Il vestito

Mentre mi recavo, lunedì scorso, nel gabinetto di fisioterapia e pensavo alla traccia della trasmissione, i coriandoli e le stelle filanti di cui i marciapiedi erano pieni, mi hanno fatto pensare al Carnevale.


Già il Carnevale mi sono detta. Ma ha ancora senso travestirsi, indossare una maschera? Si sente ancora l’esigenza di sconvolgere gli schemi e inventare nuove prigioni? Ho pensato che, almeno da parte mia, l’esigenza non c’era, perché le maschere le ho indossate per tutta la vita e con fatica me le sto togliendo di dosso, man mano che la Verità si fa strada e mi restituisce la libertà.

Anche Emanuele non ha voluto indossare la maschera che con tanto amore l’altra nonna gli ha confezionato. Una maschera da pagliaccio. Ha fatto l’Africa per non mettersela. Del resto a due anni e mezzo che può capire di maschere? Per lui è insensato indossare un vestito nel quale non si riconosce e si muove a fatica.

«Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli.”, dice Gesù.

I i bambini non si vergognano ad andare nudi e, specie se piccoli, non indossano volentieri abiti che gli impediscono di muoversi liberamente.

Da quando Adamo usò la foglia di fico per farsene uno, la prima maschera che si ricordi, l’uomo ne ha inventate di nuove e sempre più sofisticate, fino ad indossare la più subdola, quella che non si può togliere neanche quando sei solo. Il nudo contraffatto. Ebbene sì, oggi non è la foglia di fico che fa la differenza, ma un lifting, un tatuaggio, un piercing, una rimodellazione del naso, della bocca degli occhi, del seno, dei glutei, di tutto ciò che serve per dare agli altri un’immagine migliore di sé.

Giovanni, all’età di Emanuele, aveva con grande soddisfazione e gioia accolto il caldo vestito di lana che io gli avevo confezionato, con tanto di coda e di orecchie di pelliccia. Era un vestito da cane e, indossandolo, realizzava un suo sogno: quello di essere uguale a lui, sì da poterci parlare e dormire e mangiare insieme.
Ah se fossi un uccello! Disse quel signore che non credeva che Dio si fosse incarnato, quando si accorse che gli uccelli tramortiti al suolo, trovati davanti alla finestra di casa sua, la notte di Natale, non si lasciavano avvicinare, perchè avevano paura di lui. In quel momento aveva desiderato di essere uno di loro, come aveva fatto Gesù, quando aveva deciso di venirci a salvare.

I bambini capiscono subito la differenza tra l’una e l’altra cosa.

Giovanni, al matrimonio dello zio, colpito dalle inusuali e sfavillanti toilettes degli invitati, mi chiese se si erano travestiti tutti da matrimonio. Aveva poco più di tre anni.

Il primo travestimento lo troviamo proprio adottato da una coppia, la prima, che si coprì agli occhi dell’altro e di Dio per la vergogna di essere nudi.

Il peccato porta a coprire l’immagine di Dio, riflessa in ogni uomo, porta a travestirsi, a non accettare di essere quello che sei.

Poi Gesù è venuto a parlarci di vino nuovo in otri nuovi e di vestiti nuovi per persone nuove, rinnovate, rigenerate..

Il vestito nuovo l’abbiamo visto domenica, quando don Gino l’ha messo ai piccoli Federico ed Emma dopo il Battesimo.

È stato un caso provvidenziale che ci portassimo dietro Giovanni ed Emanuele, perchè pioveva e non erano potuti andare a festeggiare in piazza il Carnevale.

Così, almeno al grande, abbiamo potuto spiegare le ragioni di quel vestito, di quella candela, accesa dal papà al Cero pasquale, delle litanie ai santi, per invocare il loro aiuto nella lotta titanica contro il serpente, dell’olio spalmato simbolicamente sul collo del bimbo, per sfuggire alla presa del nemico, dell’applauso di tutta la chiesa, a cerimonia finita. 

 

Guaritori

Marco 9,14-29 .
In quel tempo, Gesù sceso dal monte e giunto presso i discepoli, li vide circondati da molta folla e da scribi che discutevano con loro.
Tutta la folla, al vederlo, fu presa da meraviglia e corse a salutarlo. Ed egli li interrogò: “Di che cosa discutete con loro?”. Gli rispose uno della folla: “Maestro, ho portato da te mio figlio, posseduto da uno spirito muto. Quando lo afferra, lo getta al suolo ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti”. Egli allora, in risposta, disse loro: “O generazione incredula! Fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo da me”. E glielo portarono.
Alla vista di Gesù lo spirito scosse con convulsioni il ragazzo ed egli, caduto a terra, si rotolava spumando. Gesù interrogò il padre: “Da quanto tempo gli accade questo?”. Ed egli rispose: “Dall’infanzia; anzi, spesso lo ha buttato persino nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo. Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci”. Gesù gli disse: “Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede”. Il padre del fanciullo rispose ad alta voce: “Credo, aiutami nella mia incredulità”.
Allora Gesù, vedendo accorrere la folla, minacciò lo spirito immondo dicendo: “Spirito muto e sordo, io te l’ordino, esci da lui e non vi rientrare più”. E gridando e scuotendolo fortemente, se ne uscì. E il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano: “È morto”. Ma Gesù, presolo per mano, lo sollevò ed egli si alzò in piedi.
Entrò poi in una casa e i discepoli gli chiesero in privato: “Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?”. Ed egli disse loro: “Questa specie di demoni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera”. 

 
Si direbbe che gli apostoli non hanno pregato, prima di intervenire, visto come sono andate le cose.

Il padre, invece, riesce a guarire il figlio attraverso la sua fede imperfetta, ma sincera.

Chi rende possibile il miracolo, infatti è lui che, dopo essersi rivolto alle persone sbagliate, verrebbe da dire, incontra Gesù.

Non lo conosce bene.

" Se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci!"gli dice.

Vuole credere che Gesù sia in grado di guarire il figlio più dei suoi discepoli.

Il miracolo scaturisce dalla consapevolezza del proprio limite.

"Credo.Aiutami nella mia incredulità!".

La fede, piccola come un granellino di senapa, si apre alla preghiera più autentica e vera che troviamo nel Vangelo.

E tocca il cuore di Dio.

La tenda

Marco 9,2-13 In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li portò sopra un monte alto, in un luogo appartato, loro soli. Si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè, che discorrevano con Gesù.
Prendendo allora la parola, Pietro disse a Gesù: “Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia!”. Non sapeva infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento.
Poi si formò una nube che li avvolse nell’ombra e uscì una voce dalla nube: “Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!”. E subito, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risuscitato dai morti. Ed essi tennero per sé la cosa, domandandosi però che cosa volesse dire risuscitare dai morti. E lo interrogarono: “Perché gli scribi dicono che prima deve venire Elia?”.
Egli rispose loro: “Sì, prima viene Elia e ristabilisce ogni cosa; ma come sta scritto del Figlio dell’uomo? Che deve soffrire molto ed essere disprezzato. Orbene, io vi dico che Elia è già venuto, ma hanno fatto di lui quello che hanno voluto, come sta scritto di lui”.

“Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!”.

La fede è ascolto,è credere che Dio continua a parlare all’uomo ancora oggi e a farci salire sul monte per essere trasfigurati e risplendere della sua luce.

Pietro voleva fare tre tende sul monte Tabor e rimanerci.

Una per Gesù, una per Mosè, una per Elia, perché non sapeva cosa dire ed era stato con gli altri preso dallo spavento.

Lo spavento viene dalla paura di ciò che non conosciamo, paura dell’imprevedibile incursione di Dio nella nostra storia.

Pietro, come noi, vuole assicurarrsi una vita senza incognite, rischi, bruschi cambiamenti di direzione.

Una vita lontana da ogni pericolo di fallimento, morte, dolore.

La paura condiziona le nostre scelte e ci impedisce di ascoltare la voce che viene dal cielo.

Di riconoscere che Dio è qui, ora, in ogni momento, situazione, incontro, relazione che stiamo vivendo.

E’ presente, come lo era nella nube, quando parlò a Mosè, ma anche quando parlò ad Abramo.

Dio è presente nel creato, come quando pronunciò il Fiat per dargli inizio.

Dio continua a dare vita al mondo, continua ad amare anche attraverso i segni contraddittori che appaiono ai nostri occhi.

Non c’è bisogno di piantare una tenda, per vederLo, ma di portarla arrotolata sopra le spalle.

Perchè possiamo piantarla ovunque un uomo abbia bisogno di un altro uomo che gli offra un riparo.

RISVEGLI

Che i bambini passino la maggior parte del loro tempo a dormire, appena nati, è risaputo, ma che poi le cose cambiano bisogna sperimentarlo.

Ecco perchè la bomboniera del primo, Giovanni nato nel 2002, ritrae un angelo che dorme, mentre quella di Emanuele, nato nel 2006,  non c’è bisogno che ve la spieghi.

Capire

Marco 8,14-21 -In quel tempo, i discepoli avevano dimenticato di prendere dei pani e non avevano con sé sulla barca che un pane solo. Allora Gesù li ammoniva dicendo: “Fate attenzione, guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode!”.
E quelli dicevano fra loro: “Non abbiamo pane”. Ma Gesù, accortosi di questo, disse loro: “Perché discutete che non avete pane? Non intendete e non capite ancora? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite? E non vi ricordate, quando ho spezzato i cinque pani per i cinquemila, quante ceste colme di pezzi avete portato via?”. Gli dissero: “Dodici”. “E quando ho spezzato i sette pani per i quattromila, quante sporte piene di pezzi avete portato via?”. Gli dissero: “Sette”. E disse loro: “Non capite ancora?”.

Gesù ci invita ad aprire le orecchie e gli occhi alla fede in Dio che opera nella nostra storia, ieri, oggi, sempre.

Ma la fede è frutto di una memoria, di un ricordo, di qualcosa che ci ha visti spettatori e partecipi del miracolo della moltiplicazione dei pani, della vita che non viene meno anche dopo 40 giorni di diluvio o 40 anni di deserto.

C’è un Dio che mantiene viva la speranza, se mantieni aperte le orecchie alla sua Parola e gli occhi allo stupore di un ramoscello d’ulivo portato nel becco da una colomba o dell’acqua che sgorga improvvisa dalla roccia.

 Segni di una presenza che risplende nel naufragio delle nostre certezze, nella vanità dei nostri lieviti farisaici.

Il segno.

Marco 8,11-13 – Perché questa generazione cerca un segno?
In quel tempo, vennero i farisei e incominciarono a discutere con Gesù, chiedendogli un segno dal cielo, per metterlo alla prova. Ma egli, con un profondo sospiro, disse: “Perché questa generazione chiede un segno? In verità vi dico: non sarà dato alcun segno a questa generazione”. E lasciatili, risalì sulla barca e si avviò all’altra sponda.

“ Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato.”

Così troviamo scritto nella Genesi.

I farisei chiedono un segno dal cielo per mettere alla prova Gesù.

Vale la pena interrogarsi per vedere se c’è differenza tra noi e i farisei, tra i contemporanei di Gesù e noi, che abbiamo avuto modo di conoscere anche il seguito della storia.

Ma noi continuiamo a chiedere segni dal cielo, interventi miracolistici che ci tolgano dal panne, che ci risolvano con la bacchetta magica i problemi da cui siamo afflitti.

Gesù dice che questa generazione non avrà alcun segno.

A ragione, se lo cerchiamo nel cielo, fuggendo dalla nostra vita reale, dalle persone che ci rendono complicata la vita.

Lui, il segno inequivocabile di un amore che non si misura, di un perdono che si estende anche ai peggiori assassini, ci ricorda che non c’è uomo, per quanto indegno, che non sia nel cuore di Dio.

Il segno, che cambia la storia e lo rende visibile al mondo, è l’amore gratuito donato ad ogni persona, su cui il Creatore ha posto il sigillo.

Lebbra

Marco 1,40-45 – La lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato.
In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato.
E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro».
Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.

“ Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò “

Nella vita di ogni credente c’è un prima, un tempo in cui la nostra identità, la nostra dignità dipendeva dall’osservanza di una legge imposta dal di fuori, una legge che ci rendeva schiavi della paura.

”L’inflessibile giudice delle nostre inadempienze” è venuto a tenderci la mano, a toccarci e a dirci:

“Non temere, sono io, sono qui. Sono stato dovunque sei andato.

Non ho avuto paura di te, della lebbra che ti impediva di riconoscermi in quei precetti che ti sembravano insensati e incomprensibili.

Sono venuto a toglierti la paura.

Ho lasciato il cielo e sono sceso.

Ho bussato alla tua porta come un mendicante e ho atteso che mi aprissi il tuo cuore.

Lo volevo riempire di tutto l’amore che da sempre io nutro per te.

Non potevo vederti ridotto così.

Tu, mio figlio.

Ho avuto compassione della tua infermità e mi sono spostato, perchè tu potessi capire quanto vali per me.

Da oggi in poi sei una creatura nuova.

L’unica lebbra di cui dovrai avere paura è quella che ti porta a vivere con vergogna la tua inadeguatezza.

Non escluderti, per paura del giudizio, dalla possibilità di lasciarti guardare e curare da me.

Le regole, i precetti  che tanto ti pesavano, si trasformeranno, come per incanto, in libertà per accogliere e vivere l’Amore che salva.

Risveglio

Oggi è la festa degli innamorati.
Me l’hanno ricordato queste primule al risveglio.
Voglio ringraziare il Signore per i regali che continua a farmi, attraverso lo sposo che mi ha messo a fianco, 38 anni fa.
Voglio benedirlo oggi e sempre per la gioia e il dolore, la salute e la malattia abitati, sempre più consapevolmente, da Lui.

Morte e vita

Risolvere i problemi era sempre stato il mio passatempo preferito, cosa che tuttora mi piace fare, anche se quelli di oggi sono di tutt’altro tipo.Ma un incidente di percorso, oggi la chiamerei “ dioincidenza” mi ha indotta a cambiare idea dopo la maturità.
Certo é che feci un clamoroso fiasco nelle materie scientifiche, dove avevo puntato tutto, mentre fui insolitamente brillante in quelle letterarie.
Grande fu la meraviglia nello scoprire che al compito d’italiano avevo avuto il massimo voto. Com’era potuto succedere? Avevo sempre penato per guadagnarmi il misero sei, dovuto più alla correttezza della forma che alla ricchezza dei contenuti.


Riemerge, affondato nel profondo della memoria il titolo di quel compito risultato perfetto: “La contemplazione del dolore in Manzoni e Leopardi”. L’ateo e il credente di fronte al mistero della sofferenza.
La traccia del un tema mi portò a riflettere, non solo il tempo assegnato per lo svolgimento del compito in classe, ma tutto il tempo della mia vita, in cui il dolore, è e continua ad essere il mio scomodo compagno di viaggio.
Ma la svolta, il senso della sofferenza non lo trovai fino a quando rimasi ripiegata in me stessa.
Poi conobbi Daniela.


Era il 1996 e la mia fiducia la riponevo ancora tanto negli uomini e nei loro rimedi.
Il suo terzo bambino, affetto da una rara e terribile malattia genetica, si era ammalato ancora. Questa volta era stato il cervello a farne le spese, attaccato da un carcinoma.
L’avevo immaginata con il volto scavato, prostrata dal peso di una croce così pesante.
Appena la vidi, capii subito che l’esperienza del dolore le aveva dato una forza non comune per se e per gli altri.
La paura di non trovare le parole per parlarle dei miei problemi, poca cosa di fronte a ciò che le era capitato, svanì di fronte alla sua capacità di mettersi in comunicazione con la sofferenza altrui.
Daniela mi mostrò il volto misericordioso di Dio attraverso l’amore che passava per lei, per le sue mani, per il suo cuore, quell’amore che veniva alimentato dal suo rapporto fiducioso con Dio e con il suo piccolo angelo malato che le dava la vita.
Quando mi disse, dopo soli pochi mesi di terapia, che aspettava un bambino, mi disperai. Sotto le sue piccole e agili mani il mio corpo aveva ricominciato a vivere.La sua carica d’amore mi aveva aperto il cuore alla speranza.Come avrei fatto senza di lei?.
Subito mi vergognai di aver egoisticamente pensato a me più che a lei. L’aspettava una gravidanza a rischio, quando era ancora alle prese con la terribile esperienza dell’ultimo nato.
Come potevo illudermi che potesse continuare ad occuparsi di me? A torto pensai che non l’avrei più rivista.
“Mi dica dove ha studiato; quand’anche fosse la luna ci andrò.”Dissi.

La luna, quella che aveva incantato Giovani in un pomeriggio che non sembrava mai finire, la luna, il luogo dei sogni irrealizzati e irrealizzabili, lontana quanto basta per non deluderti, se ti venisse la voglia di farci un viaggio, trascorrervi una vacanza.
Senza acqua, né aria, sicuramente ti passerebbe la voglia di andare così lontano, per trovare ciò che hai vicino, a portata di mano e non te ne accorgi.
La luna era Champoluc, dove la dottoressa inventrice del metodo applicato da Daniela si trasferiva l’estate con tutto il suo staff, ma a differenza di questa, non bisognava prendere un’astronave, per arrivarci, e di aria e di acqua ne aveva d’avanzo per dare vita ad un paesaggio da mozzafiato con il massiccio del Monte Rosa che si stagliava alle spalle e i boschi e i torrenti e il sole che faceva brillare la neve sulla cima del grande ghiacciaio e le case immerse nei fiori e tutto quanto neanche la fantasia riesce ad inventare.
Poi l’albergo di lusso, i terapisti, la dottoressa impeccabile con il suo camice bianco e i malati…
Già i malati erano l’unica cosa stonata in quella cornice di sogno.
Erano quasi tutti bambini e ragazzi gli ospiti dell’albergo, affittato per l’occasione dall’equipe del Centro di ascolto,qualche mamma, qualche nonna e…molte badanti.
Erano i figli dei ricchi che se lo potevano permettere di parcheggiarli in quel luogo per andare finalmente in vacanza.
Il dolore innocente, quello incontrai in quel luogo, la luna che, come quella che si staglia nel cielo, ha il suo rovescio, se poco poco ti ci avvicini.
I malati, i grandi malati li avevo incontrati negli ospedali, ma i bambini no, mai… anzi sì, ora ricordo, il primo anno che insegnai a Francavilla in un Istituto di poliomelitici.
Allora non avevo strumenti per vedere, i loro occhi tristi, i loro stanchi sorrisi.
Non mi parlarono le loro stampelle, né la disarmonia dei loro corpi straziati.Non mi accorsi che non c’erano madri, né nonne, né badanti che li accudissero, che erano stati affidati alla carità e alla pietà dello stato che non sapeva o poteva fare di meglio che lasciarli chiusi là dentro.
Trent’anni dopo mi trovai a soffrire con loro e per loro, quelli che la società accantona e nasconde, per la prima volta affondando i miei occhi nei loro, cercando di carpirne il sorriso con una stretta più forte della mano, con il tocco leggero delle dita ad imitare una carezza, con l’incapacità di andare oltre per paura di perdermi.

Il Tempo è nelle nostre mani nella misura in cui l’infinito è nei nostri cuori
A Champoluc (dove mi accorsi che i veri malati, i grandi malati non s’incontrano per le strade del mondo, non frequentano salotti perbene, non fanno bella mostra di se nelle vetrine di lusso), senza capirle al momento, me l’ero appuntate su un foglio quelle poche parole che avrebbero cambiato il mio correre in fretta, correre sempre senza mai fermarsi un momento.
La madre di un bimbo piccolo piccolo (…un mucchio di ossa scomposte in un corpo di cera…due occhi indifesi, ma il viso disteso, sereno di una dolcezza struggente nel languore di chi si abbandona fiducioso all’abbraccio) …quella donna così rispondeva alla mia stizza per il tempo che mi sfuggiva di mano.
Da allora, per paura di dimenticarle. ogni anno trascrivo nella prima pagina dell’agenda queste parole.

Quando diagnosticarono a mio fratello 6 mesi di vita, mi sembrò troppo poco il tempo assegnato, mi sembrò un’ingiustizia e ce la misi tutta per procrastinare la sentenza ,
Finalmente era giunto il momento di sfoderare la scienza acquisita in anni di sofferenza sperimentata e vissuta ogni giorno, ogni momento nel corpo e nell’anima sempre più grande, sempre più incomprensibile perché priva di senso, quel senso che da anni andavo cercando senza mai trovare risposta.
Finalmente era venuto il momento di mettere a frutto l’esperienza acquisita in anni di solitudine amara e sofferta.
Avevo finalmente trovato il senso a quell’andare infinito e continuo su per la cima della montagna da dove ogni volta precipitavo, schiacciata dal masso che mi trascinavo a fatica da sempre.
Il mio tempo da allora fu tutto impiegato a cercare rimedi più o meno efficaci a ciò che niente e nessuno avrebbe potuto cambiare..
Ma quando ogni speranza annegò nell’inutilità di qualsiasi intervento terapeutico tradizionale o alternativo, scoprii che c’era ancora qualcosa da dargli, ancora qualcosa a cui non avevo ancora pensato, ma che non dovevo più cercare fuori, non aspettarmi dagli altri, ma prendere dentro di me e donare senza aspettare il ricambio.
Fu nella scoperta di un amore donato gratuitamente che si consumarono, ahimè troppo in fretta, i suoi pochi giorni rimasti.
Ma quel seme buttato ha dato i suoi frutti.
Se sono qui  è grazie a quella sofferenza inaccettabile di cui mi sono fatta carico.

Il 5 gennaio del 2000, a distanza di pochi mesi dalla sua morte, spinsi piano le porte della chiesa, che mi ha accolta e si è presa cura di me. Chinandosi sulle mie ferite, versandovi l’olio della sua tenerezza, l’olio del suo amore, caricandomi sulle sue spalle, mi ha ristorato con il Pane e con la Parola di Dio. Assaporata la gioia di quell’amore mi sono chiesta come avrei potuto ricambiare la salvezza che mi è stata donata.


Guarita dalla mia solitudine egoista, mi sono proposta di tornare per le strade del mondo a guarire le ferite del mondo. Mi sarei anche io fermata accanto a tutti i malcapitati della vita per assisterli e dire loro che c’è sempre un Amore vicino a chi soffre, a chi è solo, a chi è disprezzato.

GRAZIE!

Quando si butta un oggetto? Quando non serve più. Quando non funziona.
E’ buona norma ricorrere alla casa produttrice o al concessionario, prima di disfarsene.
Sarebbe assurdo non consultarlo, tanto più quando potrebbe darsi che il cattivo funzionamento non deriva dal difetto della macchina, ma dalla nostra imperizia e/o ignoranza.
A Loreto, durante il Seminario di Vita Nuova per coppie, un sacerdote disse, sollevando sulla mia testa la teca, che conteneva la Sacra Particola
" Questa donna è guarita anche nel corpo!".
Avevano pregato in tanti su di me, non perchè l’avessi chiesto, ma perchè il mio handicap era visibile a tutti.
Ricordo che, il giorno prima, avevo sentito forte un’impulso irrefrenabile di inginocchiarmi.
Non l’avevo mai fatto,dal giorno della mia conversione, nella convinzione che le ginocchia non avrebbero retto il peso del corpo.
Dalle suore, quando frequentavo il loro istituto,16 anni consecutivi, tante volte era successo, senza mai chiedermi il senso di quella genuflessione.
Quando entravo in chiesa, quando passava il Santissimo, quando incrociavo un funerale.
Nei giorni succesivi a quell’evento, nulla cambiò, ad eccezione di una speranza che si era riaccesa nel mio cuore di uscire dall’incubo di una malattia che durava ormai da trent’anni e dalla quale non pensavo si potesse guarire.
Passarono i giorni e i mesi e gli anni.
Era il 2004, quando accadde.
I problemi di salute sono via via aumentati, ma ho smesso di cercare nei rimedi umani ciò che solo Dio può concedermi.
Agli " amici", che mi chiedono come va, rispondo
 che sto vivendo consapevolmente la straordinaria avventura di una crisalide che, pur se è stremata per lo sforzo che implica aprirsi un varco nel bozzolo, sa che quello è l’unico mezzo che le consentirà di volare.
Ma il senso delle parole di quel sacerdote non ho mai smesso di cercarlo.
In cosa consiste la guarigione di un corpo? Quando torna a funzionare?
Ricordo che in quella settimana tutte le catechesi erano volte a farci riflettere sul mistero dell’incarnazione.
Dio ha assunto un corpo per comunicarci l’amore. Dio ha dato ad ognuno di noi un corpo perchè assolvesse alla stessa funzione.
Chi stabilisce se un corpo assolve alla sua funzione?
Solo il costruttore, il progettista può dirci se è giunto il momernto di staccare la spina.
Il caso di Eluana e tutto ciò che si è mosso intorno a lei mi ha finalmente fatto capire in cosa consiste la guarigione di un corpo.
Quando pieghi le ginocchia davanti al Costruttore e accetti di servire a ciò per cui sei stato creato. 

Ecco perchè persone come Eluana devono continuare a vivere.