché l’altro abbia la vita.
Concludiamo con le parole con le quali il poeta libanese Khail Gibran ha celebrato l’amore:
Quando l’amore vi chiama, seguitelo, anche se ha vie ripide e dure. /
E quando dalle ali ne sarete avvolti, abbandonatevi a lui, anche se, chiusa tra le penne, la lama vi potrà ferire./
E quando vi parla, credete in lui, anche se la sua voce può disperdervi i sogni come il vento del nord devasta il giardino. /
Poichè, come l’amore v’incorona, così vi crocifigge, e come vi matura, così vi poterà../
Come sale sulla vostra cima e accarezza i rami che fremono più teneri nel sole, /
così discenderà alle vostre radici, e laggiù le scuoterà dove più forti aderiscono alla terra./
Vi accoglie in sé, covoni di grano./
Vi batte finché non sarete spogli. /
Vi straccia per liberarvi dalle reste./
Vi macina per farvi neve./
Vi plasma finche non siate cedevoli alle mani./
E vi consegna al suo sacro fuoco, perché voi siate il pane sacro alla mensa di Dio./
In voi tutto ciò compie l’amore, affinché conosciate il segreto del vostro cuore, e possiate farvi frammenti del cuore della vita. /
Ma se la vostra paura non cercherà nell’amore che la pace e il piacere, allora meglio sarà per voi coprire le vostre nudità e passare oltre l’aia dell’amore, /
nel mondo orfano di climi, dove riderete, ahimè, non tutto il vostro riso, e piangerete non tutto il vostro pianto./
L’amore non dà nulla se non se stesso. /
e non coglie nulla se non da se stesso ./
L’amore non possiede, né vorrebbe essere posseduto; /
poi che l’amore basta all’amore. /
Quando amate non dovreste dire, " Ho Dio nel cuore", ma piuttosto, " Io sono nel cuore di Dio".
E non crediate di condurre l’amore, giacché se vi scopre degni, esso vi conduce ./
L’amore non vuole che consumarsi. /
Ma se amate e bramerete senza scampo, siano questi i vostri desideri: /
sciogliersi, e imitare l’acqua corrente che canta il suo motivo alla notte. /
Conoscere la pena di tanta tenerezza /
Piagarsi in comprensione d’amore; /
e sanguinare di voluta gioia ./
Destarsi all’alba con un cuore alato e ringraziare un nuovo giorno d’amore; /
riposare nell’ora del meriggio e meditare l’estasiato amore; /
grati rincasare al vespro; /
e addormentarsi pregando per l’amato in cuore, con un canto di lode sulle labbra.
Canto: Cristo è risorto veramente (CD – "Risorto per amore" 1)
31 gennaio 2005