17 Famiglia oggi:riflessioni di coppia

  Rubrica radiofonica a cura di Gianni e Antonietta

Canto: Dio ha tanto amato il mondo (CD – “Risorto per amore” 10)

Benvenuti, cari amici all’ascolto di questa trasmissione. Dagli studi di Radio Speranza vi salutano Gianni e Antonietta
La volta scorsa per motivi di lavoro non ho potuto essere presente e a dire il vero la mattina, quando Antonietta mi ha salutato, un po’ l’ ho invidiata e avrei voluto tanto non avere impegni, per essere al suo fianco e non mancare all’appuntamento con voi. L’argomento l’avevamo concordato insieme, anche se lei si è preoccupata di sviluppare le riflessioni che avevamo fatto a proposito della nostra difficoltà a vivere il noi, dello sforzo continuo per non mollare, cercando di non mancare mai all’appuntamento della preghiera comune, perché se gli altri li saltiamo senza grossi complessi di colpa, l’appuntamento con il Padreterno ci sembra un sacrilegio non rispettarlo. A dire il vero, sono io che tendo a sottovalutare l’importanza di accordarci prima di metterci di fronte al Signore, pensando che lo Spirito Santo invocato basti a coprire la nostra pigrizia, la nostra difficoltà a metterci a nudo. Ma, come diceva giustamente Antonietta la volta scorsa, perché la corrente passi e le lampadine si accendano, bisogna che tutti i fili siano ben collegati tra loro, altrimenti si rischia un corto circuito.
Non avevamo quindi smesso di chiedere al Signore che riuscissimo a eliminare le distanze che ci separavano, prendendo esempio da Lui che ci ha mostrato come si fa, non quando si è fatto adorare in una mangiatoia collocata in una stalla, ma quando ha deposto le vesti e ha indossato il grembiule, per lavarci i piedi, che presuppone uno stare più vicini di quanto siamo in grado di sopportare.

Così la preghiera ha sortito l’effetto voluto perché, mentre io da questi microfoni, chiedevo al Signore l’umiltà e la perseveranza per poterlo imitare in ciò che istintivamente non siamo portati a fare, Gianni concretamente era stato chiamato a vivere quelle parole in una situazione di degrado psichico e fisico che vedeva protagonista una persona a noi molto vicina, emarginata da tutti, perché si comporta come un barbone.Ho ringraziato il Signore perché Gianni, pur privilegiando il silenzio, non si tira indietro di fronte alle necessità di chi soffre, anche se non si lava, l’ ho benedetto perché ha portato anche me, che avevo la “puzza sotto il naso” come si suol dire dalle nostre parti, a soprassedere e ad essergli a fianco, quando è necessario sporcarsi, per sollevare da terra chi rischia di rimanerci.
In questo tempo di Quaresima le beatitudini sono i valori a cui si deve uniformare ogni nostra volontà di cambiamento, ogni conversione che abbia come principio e fondamento Gesù, figlio di Dio, morto e risorto per noi. “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” non è l’ultima delle beatitudini. come giustamente nota san Gregorio Nazianzeno che invita a servire Cristo nei poveri. Gesù non ha avuto paura di sporcarsi, quando si è immerso nel nostro mondo impregnato di peccato, decidendo di nascere in una stalla ed essere deposto in una mangiatoia, riscaldato dal fiato di un bue e di un asino, mentre gente senza fissa dimora, vale a dire i pastori, andavano ad adorarlo. Quanto cattivo odore intorno a Gesù, il figlio di Dio fatto uomo! ma quale messaggio d’amore ci ha trasmesso attraverso quelle che sono state le sue preferenze!
Noi viviamo di pregiudizi e siamo bravi a parlare, ma non a fare, a meno che la gente in questione mantenga le debite distanze.
Luciana, incontrata all’inizio di questo cammino, è stata la battistrada su questa via che ci ha portato a concepire la carità non come un gesto grandioso ed emblematico, fatto una volta per tutte, ma un insieme di piccoli gesti ripetuti ogni giorno nei riguardi di chi il Signore ci metteva di fronte. Quando l’ho incontrata la prima volta, non abbiamo avuto bisogno di presentarci, perché è bastato guardarci negli occhi e riconoscerci, sorelle di latte nutrite alla stessa sorgente. Mi colpì il fatto che lei pregava per gente che non conosceva, che accoglieva nella sua casa senzatetto ed emarginati, che si adoperava a che quelli che vivono ai margini della nostra società opulenta avessero di che mangiare e nutrirsi, privandosi spesso del necessario per darlo a loro. Quando, in occasione di una vendita di beneficenza, mi chiese qualcosa da offrire, io non mi tirai indietro, ma misi una condizione: che quello che le davo non lo vendesse ad un prezzo inferiore al suo valore. La sua risposta mi disarmò, quando mi fece notare che anche se per la mia roba avessero dato pochi spiccioli, erano quelli che probabilmente servivano per aiutare una povera famiglia di sfrattati a pagarsi l’affitto.
Fino a quel momento la carità che conoscevo era quella che non mi scomodava, neanche per andare a fare un vaglia alla posta, con la scusa che non potevo stare in piedi, quella che era garantita dalla riconoscenza di chi aveva effettivamente bisogno, quando i bisogni degli altri li misuravo sui miei, quando la carità non nasceva dalla rinuncia e dal sacrificio..
”Non sappia la tua sinistra cosa fa la tua destra”, parole difficili da digerire, da metabolizzare, e invece è accaduto, perché la carità è contagiosa, e la gioia di chi dona senza aspettarsi il ricambio è la molla che ti spinge a provare di fare altrettanto.
Ne fu contagiato anche Gianni sì che, se non riuscivamo ad andare d’accordo per tante cose, lo trovavamo l’accordo subito, quando si trattava di andare incontro ai bisogni di fratelli più sfortunati, mettendo a disposizione quel poco o quel tanto che, a seconda dei casi, eravamo in grado di offrire.
Man mano ci siamo resi conto che il tempo, il bene più prezioso che il Signore ci ha dato, era quello che dovevamo essere disposti a donare agli altri, senza avarizia, quello sottratto al riposo, allo svago, a volte anche al lavoro, per regalare un sorriso, per portare un po’ di luce nel buio di tante situazioni drammatiche.
Man mano che aumenta la consapevolezza dei nostri limiti, dell’incapacità ad andare incontro alle esigenze di tutti, aumenta la nostra fiducia nel Signore che siamo certi è più bravo di noi a risolvere le situazioni, come fece quando moltiplicò i pani e i pesci perché ebbe compassione della folla che lo seguiva. La compassione è un sentimento che ci siamo dimenticati o non abbiamo mai conosciuto, è un sentimento divino, è il sentimento che Dio ha provato quando ha deciso di mettersi nei nostri panni e traslocare nel nostro mondo, abolendo le distanze che ci dividevano da Lui.

Mentre eravamo tutti presi a riflettere su come eravamo e come siamo, non senza un certo compiacimento,ci è capitato sotto gli occhi l’ articolo di Riccardo Orioles dal titolo “Tsunami quotidiano” sulla copertina di “Qualevita”, rivista a cui siamo abbonati che vi vogliamo leggere.
Mettiamo che – dopo lo tsunami – se ne sia salvato uno, anzi più d’uno, una barca intera, pescatori. Mettiamo che questa barca, sola, con pochi viveri, senza bussola, senza radio, abbia girovagato alla cieca per l’oceano, con un pesce ogni tanto, bevendo acqua piovana.
Mettiamo che siano sfuggiti alle ricerche, via via sempre più fiacche (navi ed elicotteri dovevano tornare ai loro compiti ordinari).
Mettiamo che nel frattempo, mentre essi navigavano, il loro paese d’origine sia passato progressivamente dalla prima pagina a quelle interne, dai titoli a nove colonne ai dibattiti pacati. Mettiamo che nel frattempo la tv abbia avuto il tempo per ricominciare ad occuparsi regolarmente, (cioè per tutto il tempo) di politica, di campionato di calcio, di Bruno Vespa e di veline.
Mettiamo che dopo un periodo lungo ma ragionevole – il diluvio infine durò quaranta giorni – essi siano riusciti ancora, benché isolati dal mondo, a mantenersi vivi. Che abbiano attraversato oceani, circumnavigato afriche, traversato stretti. E che alla fine, all’alba di una mattina come tante altre, uno di essi – il vecchio a prua, quello che li ha guidati, quello che incredibilmente non ha mai perduto la fede – improvvisamente si scuota, e gracchi la parola stentata che nella loro lingua significa “Isola! Un’isola là all’orizzonte”. E che l’isola sia là davvero, e sia italiana, e sia Pantelleria.
I sopravvissuti allo tsunami la guardano come non hanno guardato mai nessuno.
Bevono l’ultima acqua, e si buttano sui remi. E in quel preciso momento una motovedetta armata si appresta (Allarme clandestini!) a salpare da qualche base. E una nuova camerata viene apprestata in qualche vecchio lager. E un nuovo articolo contro l’immigrazione clandestina viene frettolosamente vergato in qualche giornale.
Tutto questo è per loro, poiché la tecnologia è efficiente e veloce, e già da qualche ora un radar li seguiva. Ma essi, che non lo sanno, fanno forza sui remi.
Peccato che siano giunti così tardi. Se fossero arrivati prima, ci saremmo commossi anche per loro.

Canto: Mio rifugio sei tu (CD – “Ad una voce” 8)

La rivista Qualevita ci è stata recapitata, guarda caso, insieme agli auguri di Natale, di Dominicus, il seminarista indonesiano, che abbiamo deciso di aiutare.Ci eravamo dimenticati di Dominicus quest’anno e ci voleva la l‘articolo per ricordarci che in Indonesia c’è stato lo tsunami.
Chissà se Dominicus è ancora vivo! Quando ha scritto gli auguri sicuramente lo era. E dire che ci sentivamo la coscienza a posto, dopo aver con la carta di credito mandato una bella sommetta a chi di dovere, per finanziare gli aiuti..
Dominicus, significa del Signore, è creatura che nel nome dichiara la sua appartenenza. Spesso, noi cristiani ce ne dimentichiamo e non pensiamo a chi apparteniamo, anzi ci dà fastidio pensare che possa succedere, ma ci arrabbiamo se non ci appartiene ciò che pensiamo sia nostro, solo ed esclusivamente nostro, che non siamo disposti a cedere a chicchessia, fatta eccezione per le grandi occasioni in cui ci sentiamo bravi a mandare un sms o qualcosina di più, a patto che non intacchi o non leda le nostre sicurezze future.
Tutto ciò che non ci serve non ci appartiene. Qualcuno l’ ha detto.Quante cose abbiamo ammassate che non ci servono, ma che ci guardiamo bene dal mettere in comune, dal darlo in uso, perchè si rovina e poi non si sa mai cosa può succedere.”Guardate i gigli dei campi, guardate gli uccelli del cielo, non seminano e non mietono, …” sembrano le parole di un visionario eppure quante volte abbiamo sperimentato come un gruzzolo faticosamente e gelosamente custodito non è servito a liberarci dall’angoscia di un lutto, dalla sofferenza di una malattia.
Quando ci è arrivata la lettera di padre Dino che ha provveduto a tradurci le parole di Dominicus, ci siamo chiesti chissà com’è cambiata la vita da quelle parti, se lo tsunami l’ha cambiata anche a noi, se siamo gli stessi dell’anno scorso, quando ci preparavamo al Natale.
Se le immagini che scorrono sul teleschermo avessero il potere di sporcarci di terra, di tingerci con il sangue di tante vittime che abbiamo visto morire insieme alle speranze dei pochi sopravvissuti, potremmo rispondere di sì.
Ci ha colpito il commento, che del Vangelo della quarta domenica di Quaresima abbiamo sentito fare da un sacerdote, che parlava da questa emittente, a proposito della guarigione del cieco nato.
Sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: “Va’ a lavarti nella piscina di Siloe” parole che ci interpellano proprio su quello sporcarsi di Gesù che per guarire il cieco nato prende della terra e l’impasta con la saliva per metterla sugli occhi del malato che cerca la guarigione. Ma che Dio è questo, che per toglierti un problema te ne aggiunge un altro e che per farti riacquistare la vista ti sporca gli occhi?
Ma proprio quel gesto porta il cieco a desiderare di lavarsi, a fare sua la volontà di Gesù
La fede passa attraverso un contatto fisico con il Signore che vive in ogni fratello che incontriamo sulla nostra strada e presuppone la nostra docilità a sporcarci e ad essere sporcati, toccare ed essere toccati.
La scorsa volta riflettevamo sulla distanza che separa gli uomini e in particolare i cristiani che hanno tanta difficoltà a condividere lo spazio e le comodità di cui godono, con chi è più sfortunato di loro.
Abbiamo pensato ai nostri amici di Milano che hanno cominciato con il cercare qualcosa che desse un senso alle loro giornate e li occupasse, una volta andati in pensione. A lui che da semplice osservatore è passato ad essere utilizzato a tempo pieno nella Croce verde, senza ferie e feste comandate che si rispettino, perché la sofferenza e il dolore non vanno in vacanza, e Gesù i malati per guarirli privilegiava il sabato, abbiamo pensato sorridendo a lei che a Natale si è rifiutata di portare i panettoni a domicilio nelle case di chi non conosceva e che, tempo tre mesi, esce di casa ogni giorno, per incontrare gli extracomunitari e insegnargli come si parla.
Abbiamo ripensato a quella passeggiata di fine agosto, quando, bighellonando tra le bancarelle di un mercatino, verso il tramonto, ci siamo imbattuti in Luciana che dalla mattina stava in piedi a vendere le cianfrusaglie, di cui volentieri anche noi ci eravamo liberati, perché ci fosse uno squarcio di luce anche per chi è abituato a vivere al buio.
Abbiamo ripercorso il sentimento che ci ha portato a guardare con altri occhi chi sta dietro un banchetto, per guadagnarsi la vita o strapparne un poco per gli altri, che tutto ciò comporta sacrificio e fatica, che il contrattare, specie per ciò che è destinato alla beneficenza è peccato mortale, che alla sera i banchetti bisogna che ci sia uno che se li carichi sopra le spalle o su un furgone e che la roba rimasta va incartata e messa per bene in ordine, da parte, perché la prossima volta non ci si impazzisca anche solo a cercarle le cose.

Ho ripensato a quando, da piccola, vedevo togliere i bottoni alle cose da regalare, ma la guerra aveva lasciato il segno e non ci potevamo permettere di buttare nulla che potesse servire.
Abbiamo ringraziato il Signore per le tante storie nelle quali ci hanno permesso di entrare i protagonisti, abbiamo ricordato quanto ci ha regalato il batticuore di Monica che abbiamo accompagnato a Roma ad incontrare il marito, sposato da meno di un anno, che si era fatto tre giorni di pullman, senza dormire per riabbracciarla, dalla Bulgaria, il sorriso sdentato di Ovidio e la puzza sui suoi vestiti di chissà quanti pacchetti di sigarette, fumate durante il tragitto, la tenerezza e il pudore dell’abbraccio dei due giovani, quando si sono rivisti. E che dire della solidarietà che si è accesa intorno al pancione della piccola albanese che era rimasta all’agghiaccio e che rischiava di abortire in pieno inverno, se il passa parola delle piccole e silenziose formiche, la sera di un sabato, quando le mense e gli uffici delegati a questo scopo erano chiusi, non avessero provveduto a recapitarle nel giro di poche ore l’occorrente per non morire?
Ci siamo chiesti dove avevamo la testa, in che mondo vivevamo, quando ci sentivamo a posto con la coscienza, dopo aver largheggiato nel fare l’elemosina al disgraziato che suole sostare davanti alla chiesa o al lavavetri, che con quei soldi volevamo levarci di torno.
E pensare che quando mi dissero se potevo dare una mano ad impacchettare i doni per i bambini poveri in occasione della Befana non mi posi il problema che era necessario portarsi le forbici e il nastro adesivo e lo spago e la carta per impacchettarli i regali. Un’altra occasione per toccare con mano come la carità sia frutto di un insieme di piccoli gesti, di fatica, di sacrificio, ma soprattutto di amore.

Ma accanto a questi ricordi sono emersi quelli legati ai volti di chi non ci ispira simpatia, di chi non lo merita, degli scorbutici, di quelli che non ci fanno pietà ma solo rabbia,perché potrebbero darsi una smossa, come si dice dalle nostre parti, e prendere per i capelli la propria vita invece di buttarla e di lamentarsi aspettando che qualcuno venga a salvarli.
Abbiamo pensato che il difficile sta proprio lì, dove la compassione fa fatica a farsi largo e non ti fa aprire il cuore, a causa di un giudizio che ne tiene chiuse le porte.
Il Signore ci invita, in Quaresima, a fare silenzio, a far penitenza, a prendere coscienza dei nostri peccati e ad ascoltare cosa dobbiamo fare per trovare la gioia.
Ascolta Israele, se tu mi ascoltassi!” sono le parole che percorrono tutta la Bibbia. E il comandamento che unisce il Vecchio e il Nuovo Testamento è l’amore.
La fede è entrare in questo mistero, nel mistero di un Dio che per amore si è sporcato e vuole sporcarci, per farci vivere l’esperienza esaltante di trovare la gioia in ogni fratello che soffre, perché è lì che Lui si nasconde, è lì che Lui vuole incontrarci, una volta che, alla piscina di Siloe, siamo andati a lavarci.
La capacità di amare nasce dall’incontro con il Maestro, dalla docilità con cui seguiamo la sua parola, dal desiderio di non tenere per noi ciò che gratuitamente ci è stato donato.
Come si fa, c’è da chiedersi, ad imporre ad un uomo di amare? Se non c’è attrazione, come può nascere l’amore? Come può perpetuarsi se l’altro cessa di essere amabile? La risposta l’abbiamo sentita alla radio la scorsa mattina, da don Paolo Curta che, commentando il Vangelo del giorno, ci ha invitati a lasciarci amare da Dio con tutta la forza, con tutta la passione di cui è capace, anche se questo comporta farsi mettere del fango sugli occhi per accorgercene.

7 marzo 2005

Canto: Canto: Dio ha tanto amato il mondo (CD – “Risorto per amore” 10)

Racconti di solidarietà

Luciana
Quando Gianni non si presentò alla radio quel lunedì, tirai un sospiro di sollievo, perché era arrivato il momento che si scoprissero le carte e si vedesse chiaramente chi faceva e chi non faceva. Ci eravamo impegnati con don Remo, il direttore di Radio Speranza, a portare avanti una trasmissione (“Famiglia oggi: riflessioni di coppia”), in cui comunicavamo agli ascoltatori l’esperienza, faticosa e nello stesso tempo esaltante, del camminare insieme a Cristo, che avevamo scoperto potente alleato. Pian piano il peso del lavoro si era riversato sulle mie spalle a tal punto che Gianni dava per scontato che, massimo la domenica mattina, lo Spirito Santo faceva il miracolo di rimettere in ordine tutta la mole di appunti che io ero andata prendendo durante la settimana, limitandosi a mettere in bella copia il testo sopra il computer. Non c’è che dire, un bel sodalizio; ma il suo comportamento negli ultimi tempi mi stava dando sui nervi, perché mi sentivo sola in quella battaglia e non vivevo ciò che dai microfoni volevo passasse.
Mi ero gettata in quell’avventura un po’ per fede un po’ per scommessa, sperando che Gianni si svegliasse dal sonno. Ma niente era cambiato.
Quel lunedì, quando uscii dagli studi, ero soddisfatta per come erano andate le cose, perché il discorso sulla solidarietà, che deve partire da valori vissuti nella famiglia, mi aveva dato lo spunto per parlare della nostra esperienza personale, scaturita da una preghiera fatta insieme per una coppia in crisi: l’inizio di una dolce abitudine che continua ad accompagnarci, condizione imprescindibile per abolire le distanze che ci dividono.
Mentre io disquisivo alla radio sulle distanze colmate e da colmare, Gianni, con salto da atleta, alla stessa ora, aveva superato tutti gli ostacoli, per essere vicino a suo cugino in cerca di aiuto, che il padrone di casa non vede l’ora di sfrattare, perché non si lava e puzza.
Solo da poco ho imparato ad apprezzare ciò che naturalmente Gianni fa da sempre, nonostante nei lunghissimi anni della mia malattia non abbia mai fatto lo schizzinoso, accudendomi in ogni genere di necessità, quando l’immobilità mi teneva inchiodata ad un letto o ad una poltrona.
L’incontro con un Crocifisso e con chi da Lui prende luce, mi ha portato a vedere, rispettare e servire i crocifissi messi sulla mia strada..Luciana è una di questi, la più importante per la mia storia personale, perché in lei e con lei ho scoperto il potere rigenerante e salvifico della croce portata con i fratelli.
La prima volta che l’incontrai, ricordo, mi fermai alle mani sporche, alle unghie ingrommate di roba marrone, ai jeans lisi, ai neri scarponi ricoperti di polvere.
Cosa avevo io da spartire con una che, a mezzogiorno, nei pressi del centro, va in giro conciata a quel modo? Quando si fermò a salutare la mia accompagnatrice, non alzai neanche lo sguardo, tutta presa a cercare una sedia per porre fine al mio inseparabile dolor di schiena. Se l’avessi fatto subito, mi sarei imbattuta nel suo inusuale copricapo, un foulard che le fascia la testa, legato alla maniera dei corsari, e mi sarei posta qualche domanda, che andava oltre il vestito e lo sporco.
Solo quando mi decisi a guardarla negli occhi, mi specchiai in due polle di acqua sorgiva.. Ci ritrovammo a parlare come se ci fossimo conosciute da sempre, io che di lei non sapevo niente, lei che di me aveva intuito tutto, perché “dove hai gli occhi hai il cuore” e Luciana gli occhi e il cuore li ha aperti alla sofferenza del mondo, anche se passa i suoi giorni chiusa in un garage, senza che luce e aria vi circolino liberamente. Lì restaura mobili per la gente perbene che, pur amandoli, non ama la gommalacca che penetra nelle unghie quando devi restaurarli, né la gente che se ne porta appresso l’odore.
Cominciai a frequentarla quando mi mise a disposizione una sedia, l’unica cosa che mi faceva decidere di fermarmi a parlare lontano da casa mia. E ci si mise d’impegno per farmene trovare sempre una, che non traballasse, cosa non facile nel suo negozio.
Mi piaceva ascoltarla perché mi faceva entrare nelle storie delle persone, raccontandomi ciò che non appariva allo sguardo dei frettolosi passanti. Attraverso i suoi discorsi mi accorsi che esisteva un mondo sommerso , invisibile, di cui i pochi accattoni incontrati non erano che la punta dell’iceberg.
Luciana sembrava un giocoliere che ogni giorno dal cappello faceva uscire qualcosa di straordinario. Erano le persone che, grazie al suo abbigliamento poco ortodosso, si lasciavano avvicinare e delle quali scopriva preziosi tesori da esplorare.
Il restauro migliore, mi accorsi che lei lo faceva alla persona, restituendole la dignità che Dio dà ad ogni uomo.
Luciana è stata la battistrada che mi ha portato a concepire la solidarietà non come un gesto grandioso ed emblematico, fatto una volta per tutte, ma un insieme di piccoli gesti gratuiti, ripetuti ogni giorno, nei riguardi di chi il Signore ci mette di fronte. Mi colpì il fatto che pregava per gente che non conosceva, che accoglieva nella sua casa senzatetto ed emarginati, che si adoperava affinchè quelli che non hanno cittadinanza nella nostra società opulenta, avessero di che mangiare e vestirsi, privandosi spesso del necessario per loro.
Fino a quel momento la carità che conoscevo era quella che non mi scomodava, neanche per andare a fare un vaglia alla posta, con la scusa che non potevo stare in piedi, quella che era garantita dalla riconoscenza di chi aveva effettivamente bisogno, quando i bisogni degli altri li misuravo sui miei, quando la carità non nasceva dalla rinuncia e dal sacrificio.
I bisogni degli altri, Luciana, m’insegnò a vederli nelle storie anonime di tanta gente con cui si fermava a parlare. I poveri, i veri poveri, poi costatammo insieme, non erano quelli a cui manca il tetto, il cibo o il vestito, ma quelli che avendo tutto questo e tanto di più, non hanno nessuno che gratuitamente gli doni un sorriso o una carezza.
Man mano che procedevano le nostre conversazioni in mezzo alla polvere, all’odore acre delle vernici, mi sono resa conto che il tempo, il bene più prezioso che Dio ci ha dato, dopo la vita, era quello che dovevamo essere disposti a donare agli altri, senza avarizia, quello sottratto al riposo, allo svago, a volte anche al lavoro.
La compassione è un sentimento che ci siamo dimenticati o non abbiamo mai conosciuto, riflettevamo insieme, in una di quelle mattine che ci vedevano parlare fitto fitto, mentre lei era intenta al lavoro, è un sentimento divino, è il sentimento che Dio ha provato quando ha deciso di mettersi nei nostri panni e di traslocare nel nostro mondo, abolendo le distanze che ci dividevano da Lui.
Frequentando Luciana, le parole ascoltate ogni giorno durante la Celebrazione Eucaristica: ”Fate questo in memoria di me”, non mi sono sembrate poi così tanto scontate come credevo, e mi hanno fatto capire che servire Cristo non significa andare tutti i giorni alla Messa, ma servirlo nei poveri, nei sofferenti, nei bisognosi, anche se sono sporchi e mandano cattivo odore.
Gesù non ha avuto paura di sporcarsi, quando ha deciso di venirci in aiuto, non disdegnando di nascere in una stalla ed essere deposto in una mangiatoia, riscaldato dal fiato di un bue e di un asino, mentre gente senza fissa dimora andavano ad adorarlo.
Quanto cattivo odore intorno a Gesù, il figlio di Dio fatto uomo, ma quale messaggio d’amore ci ha trasmesso attraverso quelle che sono state le sue preferenze!
Tutta presa a riflettere su come ero e come sono, non senza un certo compiacimento, mi è capitato sotto gli occhi un vecchio articolo sullo tsunami che mi ha fatto ricordare Dominicus, il seminarista indonesiano che, grazie all’interessamento di Luciana, ha trovato persone che s’interessassero a lui. Mi ero dimenticata di Dominicus quest’anno, e ci voleva l‘articolo per prendere coscienza che in Indonesia c’è stato lo tsunami.
Chissà se Dominicus è ancora vivo! Quando ha scritto gli auguri di Natale sicuramente lo era. E dire che ci sentivamo la coscienza a posto, Gianni ed io, dopo aver, con la carta di credito, mandato una bella sommetta a chi di dovere, per finanziare gli aiuti.
Se le immagini che scorrono sul teleschermo avessero il potere di sporcarci di terra, di tingerci con il sangue di tante vittime che abbiamo visto morire insieme alle speranze dei pochi sopravvissuti, potremmo rispondere di sì.
Eppure Gesù, per guarire il cieco nato, <Sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: “Va’ a lavarti nella piscina di Siloe”> parole che ci interpellano proprio su quello sporcarsi di Gesù che per guarire il cieco nato prende della terra e l’impasta con la saliva, per metterla sugli occhi del malato che cerca la guarigione.
L’amore, adesso ne sono più che convinta, passa attraverso un contatto fisico con ogni fratello che incontriamo sulla nostra strada e presuppone la nostra docilità a sporcarci e ad essere sporcati, toccare ed essere toccati.
Il lunedì successivo, con Gianni, di tutte queste cose abbiamo parlato alla radio, contenta, questa volta, di avere accanto chi, come Luciana, non ha mai avuto paura di usare il corpo per avvicinarsi alla gente, al contrario di me che, dimenticando di averlo, spesso uso solo la mente.
Abbiamo raccontato di quella passeggiata di fine agosto, quando, bighellonando tra le bancarelle di un mercatino, verso il tramonto, ci siamo imbattuti in Luciana che dalla mattina stava in piedi a vendere le cianfrusaglie, di cui volentieri anche noi ci eravamo liberati, per i poveri della città.
Abbiamo ripercorso il sentimento che ci ha portato a guardare con altri occhi chi sta dietro un banchetto, per guadagnarsi la vita o strapparne un poco per gli altri, che tutto ciò comporta sacrificio e fatica, che il contrattare, specie per ciò che è destinato alla beneficenza, è peccato mortale, che alla sera i banchetti bisogna che ci sia uno che se li carichi sopra le spalle o su un furgone e che la roba rimasta va incartata e messa per bene in ordine, da parte, perché la prossima volta non ci si impazzisca, anche solo a cercarle, le cose.
Abbiamo ringraziato il Signore per le tante storie nelle quali Luciana ci ha fatto entrare.Abbiamo ricordato quanto ci ha regalato il batticuore di Monica, che abbiamo accompagnato a Roma ad incontrare il marito, sposato da meno di un anno, che si era fatto tre giorni di pullman, senza dormire per riabbracciarla, dalla Bulgaria; il sorriso sdentato di Ovidio e la puzza sui suoi vestiti di chissà quanti pacchetti di sigarette, fumate durante il tragitto; la tenerezza e il pudore dell’abbraccio dei due giovani, quando si sono rivisti. E che dire della solidarietà che si è accesa intorno al pancione della piccola albanese rimasta all’agghiaccio, dopo che le avevano chiuso, in pieno inverno, le porte della stazione, e che avrebbe abortito, se il passa parola delle piccole e silenziose formiche e la generosità di Luciana, che non si è arresa neanche di fronte all’irreperibilità della donna, non gli avessero fatto recapitare una coperta?
Ci siamo chiesti dove avevamo la testa, in che mondo vivevamo, quando ai vestiti da regalare staccavamo i bottoni, quando ci sentivamo a posto con la coscienza, dopo aver largheggiato nel fare l’elemosina al disgraziato che suole sostare davanti alla chiesa, o al lavavetri, che con quei soldi volevamo levarci di torno.
Ma accanto a questi ricordi sono emersi quelli legati ai volti di chi non ci ispira simpatia, di chi non lo merita, degli scorbutici, di quelli che non ci fanno pietà ma solo rabbia, perché potrebbero darsi una “smossa”, come si dice dalle nostre parti, e prendere per i capelli la propria vita invece di buttarla e di lamentarsi, aspettando che qualcuno venga a salvarli.
Abbiamo pensato che il difficile sta proprio lì, dove la compassione fa fatica a farsi largo e non ti fa aprire il cuore, a causa di un giudizio che ne tiene chiuse le porte.
Come si fa, c’è da chiedersi, ad imporre ad un uomo di amare? Se non c’è attrazione, come può nascere l’amore? Come può perpetuarsi, se l’altro cessa di essere amabile?
La risposta ci è arrivata, mentre, uniti nella preghiera, contemplavamo il Crocifisso.
Racconti di solidarietà ( primo premio concorso ISTMI promosso dall’ADMO nell’anno 2005)