In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
Parola del Signore
La quarta domenica di Pasqua ci presenta Gesù buon Pastore, immagine piena di significati profondi, se riusciamo a chiudere un attimo gli occhi su questa nostra civiltà tecnologica, dove i rapporti sono regolati solo dalle macchine.
Cosa può dire a noi un pastore che vive lontano dalle nostre mete abituali?
Dobbiamo trasferirci in quelle terre aride e sassose della Palestina, il luogo dove Gesù concretamente spese la sua vita, per capire quanto fosse vitale prendersi cura di un gregge, non destinato al macello, ma a dare latte e lana, quanto diventassero intimi il pastore e le sue pecore tanto da non aver paura di perderle o confonderle, dopo che, di notte, secondo l’usanza palestinese, venivano riunite in un solo recinto, perchè le conosceva una per una , le chiamava per nome ed era pronto a morire per loro..
Se potessimo cogliere il senso esatto del rapporto tra gregge e pastore, intuire la qualità della vita errabonda, vivere il legame profondo che il pastore costruisce con la natura, con i ritmi stagionali, con i cicli biologici, Il rapporto forte e privilegiato tra il pastore e le sue pecore, perché ne condivide integralmente la vita, la sete, il caldo, gli incubi delle fiere e dei razziatori, le notti gelide e i giorni infuocati, i lunghi itinerari e le soste snervanti, le parole di Gesù non ci lascerebbero indifferenti. Specie se pensiamo che il pastore spesso era costretto a curare il gregge di qualche capotribù o di qualche signorotto locale, ma che aveva personalmente un gregge di sua proprietà, magari solo un pugno di pecore, un piccolo gregge, il suo tesoro più caro e personale.
Il vincolo d’affetto, di appartenenza, di intimità, che intercorre tra il pastore e le sue pecore è lo stesso che lega Dio al suo popolo, Gesù ad ognuno di noi.
Se riuscissimo a vedere con quanta cura Dio si occupa di noi, sue creature, gregge del suo pascolo, a sentire la sua voce che ci chiama per nome, a capire che non può dimenticarsi di noi, (Può una madre dimenticare suo figlio? Quand’anche se ne dimenticasse io non me ne dimenticherei!dice il Signore) non saremmo mai presi dall’angoscia per le cose che ci capitano, per le storture del mondo in cui viviamo.
Gesù, buon pastore continua a chiamarci perchè ci vuole salvi tutti, al riparo dalle insidie, in un unico grande ovile la porta del quale non rimane mai chiusa.