Il buon pastore dà la propria vita per le pecore.

DispersioniVANGELO (Gv 10,11-18)

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Parola del Signore

La quarta domenica di Pasqua ci presenta Gesù buon Pastore, immagine piena di significati profondi, se riusciamo a chiudere un attimo gli occhi su questa nostra civiltà tecnologica, dove i rapporti sono regolati solo dalle macchine.
Cosa può dire a noi un pastore che vive lontano dalle nostre mete abituali?
Dobbiamo trasferirci in quelle terre aride e sassose della Palestina, il luogo dove Gesù concretamente spese la sua vita, per capire quanto fosse vitale prendersi cura di un gregge, non destinato al macello, ma a dare latte e lana, quanto diventassero intimi il pastore e le sue pecore tanto da non aver paura di perderle o confonderle, dopo che, di notte, secondo l’usanza palestinese, venivano riunite in un solo recinto, perchè le conosceva una per una , le chiamava per nome ed era pronto a morire per loro..
Se potessimo cogliere il senso esatto del rapporto tra gregge e pastore, intuire la qualità della vita errabonda, vivere il legame profondo che il pastore costruisce con la natura, con i ritmi stagionali, con i cicli biologici, Il rapporto forte e privilegiato tra il pastore e le sue pecore, perché ne condivide integralmente la vita, la sete, il caldo, gli incubi delle fiere e dei razziatori, le notti gelide e i giorni infuocati, i lunghi itinerari e le soste snervanti, le parole di Gesù non ci lascerebbero indifferenti. Specie se pensiamo che il pastore spesso era costretto a curare il gregge di qualche capotribù o di qualche signorotto locale, ma che aveva personalmente un gregge di sua proprietà, magari solo un pugno di pecore, un piccolo gregge, il suo tesoro più caro e personale.
Il vincolo d’affetto, di appartenenza, di intimità, che intercorre tra il pastore e le sue pecore è lo stesso che lega Dio al suo popolo, Gesù ad ognuno di noi.
Se riuscissimo a vedere con quanta cura Dio si occupa di noi, sue creature, gregge del suo pascolo, a sentire la sua voce che ci chiama per nome, a capire che non può dimenticarsi di noi, (Può una madre dimenticare suo figlio? Quand’anche se ne dimenticasse io non me ne dimenticherei!dice il Signore) non saremmo mai presi dall’angoscia per le cose che ci capitano, per le storture del mondo in cui viviamo.
Gesù, buon pastore continua a chiamarci perchè ci vuole salvi tutti, al riparo dalle insidie, in un unico grande ovile la porta del quale non rimane mai chiusa.

Io sono il pane vivo, disceso dal cielo.

VANGELO (Gv 6,44-51)
In quel tempo, disse Gesù alla folla:
«Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno.
Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno istruiti da Dio”. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna.
Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia.
Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

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Pane e companatico

Leggendo il Vangelo, chissà perchè, mi è venuta in mente l’immagine dell’ostrica e del granello di sabbia che, inglobato, viene trasformato in una magnifica perla, mentre essa è destinata ad essere mangiata.

Forse perchè parlare di pane oggi che siamo tutti a dieta per i più svariati motivi non mi agevola.
La perla siamo noi, terra a cui il peccato ha spento la vita. Gesù è l’ostrica, brutta nell’involucro( le sue parole disturbano, destabilizzano, rimettono in discussione), ma buona e gustosa se hai la pazienza di aprirla.
Gesù ci rigenera, ci ridà vita( le perle muoiono se non sono indossate), ci rende capaci a nostra volta di diventare ostriche del suo vivaio per produrre altre perle.
Grazie Signore perchè ci parli attraverso le parabole della natura!
Grazie perchè ci apri gli occhi ai miracoli del tuo amore.
Gesù ci rigenera, ci ridà vita( le perle muoiono se non sono indossate), ci rende capaci a nostra volta di diventare ostriche del suo vivaio per produrre altre perle.
Grazie Signore perchè ci parli attraverso le parabole della natura! Grazie perchè ci apri gli occhi ai miracoli del tuo amore.

Motivi

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Giovanni 6,22-29 – Il giorno dopo, la folla, rimasta dall’altra parte del mare, notò che c’era una barca sola e che Gesù non era salito con i suoi discepoli sulla barca, ma soltanto i suoi discepoli erano partiti.
Altre barche erano giunte nel frattempo da Tiberiade, presso il luogo dove avevano mangiato il pane dopo che il Signore aveva reso grazie.
Quando dunque la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafarnao alla ricerca di Gesù. Trovatolo di là dal mare, gli dissero: “Rabbì, quando sei venuto qua?”.
Gesù rispose: “In verità, in verità vi dico, voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo”.
Gli dissero allora: “Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?”.
Gesù rispose: “Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato”.

I motivi che spingono la folla a cercare Gesù sono i più svariati, ma alla base c’è sempre il desiderio egoistico di ottenere da lui un beneficio tangibile.

Gesù ci invita a cercarlo non per quello che dà, ma per quello che è.

Le opere sono la naturale conseguenza della fede in Lui, fede che è dono di Dio, l’unico strumento per conoscerlo, amarlo e servirlo.

Il passo del vangelo di oggi mi fa riflettere  sul motivo per cui cerco le persone.

Se sento il desiderio d’incontrarle per quello che mi danno o per quello che sono.

Stette in mezzo a loro.

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Dal VANGELO secondo Luca (Lc 24,35 – 48)
In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane. Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni». Parola del Signore.
Emmaus è storia in corso: i discepoli che iniziano il cammino come mendicanti di senso, rompono il silenzio per aprire il dialogo.
Imparano a interpretare la propria vita e le proprie esperienze a partire dalle Scritture, mentre il Risorto illumina il loro cuore.
Fanno una sosta nelcammino per chiedere al Signore di rimanere con loro.
Nella sua misericordia Egli entra nel loro “spazio vitale” e rimane con loro.
Quello che succede dopo è pura comunione fraterna.
“Quando fu a tavola, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro.
Allora si aprirono loro  gli occhi e lo riconobbero” (Lc 24,30s).
In seguito ritornano dai loro compagni e fanno esperienza di condivisione, prima attraverso l’ascolto attento e stupito, poi, narrando la vittoria della vita sulla morte, manifestatasi definitivamente nella risurrezione diCristo.
Emmaus è metodo sempre praticabile e cammino sempre percorribile.
Come tutte le cose che contano, il metodo Emmaus è semplice ed essenziale.
Incontrarsi.
Riunirsi.
Parlare di ciò che è accaduto.
Condividere il Vangelo e rileggere la vita.
Pregare e lodare Dio per tutti i suoi doni.
Celebrare la comunione fraterna.
Tornare ai fratelli e sorelle del mondo intero con la bella notizia che ha trasformato le nostre vite.
“Davvero il Signore è risorto!”.
Dire che il Signore è  risorto non basta se la sua resurrezione rimane ancorata ad un  passato che non ci appartiene.
Che Cristo è vivo e presente in mezzo a noi, questo è ciò che dobbiamo sforzarci di annunciare facendo ogni giorno l’esperienza della Pentecoste.
Il Dio con noi, l’Emanuele ha tanti modi di manifestarsi, basta aprire le orecchie e la bocca per farlo passare.
Solo così nel cuore scende la PACE.

Misure anticrisi

VANGELO (Gv 6,1-15)
Gesù distribuì i pani a quelli che erano seduti, quanto ne volevano.
In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.
Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo».
Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini.
Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.
A chi dice che il Vangelo non serve a niente, mi piacerebbe sottoporre questo splendido brano dove c’è la chiave per non morire di fame.
Il dovere è quello di sedersi, per quanti si aspettano che qualcuno, il governo o chissàchi gli risolva il problema del pane quotidiano.
Sempre più spesso il nostro è un mangiare in piedi, di fretta, senza stare a guardare da dove ci viene e chi ce lo ha preparato.
Perciò vanno tanto di moda i fast food, i self service ecc ecc. Gli impegni ci chiamano e non possiamo perdere tempo. La sera, quando torniamo a casa, certo che ci sediamo davanti, però, all’immancabile televisore acceso.
“Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”, se lo chiede Gesù, facendo finta di non saperlo, ce lo chiediamo noi ogni giorno senza sapere che pesci pigliare se non quelli da gettare in faccia a chi ci governa o ci ha governato.
Intanto la fame aumenta e conviene assecondare il maestro. I discepoli sono abituati ai miracoli,ma a tutto c’è un limite e in quell’occasione erano cinquemila persone da sfamare.
Come oggi.
Una nazione intera, un intero continente, per quello che ci riguarda, deve essere sfamato.
Ma quando i problemi diventano troppo grandi, ci si spreme le meningi per trovare la soluzione.
Certo che Andrea, quando ha segnalato la presenza di un giovane con dei pesci e dei pani, pochi, troppo pochi in verità, sicuramente non sapeva come sarebbe andata a finire.
Ma Gesù li aveva abituati alle improvvisate.
Quel fateli sedere, mi ricorda tanto quei servi che alle nozze di Cana riempiono le giare di acqua e le portano al maestro di tavola perchè ne versi nei bicchieri.
Ci vuole fegato e faccia tosta per fare ciò che il Vangelo ci dice.
Ci viene raccontato che l’acqua fu mutata in vino e che 5000 persone furono sfamate tanto che ne avanzarono 12 canestri pieni.
Dovere di sedersi, non da soli, ma insieme ad altri che, come noi, hanno fame.
Dovere di ascoltare una voce alternativa al proprio inguaribile egoismo.
Dovere di condividere quel poco o quel tanto che si ha.
Dovere di non buttare nulla, evitando gli sprechi.
Dovere di mettersi a servizio dei più deboli.
“Fate tutto quello che Lui vi dirà”( Giovanni 2,5)
 

Il custode del giardino

Giovanni 20,1.11-18
Nel giorno dopo il sabato, Maria di Magdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro.
Maria stava all’esterno vicino al sepolcro e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: “Donna, perché piangi?”. Rispose loro: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto”.
Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”.
Gesù le disse: “Maria!”. Essa allora voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: “Rabbunì!”, che significa: Maestro! Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”.
Maria di Magdala andò subito ad annunziare ai discepoli: “Ho visto il Signore” e anche ciò che le aveva detto.
Non è un caso che Gesù si mostri per primo ad una donna, la Maddalena, una peccatrice su cui si è posato il suo sguardo misericordioso; non sembra strano che la donna lo cerchi in un cimitero, dentro al sepolcro di un passato che non ritorna.
Spesso ci accade che Gesù non lo troviamo perchè il lutto, la prova, ci fanno ripiegare su noi stessi, nel rimpianto di ciò che non c’è più e ci impediscono di guardare nella giusta direzione.
Gesù appare alla Maddalena, ma lei non lo riconosce. Come potrebbe pensare che sia proprio Lui, il custode del giardino?
Eppure in un giardino, quello dell’Eden, si è consumata la prima colpa, a causa di una donna è avvenuto lo strappo, la separazione dell’uomo dal Suo creatore e in un giardino si doveva ricomporre l’unità originaria.
Grande il peccato, grande l’amore di chi ha sentito lo sguardo dello Sposo posarsi sulle ferite di una vita lontana da Lui.
La donna pensa di non potersi più specchiare in quello sguardo, spento per sempre dalla morte. Per questo ne cerca il corpo senza vita: per portarselo via e non staccarsene mai più.
Magra consolazione per chi ha sentito quell’Amore,  più grande.
Le lacrime le offuscano la vista, e quando incontra Gesù, non lo riconosce.
Ma il Signore ha un arma speciale, che apre gli occhi e il cuore: la PAROLA.
“Maria!” “Rabbuni!”
La voce del Maestro è inconfondibile.
Travolta dall’emozione la donna lo abbraccia e vorrebbe fermare quell’attimo, all’infinito, ma Gesù non si lascia trattenere.
Non possiamo impossessarci di Dio. Dobbiamo continuare a cercarlo, come la sposa e lo sposo del Cantico dei Cantici.
L’amore è un rincorrersi, un nascondersi, un ritrovarsi per poi staccarsi di nuovo e mettersi di nuovo in cammino, per provare di nuovo la gioia dell’abbraccio, dopo una ricerca faticosa e a volte infruttuosa.
Gesù ci aspetta lì dove non ci aspettiamo di trovarlo. Apriamo il cuore alla meraviglia e allo stupore per la cosa nuova che trae dal suo cappello di giocoliere infaticabile e fantasioso.
Dio ha cura dei suoi figli e li ama tutti; ma allo spettacolo si divertono solo quelli che riescono a tornare bambini.
Lui, Dio dei vivi e non dei morti, ci invita nel giardino, che ci ha destinato e di cui continua a prendersi cura.
Ascoltiamo cosa ha da dirci.
Nella Scrittura c’è sempre una parola rivolta a noi, una parola che ci asciuga le lacrime e ci riempie il cuore di gioia.

Sabato Santo

 Oggi, sabato santo, le chiese sono sguarnite di fiori e di arredi. Un drappo viola copre le immagini sacre. Il tabernacolo aperto mostra la desolazione del furto assassino.
Dove cercare Gesù? Dove trovare conforto in quest’ora di cordoglio e di paura? Dio ci ha forse abbandonati, non fosse altro che per un giorno?
Mi è capitata davanti un icona con cui la Chiesa Orientale narra la storia della resurrezione.
Vi è raffigurato un Dio che scende, si abbassa ancora di più, per andare agli Inferi e liberare i prigionieri.
“Perché mi hai abbandonato?, dice Gesù sulla croce.
“Perché ci hai abbandonato?” diciamo noi oggi, vedendo il tabernacolo vuoto.
“ Perché ci hai lasciati soli a meditare sul dolore innocente e sulla distanza abissale che separa il cielo dalla terra, da questa nostra umanità fragile, indifesa e sofferente?”
Il tabernacolo è ancora vuoto, la porta aperta.
Gesù sta sperimentando la massima distanza dal Padre, nel regno dei morti, gli Inferi, per l’appunto.
Ho pensato alle nostre distanze, quelle che ci dividono dagli altri, quelle che spesso sentiamo separarci da Dio, volute e non volute, e mi è venuto in mente quello che facciamo per tenere unite le cose: una saldatura, un nodo, un filo intrecciato.
Ho pensato poi all’abbraccio che tiene unite le persone, l’abbraccio che significa:mi fido di te, perché ho il cuore scoperto.
Sulla croce l’uomo ha inchiodato l’abbraccio di Dio e Lui si è fatto inchiodare, perché dal suo cuore uscisse la linfa che tiene attaccata la terra al cielo, il Padre al Figlio, i figli al Padre, anche quando pensano di vivere nell’inferno.
Quella porta aperta del tabernacolo oggi, sabato santo, mi parla di braccia spalancate, di porte aperte, di Spirito Santo che continua a mandare la sua linfa vitale su tutta la Chiesa.
In attesa che la liturgia celebri l’ingresso nel tempo di Dio, l’ottavo giorno, voglio vivere questo momento come occasione di grazia, dove un tabernacolo vuoto mi parla di un invito a nozze dove lo Sposo sta preparando, per me e per tutti, una festa che non avrà mai fine.