Preghiera

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“Cessate di fare il male, imparate a fare il bene”(Is 1, 16.17)

Sembrano tutte uguali le letture di questi giorni, piene di rimproveri, di esortazioni, di minacce.
Non mi piacciono specie quando sei nel deserto della notte e ti dibatti su quale medicina prendere per avere meno male, su quale strada percorrere in alternativa a quella che stai percorrendo e che fino al giorno prima ti sembrava quella giusta.
Tutte uguali, le letture che riguardano i rapporti con i tuoi amici, i tuoi nemici, con te stesso e con Dio.
Ogni mattina cerco il nuovo, la meraviglia nella Parola di Dio, qualcosa che mi cambi questo stato di vita e di morte, qualcosa che mi tolga da questo crinale su cui sto in bilico con la morte e la vita che si congiungono e s’incastrano tanto perfettamente che non sai più se appartieni all’una o all’altra o ad entrambi.
Non so se a tutti è dato di vedere il mondo così come l’ho visto io in questi ultimi tempi, se i pensieri, le azioni sono condizionate dalla percezione che niente è scontato e che Dio, gli uomini, tu stessa può accadere che scompaiano e rimane una non presenza, un assenza di un tu con cui relazionarti, cosa, persona, animale, uomo..
Non so, non capisco tante cose che mi stanno succedendo o che mi sono accadute e forse neanche me ne do pensiero.
Sto dietro, mi sono messa dietro a guardare a lasciarmi guidare da chi ne sa più di me.
A volte questo Dio che celebro nelle mie carte non lo vedo presente ovunque, anzi se posso dire la verità non lo vedo da nessuna parte, ma sento so che c’è.
Mi sento da Lui avvolta, come in un utero di madre, custodita, accolta, curata e al sicuro.
Tutto è buio però nella pancia della madre, il bimbo non vede niente ma lo rassicura la voce di chi lo avvolge con il suo involucro di carne, di sangue, di vita.
Gesù continua ad insistere che dobbiamo imparare a fare il bene, che non dobbiamo inorgoglire, che ci dobbiamo preoccupare degli altri prima che di Lui e di noi stessi.
Parole sante se stessi fuori all’aria aperta, se potessi muovermi come voglio, se i miei pensieri riuscissero ad andare oltre una tachipirina di supporto, un SOS alla dottoressa che mi ha in cura, una preghiera a Dio tacita, perchè Lui sa di cosa ho bisogno.
In queste notti gli altri scompaiono e rimani solo tu, novello Prometeo attaccato, legato alla rupe a scontare i tuoi peccati di superbia, di arroganza, legato e impotente perchè sei polvere e polvere tornerai.
Devi fare salti acrobatici, voli pindarici per convincerti che questo è il vecchio testamento e che con il nuovo è finita la tua condanna e che non ci sono più Prometei legati, che Dio salva, Dio libera, Dio ama.
Crederci quando il masso di Sisifo ti rotola addosso, quando ti ritrovi ai piedi della montagna che hai scalato con Lui, crederci quando intorno è tutto vuoto, senza fiori, nè erba, nè acqua e non c’è nessun o che ti dia una mano a fasciarti le ferite…
Solo…
L’esperienza della solitudine, del silenzio di Dio non è solo di chi non crede, che avrebbe un suo perchè.
Se non credi cosa puoi aspettarti?
La più grande prova, il più grande dolore, lo smarrimento più angoscioso è quando un amico ti tradisce, si dimentica di te, non si fa più sentire.
E’ questo l’inferno Signore?
Non vederti, non sentirti, non averti…
E’ l’ìnferno questo in cui non ti viene, non riesci a pregare nè i vivi nè i morti perchè sono tutti scomparsi all’orizzonte dove la nave pian piano li sta portando in porto sicuro?
E io che sono rimasta qui, pesta e confusa, mi chiedo dove ho sbagliato, quale breccia devo attraversare per entrare nel tuo riposo.
Una fessura, una piccola fessura mi basterebbe per allargarne i margini ed entrare.
Una fessura, uno sbocco, un canale…
attraverso cui possa vedere la luce per orientarmi in questo mare di confusione.

SABATO SANTO

Te ne sei andato Signore Gesù! Non siamo stati capaci di vegliare con te, di starti vicino  fino alla fine. 

Unirci a te nella passione  avrebbe comportato amare, come tu le hai amate, le persone che il Padre ti ha dato. Tra queste ci sono anche i nostri nemici, quelli che non ci amano, che non ci vogliono, che ci tradiscono, nonostante abbiamo fatto loro del bene: gli imperdonabili, che non si meritano niente perchè non danno niente.

Signore Gesù, ci hai lasciato il tuo corpo, appeso alla croce, dopo averci nutrito del Pane di vita.

Questa volta dobbiamo aspettare fino alla notte di Pasqua, per riassaporare quel cibo di vita eterna.

Ma come la manna che il venerdì si raccoglieva anche per il Sabato, l’unico giorno in cui era permesso farne provvista, così abbiamo fatto, ieri sera, certi che tu non ci lascerai soli ad affrontare questo silenzio di morte.

Con tua madre vogliamo pregare e sperare che il tuo sacrificio non sia stato vano per nessuno di noi.

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23 Dal diario di Antonietta

 

Rubrica radiofonica a cura di Antonietta

Un affettuoso saluto, amici, dagli studi di Radio Speranza, un’emittente che ce la sta mettendo tutta per comunicare la speranza, per rendere ragione della speranza, che si sforza di portare ad ognuno di voi, di noi, il fondamento di ciò che crediamo, di ciò che aspettiamo, di ciò che ogni giorno ci è dato come anticipazione della promessa.
Gesù, il Risorto cammina con noi, è entrato nella storia, non quella astratta scritta sui libri, quella che ha l’occhio rivolto solo ai grandi e ai potenti di questa terra, a quelli che sembrano tessere il filo del nostro destino di uomini.
Il Signore del tempo si è fatto piccolo, umile, uno di noi, per poterci incontrare e aiutare nelle nostre anonime storie di uomini per niente speciali, per condividere con noi la pena, l’affanno, la difficoltà del procedere, per tenere alta la speranza che un giorno lo vedremo risplendere alla destra del Padre, diventato anche nostro, grazie a quel pane spezzato, a quel sangue donato per accoglierci nella grande famiglia dei figli di Dio.
Lui, con le mani che ancora portano i segni del rifiuto e dell’ingiustizia, continua a benedire chi lo perseguita, con i piedi lacerati dai chiodi, continua a percorrere le strade del mondo, Dio mendicante che chiede, che supplica che implora la nostra attenzione a che gli prestiamo ascolto perché ha tante cose da dirci.
Come non rimanere folgorati da tanta attenzione, come non rimanere stupiti attratti da questo Gesù, che si lascia crocifiggere ogni momento dall’uomo che lo rinnega, che non lo vuole sentire, che non sa che farsene di un Dio che va controcorrente, che, nonostante tutto, continua a farsi pane spezzato per tutti gli affamati del mondo.
Un Dio che si abbassa, depone le vesti e si mette il grembiule per continuare a lavarci quei piedi di cui non vediamo lo sporco tanto distano dal nostro sguardo e dal nostro naso, non può non risorgere scendendo ancora, negli Inferi, il luogo più distante dal Padre, il luogo dove erano e sono ad aspettarlo tutti quelli a cui non è stata annunciata la buona novella.
Un Dio che risorge scendendo, non salendo, per debellare per sempre la morte, questo è il grande mistero di consolazione che le icone della chiesa orientale propongono.
Quando padre Raniero Cantalamessa in un omelia lo ha ricordato, ho avuto un brivido, perché l’immagine di un Dio che scende a liberare l’uomo dalle catene di un destino senza speranza mi rassicura più di tante in cui lo si rappresenta mentre sale.Un Dio che scende per vincere la morte, per portare luce dove sono le tenebre, per liberare i prigionieri dalle maglie della schiavitù del peccato è veramente un Dio potente, perché ci viene incontro, perché ci tende il braccio, perché ci invita ad aggrapparci a lui la roccia che non crolla, la verità che non delude, la parola che salva.
Tutto questo ho imparato a leggere nel suono delle campane quelle che non avevano smesso di suonare per annunciare la resurrezione del Signore, mentre io dormivo, la mezzanotte del sabato santo.
Ma era necessario che mi svegliassero quelle a martello, quelle che Dio non tiene legate, perché il loro suono deve scuoterci dal torpore, dall’abitudine di dare tutto per scontato, dalla convinzione che a morire sono solo gli altri, che a patire c’è sempre tempo, quelle che ci chiamano a riflettere su ciò che finisce, su ciò a cui non possiamo porre rimedio, quelle che ci portano a sollevare lo sguardo e a chiedere aiuto.
Gesù con pazienza e con determinazione mi ha portato a percorrere la strada del calvario aprendomi le orecchie per farmi ascoltare i sordi e tristi rintocchi di quelle campane che mi parlavano di morte, per portarmi poi nel giardino dove si è fatto riconoscere, chiamandomi per nome, davanti al sepolcro scoperchiato e vuoto.
Per incontrare il risorto, per parlare con lui e riconoscerlo bisogna morire, per godere della resurrezione con lui bisogna salire sulla croce: parole di consolazione e di speranza, ma anche parole pesanti, difficili da accettare e vivere senza ribellarsi o smarrirsi.
Gesù continua a parlare ai nostri cuori, attraverso gli innumerevoli segni di cui è piena la nostra storia, segni che solo orecchie vigili e attente, occhi purificati dal pianto, il cuore aperto all’amore, sono in grado di cogliere e utilizzare per correggere la rotta per godere della consolazione che l’Emanuele, il Dio con noi non è un utopia, ma una realtà viva e presente che non permette nulla che non sia per il nostro bene..
La volta scorsa, rileggendo con voi le pagine del libro relative agli anni 1997 98 in cui ben due incidenti stradali, a distanza di otto mesi, avevano rimesso in discussione tutto il lavoro dei medici che mi tenevano in cura, mi sono sorpresa per le parole usate in quella circostanza
“Se non ancora mi ero svegliata, se non ancora avevo preso coscienza che l’ora era giunta, sempre più forte la campana a martello mandò i suoi rintocchi”
Erano campane che da quel momento non mi permisero più di addormentarmi, perché dovevo bere fino in fondo il calice amaro del fallimento dell’impotenza e del limite, perché mi rivolgessi a Chi quel calice lo trasformasse in occasione di incontro, di resurrezione e di vita.
Il senso? – La morte
Che anno il ‘98! ….mi gira la testa a pensarci.
Quel vagare alla cieca, quel dubbio sempre crescente su ciò che fosse giusto, su ciò che non lo era, sull’esito di quell’andare a tentoni, spiando, guardando, studiando tutto quello che era possibile per trovare il bandolo della matassa.
Che intreccio di strade, di nomi, di cure, di luoghi, di errori, di conferme che mai, mai più potevi uscire dal fosso, dal baratro enorme che pian piano si andava scavando sotto i tuoi piedi.
Il baratro fu così grande che mancò poco che vi annegassi, in quell’anno dove tutto accadde, dove tutti i nodi vennero al pettine, dove la sconfitta e la morte sembrarono avere la meglio.
La grande abbuffata, la sbornia di medici e di medicine, di rimedi antichi e moderni, non l’avevo ancora smaltita, quando, a dicembre, un’altra, questa volta più forte chiamata, mi scosse dall’ingorgo dei pensieri ormai triti e aggrovigliati in se stessi.
Atlante
La vita corre veloce senza che ce ne rendiamo conto
Abbarbicati alle nostre idee, alle teorie inattaccabili da qualsiasi argomentazione, convinti di aver toccato il fondo del mistero, difficilmente ci fermiamo per rimettere in discussione ciò che dentro di noi si è sclerotizzato, convinti che ci siamo fermati già troppo tempo a pensare, riflettere, dedurre.
All’immagine di Prometeo a cui l’aquila di Giove di notte mangiava il fegato, che ogni giorno ricresceva più rosso che mai, a quella di Sisifo condannato in eterno a spingere un masso che ripiombava giù proprio quando era prossimo alla vetta, si era associata e sempre più si sovrapponeva, negli ultimi tempi, quella di Atlante, che sostiene sulle spalle tutto il peso del mondo.
La stanchezza pian piano aveva preso il sopravvento e sempre più spesso mi trovavo a chiedermi che senso avesse quella sfida estrema.
Come un titano continuavo a sentirmi fuori dalla mischia, in una solitudine dolorosa e sempre più angosciante.
L’idea della morte come liberazione e termine delle umane sofferenze mi aveva spesso aiutato a sopportare notti insonni passate a difendermi dagli attacchi inclementi di un corpo impazzito.
Ma non sempre era possibile, anzi sempre più spesso accarezzavo l’idea di una morte dolce, che mi avrebbe liberata per sempre da quel maledetto “dover essere”,
Io che non mi ero mai data per vinta, nemmeno dopo quell’anno da incubo, io che pensavo di poter sconfiggere la morte, quella mia, desiderandola, accarezzandola come premio alla fatica del vivere, mi ritrovai smarrita, sconcertata a pensare a quella, prossima, di mio fratello.
Eppure non era di fatto morto nei miei pensieri, nella mia vita, lui che ne aveva scelta un’altra con amici più spensierati con cui condividere pranzi, balli, gite, all’aperto?
Non senza un pizzico d’invidia venivo a sapere da mamma che era sempre fuori casa, anche quando non lavorava. Non aveva mai avuto un minuto per me, nei lunghissimi anni della mia malattia.
Non mi aveva più guardato in faccia, inspiegabilmente.
Mi ero rassegnata a non avere un fratello, anche se non avevo perso la speranza di riconquistarlo.
Così quando la rabbia per il suo disinvolto comportamento nei confronti di papà, in pericolo di vita, esplodeva in tutta la sua forza distruttiva: LA NOTIZIA.
Non era vero, non poteva essere vero.
Mi sembrava che una nemesi irrazionale e cieca si fosse abbattuta su di lui, che sveniva davanti ad una semplice iniezione, che si rifiutava di mettere piede in ospedale, con la scusa che si sentiva male, lui che non era mai andato a visitare un ammalato, che non si era mai sforzato di capire chi era in difficoltà: proprio lui si trovava ad affrontare la prova più terribile.
Un male incurabile lo aveva colpito, attaccandosi alle parti vitali.
"Adenocarcinoma polmonare con lesioni multiple intracerebrali secondarie", questa la diagnosi dei medici consultati freneticamente da me, che volevo sapere, conoscere, per combattere quell’estrema battaglia, dopo che le indagini di rito avevano messo a nudo la terribile verità.
Non siamo niente, non siamo nessuno, e la lotta non sempre paga.
Ero pronta ad accettare la mia morte, ma non quella sua.
Sola, ad aspettare il precipitare degli eventi, la mia vita si era fermata in un’attesa immobile ed attonita.
Eppure ero fuori dal cerchio della vita già da tempo, anche se sogni e speranze non erano spenti del tutto.
Non mi volevo arrendere, non volevo buttare la spugna, nonostante i ripetuti traumi alla colonna vertebrale mi riproponevano ogni giorno il terribile interrogativo. Continuare o fermarmi?
Quante volte, dopo una notte insonne, mi ero chiesta se sarei stata capace anche solo di arrivare in bagno per lavarmi e vestirmi!
Quante volte ho cercato aiuto in un calmante, per affrontare in macchina il tragitto, peraltro breve, che mi portava a scuola!
Quante volte, arrivata nei pressi dell’edificio con enorme fatica, (avevo il collo bloccato, dolori insopportabili alla testa e alle braccia) ero stata in dubbio se tornare indietro per rivolgermi ad un medico, oppure provare per l’ennesima volta se la scuola e il lavoro fungevano da antidoto!
Quello non era che l’ultimo atto di un dramma che pensavo fosse concluso con la resa incondizionata di me, che non ce l’avevo fatta a dimostrare alla Commissione fiscale che stavo bene e che, nonostante tutto, ero ancora in grado di svolgere il mio lavoro.
La morte si sconta vivendo
Il mio lavoro non era più neanche nei miei pensieri, nonché nei ricordi, né nei desideri, da quando, ad ottobre, dalla Visita collegiale usci veramente malata e che prima di nove mesi no, non potevo tornare a insegnare.
Ed erano stati buoni, generosi, quei giudici distratti che avevano fretta, perché era tardi, perché erano stanchi e non erano abituati a vedere qualcuno piangere per non andare in pensione…
Così, mossi a pietà, mi avevano dato un’ultima chance, non stilando subito il verdetto di morte.
Che strano! Per dimostrare che di danni ne avevo subiti a bizzeffe da automobilisti distratti, non uno ma due collegi giudicanti avevano trasmesso alle rispettive compagnie assicurative che stavo benissimo, che ero un fiore e che nulla mi spettava a risarcimento del danno.
Il CTU, perito nominato dal tribunale, all’orecchio mi disse, prima di congedarmi dalla visita conclusiva, che sapeva come guarirmi.
Bastava che mi facessi curare da lui!
Così vanno le cose in questo paese, o forse nel mondo, chissà!
Mi ritrovavo sempre a dover dimostrare verità difficilmente documentabili.
Non era forse successo a maggio, quando dovetti strenuamente difendermi da una diagnosi scritta, stampata, fotocopiata all’infinito, perché tutti gli uffici competenti sapessero che avevo la depressione maggiore?
A saperlo che la depressione maggiore non è uno scherzo da niente!
Il neurologo, medico mio di fiducia da almeno vent’anni, per non impelagarsi in una diagnosi veritiera, ma per lui incomprensibile (deficit posturale reattivo), mi mise quell’etichetta, quando mi rivolsi a lui per essere esonerata dall’insegnamento gli ultimi giorni dell’anno, visto che, mio malgrado, non ancora ero venuta in possesso di occhiali idonei a svolgere la mia attività didattica.
”Deficit posturale”? … chi vuole che ne sappia qualcosa di questa malattia? … alla ASL non capiscono niente …. ci mettiamo una diagnosi che non può essere contestata da nessuno: …. minimo 60 giorni con una bella “depressione maggiore”…
…no 20 giorni … no … rispondeva a me che lo supplicavo di ridurne al minimo indispensabile il numero.
Quelli che mancano alla chiusura dell’anno scolastico sono pochi……. troppo pochi per questa malattia che le ho scritto …. a questa non potranno non credere.
Sicuro che ci hanno creduto. Ci hanno creduto anche troppo.
… mi volevano togliere seduta stante patente e lavoro!
Anche lì a piangere e a supplicare che la macchina, no, la macchina non me la dovevano togliere …le mie gambe, la mia unica possibilità di movimento autonomo!
E loro a dirmi che la mia era una malattia da DNA impazzito, di quelle che prevedono l’accompagnamento.
A dimostrare che di maggiore avevo solo la rabbia non mi ci volle molto, una volta arrivata, seguendo un iter lunghissimo e stressante, davanti al giudice supremo, la psichiatra della ASL
Ed era tutto cominciato da quegli occhiali andati in frantumi nell’ultimo incidente, a febbraio.
Con gli occhiali quell’11 febbraio andarono in frantumi i miei sogni, le mie speranze, la mia forza di reagire, andarono in frantumi le certezze, quelle mie, quelle del dott. R., fu rimesso in discussione tutto il programma di rieducazione posturale, il mio rendimento sul lavoro, le mie relazioni, la mia identità
Per tre mesi m’illusi che quel senso d’instabilità, quel vedersi girare il mondo attorno, quel non poter guardare senza dolore qualsiasi cosa che non fosse fissa, ferma e dritta in basso, davanti ai miei occhi, quei dolori lancinanti al collo, alle braccia, alla schiena, quel non poter stare più in piedi neanche un minuto, tutto questo dipendesse dal fatto che non avevo abbastanza stimoli.
A conferma di ciò c’era il fatto che, appena riuscivo a guadagnare la cattedra, i disturbi scomparivano.
Ecco dicevo, la scuola è la miglior medicina.
A saperlo che, stando più in alto dei miei interlocutori fermi davanti a me, i fuochi delle lenti non davano più problemi! Erano centrati.
Al dottor R., per capire che non era questione di denti ma di occhiali, ci vollero tre mesi, perché fino ad allora non aveva fatto che limar denti, quelli del ponte fatale di 10 anni prima e poi gli altri, tutti quelli ritenuti responsabili di quegli ondeggiamenti paurosi sulle ascisse e le ordinate degli esami posturometrici.
Le corde tirate spasmodicamente sulle braccia, sul collo, sulla schiena, sulle gambe, sui piedi, tendini e muscoli impazziti nell’estremo tentativo di mantenermi in piedi senza che svenissi dal dolore, quelle cercava di allentare con il suo sempre più convulso accanimento sui pochi denti scampati all’inseguimento di un sogno.
Eppure la sua faccia l’avevo vista rabbuiarsi da subito, il suo volto, cordialmente serafico e ironico, sempre più mostrava il distacco che nasce dalla paura e dal dubbio, perdendo la consueta baldanza.
Che c’entrano gli occhiali?mi dissi; ma ormai ero abituata ai colpi di scena.
Una corsa quella vigilia del ponte del primo maggio sulla tangenziale est, intasata di camion a rimorchio, di tir, di macchine che scappavano, fuggivano dalle grinfie della città, sotto una pioggia battente, con noi che eravamo partiti da Pescara la mattina e che avevamo sulle spalle una montagna di chilometri!
Ancora una volta, arrivata a destinazione, pensai che ne ero venuta a capo, che avevo trovato il bandolo della matassa.
A Peschiera Borromeo era ad aspettarmi, tempestivamente avvisato dal mio vacillante puntello, un nuovo specialista, doctor of optometry.
Costui, dopo due ore, passate da me a inseguire pallini, palline, aste, luci di tutti i colori, eroi di bambini che correvano veloci sul piccolo schermo di un occhiale da pagliaccio, mi disse che, sì di occhiali sbagliati si trattava, ma il peggio era … ti pareva che ne uscivo pulita! mi dico …era che gli occhi avevano un difetto, il sinistro in particolare.
Che tipo di difetto avessi, ora che ho cambiato ben sei paia di occhiali, e mi sono sottoposta ad ogni tipo d’indagine, ad ogni genere di sevizie, l’ ho capito, ma da sola e da sola ho cercato il rimedio.
Non che gli interpellati, e sono tanti, si siano discostati tanto dal vero, ma ognuno diceva un pezzetto di verità, fra tante cose sbagliate. Era come un puzzle che aveva confuso i suoi pezzi con quelli di un altro.
Così, attraverso il labirinto delle idee, attraverso i cunicoli di strade che divergono, attraverso un cammino infaticabile di fede e di delusioni, di aspettative disattese, di sogni infranti, di speranze fugaci, di tenacia indiscussa di chi, non si voleva piegare, era, è stato e fu un gioco trovare il pezzo mancante del puzzle?
La croce, il pezzo mancante del puzzle, in questo incredibile ma affascinante gioco dell’oca segna il traguardo di quello che per anni ho pensato fosse un gioco assurdo e crudele, ma che oggi mi parla di una Pasqua che non ha mai fine.
Con l’auspicio che ognuno di noi nel suono delle campane riconosca la voce di Dio che, comunque suonino, ci comunica il suo amore per noi vi saluto e vi do appuntamento alla prossima trasmissione
19 aprile 2004

22 Dal diario di Antonietta

 

Rubrica radiofonica a cura di Antonietta
Canto:Davanti a questo amore
Un caro e affettuoso saluto a tutti amici di Radio speranza e auguri di buona Pasqua, di tutto cuore.
Ho sempre pensato che i giorni dedicati alle festività pasquali erano troppo pochi per accorgersene e goderne, e gli auguri o si faceva in tempo a farli prima che tramontasse il sole sulla domenica di resurrezione o non valevano.La frustrazione per non essere riusciti a farlo prima era sempre grande, perché bisognava fare i conti con i giorni lavorativi nei quali si incuneava questo scampolo di primavera, di luce e di sole, un tempo dedicato alle evasioni, alle passeggiate fuori città, un tempo in cui la messa mal si conciliava con la preparazione del pranzo pasquale e dei progetti per la gita tradizionale del giorno dopo.
Non mancavamo però, quando eravamo piccoli, all’ appuntamento del venerdì santo, per vedere la processione che attraversava tutta la città, accompagnata dalla banda, che scandiva lenta i passi faticosi di chi doveva trasportare i simboli astratti di una storia che non ancora ci apparteneva.
Al cordoglio dei grandi noi bambini non potevamo che unire lo stupore per quello spettacolo inconsueto e per il bagliore dei fuochi che senza rumore, dai tetti, dalle serrande abbassate dei negozi illuminavano il passaggio del Cristo morto e della madre vestita di nero.
Poi le frittelle che mamma faceva, una festa, il giorno del digiuno, perché erano di baccalà e di cavoli e quando mai aveva il tempo, lei che era maestra e lavorava lontano, a farle in un altro giorno dell’anno, quando tornavamo da scuola affamati, ed era un miracolo che lei arrivasse prima di noi e avesse acceso i fornelli.
Le uova non erano di cioccolata e ci litigavamo quelle della pancia delle pupe e dei cavalli che mamma faceva per farcele portare alla gita..
Poi siamo diventati grandi e un colpo di spugna è passato sulle uova colorate con la verdura bollita e sulle pupe e i cavalli e le colombe coperte di glassa e di confettini di tutti i colori.
Alla ricerca di una sorpresa che ci appagasse e colmasse il vuoto di tradizioni che i nonni si erano portati dentro la fossa, affascinati dal richiamo lusinghiero delle mode d’oltre oceano, abbiamo seguito il fascino subdolo e allettante di delizie che promettono ciò che non mantengono: le sorprese di latta o di plastica, il mal di pancia immancabile alla fine di tutte le feste.
Quante emozioni, quanti ricordi… sacro e profano si mischiano nella memoria che, con un pizzico di nostalgia, vorrebbe ripescare in quella gioia innocente il senso di un mistero profondo che solo il tempo avrebbe provveduto a svelare, il mistero racchiuso in una festa che finì per non dirci più niente, essendo svanita anche l’ansia gioiosa e impaziente per il momento in cui si scioglievano le campane, a mezzogiorno del sabato santo, sì che tutti le potevamo sentire.
Poi cominciarono a scioglierle a mezzanotte, quando stavamo a dormire, e non ci siamo più accorti che Gesù continuava a risorgere ancora, e che la festa non era finita.
Fu forse allora che la stanchezza ci prese e anche il sonno, sì da non poter ascoltare cosa ci avrebbero detto i dolci e festosi rintocchi che muovevano l’aria la mezzanotte del sabato santo.
Una Pasqua priva di senso per chi non aveva chi gli colorasse le uova e gli preparasse i dolci per una gita che non poteva più fare..
Agli alunni continuavo a dare temi sul significato di ricorrenze cadute in disuso, a chiedere e a chiedermi come si poteva riempire il vuoto del tempo passato a sperare che arrivi il tuo treno, quel treno che ti porti lontano a vivere la vita come l’avevi sempre pensata, come l’avresti voluta, con qualcuno che si facesse carico delle tue difficoltà, dei tuoi limiti, che non ti chiedesse il conto del servizio prestato, e che ti portasse sulle sue spalle ad ammirare le meraviglie dei prati coperti di fiori, dei boschi rinverditi di fresco, e che ti preparasse un cibo che non cambia col tempo e con le stagioni, che non provoca allergie e mal di pancia pure se ne fai un abuso.
Dopo Champoluc, dove mi recai nel 96’ e la delusione che ne conseguì, continuai con più frenesia a cercare l’antidoto ad una vita sempre più avara anche di sogni, ad inseguire l’ennesimo rimedio per non rimanere schiacciata , travolta dal traffico vertiginoso della gente che, come me, rincorreva la chimera di una felicità che rientrava dentro gli schemi.
Continuavo a chiedere risposte agli uomini, dagli uomini continuavo a sperare l’aiuto, quell’aiuto che mi arrivò tempestivo, quando decisi di rimanere sveglia per ascoltare cosa avevano da dirmi quelle campane.
Da"Il gioco dell’oca"
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Il senso? – La fatica di vivere

1996/97
C’è qualcuno che si prese la briga di tenere il conto di quanti medici, analisi, ricoveri, attese, domande, mancate risposte, quanto denaro, tempo, chilometri, furono spesi in quel periodo per rendere meno gravoso il peso di un’esistenza che si trascinava tra un sintomo e un altro, tra un dolore e un altro dolore: lingua, gola, stomaco, utero, braccia, gambe, piedi, mani, collo, pelle, fegato, intestino, tutto era un problema tutto, pareva non funzionare.
Così c’era chi mi diceva di asportare l’utero, chi di non dare peso alla lingua, alla gola, intasati, infiammati … forse era un tumore, forse un’allergia, ma no…:forse anzi sicuramente un disturbo psicosomatico!
…E il fegato? Quello sì che ne aveva di problemi, stando ai disturbi che recepivo e riferivo, ma che la medicina ufficiale si ostinava a non prendere in considerazione.
Magra consolazione veniva dal fatto che l’iridologo, il reflessologo, l’agopuntore e l’omeotossicologo fossero dalla mia parte.
Per cosa?Per sostenere ciò che nessuno voleva sentire, perché bene o male è il servizio sanitario nazionale che comanda per approfondire una ricerca, per autorizzare un ricovero, per esonerarti dal pagamento oneroso di esami, a suo parere inutili.
E poi guai a lasciarti scappare che vai da questi ciarlatani, che stanno lì solo a spillarti dei soldi!
Ha importanza dire che almeno questi ultimi ci avevano provato, ti avevano ascoltato, dando importanza al tuo dolore, alla tua sofferenza e ti avevano in qualche modo aiutato a rialzarti, quando niente e nessuno sapeva darti risposte credibili?
E l’ernia iatale? ce l’ hanno tutti…cosa vuole che le dica…mangi poco… dimagrisca…faccia molto moto, lunghe passeggiate… (io che da una vita me le sognavo la notte, le passeggiate, non riuscendo a fare dieci metri senza dolore)…ma mai, dico mai la menta e la cioccolata, mi raccomando!
E l’utero, che ce l’ha a fare, se le dà tanto fastidio? Meglio toglierlo questo ingombro, data l’età …. i cerotti, sì, i cerotti, vedrà … starà meglio.
Meglio? Starà meglio chi li vende, immagino. Non io, che di benefici ebbi 25 chili messi su in poco tempo e mestruazioni risuscitate che ripresero a tormentarmi con dolori terribili per 20 giorni filati al mese gli altri…ad aspettare il prossimo turno.
Il bello è che ogni volta mi si bloccava la schiena.
Ma tutti soffrono di mal di schiena!
Vuoi mettere una malattia che tutti conoscono, perché prima o poi un doloretto: chi non ce l’ha in quella sede? il tempo che cambia, l’umidità, un movimento brusco, un’infreddatura e poi, quante protrusioni, ernie espulse, migrate, e quante osteoporosi, artriti, artrosi, reumatismi, interventi usciti bene tutti o quasi.
Il popolo dei disturbi alla colonna vertebrale mi sta tutto dinanzi con le sue domande, i suoi dubbi, con le sue poche certezze che confrontava con me ogni volta che mi ritrovavo seduta, a spiegare perché avevo chiesto una sedia, perché non potevo in piedi ad aspettare il mio turno.
Ogni mese ritornavo nella schiera dei normali, non più extraterrestre con una patologia chiara, lampante e riconosciuta da tutti.
Anche i cerotti: tutte le donne in menopausa oggi li portano, … li vuole togliere? … che pazzia … vedrà, vedrà!
Sì. Poi vidi che al seno era nato, per quell’anno di fede indiscussa nei prodigi della scienza, un ispessimento sospetto. Di lì corse a non finire per placare la paura, il dubbio, l’angoscia.
…e l’Eutirox, medicina killer, 150 mg al giorno, che il grande F. dottore professore, studioso ricercatore di fama, mi aveva prescritto?
Ma i tremori, maledetti tremori, i crampi continui, le tachicardie non potrebbero esserne la conseguenza?
…anche un aereo oggi è caduto in America, e non si può dire che sia colpa dell’Eutirox…mi sento rispondere dall’alto di un inaccessibile Olimpo…. anzi, scriverò al suo medico curante due righe.
Conta qualcosa che, in quelle due righe, c’era l’ennesima etichetta appiccicata su tutte le altre, sempre la stessa, sempre uguale: il soggetto è neurodepresso e non accetta la malattia?
Per questo c’era il neurologo che provvedeva a togliermi ogni dubbio, continuando a sostenere che non producevo endorfine e che sì, era meglio, anzi, indispensabile fare una cura, proviamo con questo, anzi, è meglio quest’altro … mi faccia sapere, chi se ne frega.
Ma io me ne ridevo di tutte quelle panzane, perché, cosa incredibile, riuscivo, nel tempo che mi avanzava da questo incubo senza fine, a svolgere il mio lavoro, e anche bene.
La gratificazione che me ne veniva era la medicina migliore per farmi dimenticare tutti i malanni.
Così pensavo quel pomeriggio del 20 giugno 1997, mentre, alla guida della mia auto, mi accingevo a buttarmi alle spalle la fatica di un anno vissuto intensamente ed eroicamente per far trionfare nel mio istituto un progetto di formazione e prevenzione del disagio giovanile.
Ero andata avanti, nonostante i mille ostacoli della burocrazia, del preside, dei colleghi, di tutti quelli che non vogliono o non possono aprire gli occhi al dramma di chi non riesce in tempi accettabili ad entrare nell’ingranaggio di una scuola, che ha dimenticato il suo ruolo primario: quello formativo.
Ero orgogliosa dei risultati ottenuti, nonostante il più fosse ancora da fare.
Persa nei miei pensieri dell’ieri e del domani, a fatica, tornai alla dimensione presente quando mi accorsi che ero stata brutalmente scaraventata sulla macchina che mi precedeva di alcuni metri da un autista distratto e frettoloso.
Non ho mai pensato che il pericolo potesse venirmi da dietro, per cui non mi resi conto subito di cosa fosse successo.
Qualcuno mi convinse ad andare al Pronto Soccorso.
Ci andai riluttante.
Altre volte per problemi ben più gravi non avevo ritenuto opportuno recarmici.
Ma la giornata era calda e io non avevo né voglia, né forza sufficienti per discutere.
Quella che sembrava una piccola contusione, con il passare delle ore, si rivelò in tutta la sua gravità.
Così sperimentai una nuova localizzazione del dolore che si aggiunse alle altre, senza annullarle. Non avevo mai sofferto di mal di testa fino a quel momento, per cui mi trovai impreparata ad accogliere quel dolore devastante, che m’impediva anche di pensare.
L’uso delle braccia divenne sempre più problematico, come anche quello degli occhi.
Dovetti rinunciare alla dolce abitudine di scrivere.
Eppure il sogno di portare a compimento l’opera iniziata con la lettera al dott. R., da inserire in una mia biografia, era rimasto nel cassetto.
Di sicuro c’era il titolo: “Il gioco dell’oca”
Non era forse la mia vita un grottesco gioco a dadi con un avversario invisibile, dove il caso sembrava dominare gli eventi?
Sono dadi truccati, mi dicevo, perché nonostante avessi affinato le tecniche, nonostante avessi studiato tutte le possibili mosse dell’avversario, mi ritrovavo sempre al punto di partenza.
Con sempre meno forza e meno entusiasmo, mi ritrovavo a tirare i dadi, ma mi andavo sempre più convincendo che mancava il senso a quell’altalena infernale di esaltazioni titaniche e di abbattimenti sconfinati.
Anni addietro Gianni, mio marito, mi aveva regalato un libro dalle pagine bianche, tutto da scrivere, con la sola stampa del titolo e del nome dell’autore sulla grande copertina gialla.
Testimone silenzioso di tante notti insonni mi aveva visto riempire il vuoto di giornate interminabili, lontana dal flusso impetuoso della vita che scorre fuori dalle finestre, lontana dai rumori assordanti della città che lavora e produce, con la registrazione fedele di tutto ciò di cui facevo esperienza, nei fogli bianchi dei miei sempre più numerosi diari.
Il senso? La morte

Ma il senso di quella storia infinita dov’era, dove cercarlo? Perché scrivere? Per chi scrivere?
All’entusiasmo iniziale per le nuove cure, alla fiducia indiscussa sull’efficacia delle terapie, cominciò a subentrare la rassegnazione a un destino di sofferenza e di morte.
1997/98
Mi trovai così, all’inizio dell’anno scolastico, a trascinare un corpo colpito duramente, frastornata, ma non ancora rassegnata a gettare la spugna, perché nel lavoro trovavo l’unica giustificazione e l’unico senso al mio andare.
In tutti i modi cercai di sopravvivere ai continui attacchi del male che con i suoi mille tentacoli m’impediva di muovermi. mi soffocava, mi stringeva da ogni parte, mostro terribile dalle molteplici facce, nuove e vecchie ad un tempo. Sempre più il peso di ciò che facevo mi ripiombava sulle spalle dolenti e stremate.
Con sempre meno entusiasmo parlavo degli obiettivi e delle conquiste dell’uomo, della cultura dei popoli che ci hanno tracciato la strada, con sempre meno efficacia riuscivo a trasmettere ciò a cui avevo smesso di credere.
I volti annoiati e distratti dei ragazzi mi riportavano a quando, non era passato neanche un anno, bastava uno sguardo per rassicurare, correggere, istruire, bastava uno sguardo per comunicare certezze sudate, sofferte, e apparentemente possedute.
Per forza d’inerzia, animata dal ricordo di ciò che era stato, andavo avanti combattendo di giorno (la notte, quella era delle streghe) per l’idea che mi ero fatta di una scuola sopra le parti, di una scuola dove si costruiscono sogni che sicuramente si avverano: la scuola maestra di vita, la scuola che affianca, sostiene e a volte sostituisce la famiglia nella costruzione del futuro del mondo che cambia.
Gli utenti, quelli sì che erano cambiati! Nel grande carrozzone man mano diventavano sempre più piccoli i docenti e i discenti, per far posto ai nuovi protagonisti, ai benefattori dell’umanità futura: presidi e genitori.
Quello che contava, che conta nell’azienda di Stato, nata da poco, è il famoso pezzo di carta, conseguito nel più breve arco di tempo.
Come? C’è ancora qualcuno a cui importa?
Quale molla poteva ancora continuare a spingermi per risorgere dall’ennesimo attacco?
Ne avevo passate tante, non poteva un colpo di frusta prostrarmi a quel modo.
Ma se lo spirito tardava a consegnare le armi il caso dette una svolta decisiva all’altalena del dubbio.
1998
Di automobilisti distratti ce ne sono molti e chissà quante storie si possono raccontare sui colpi di frusta.
Quell’11 febbraio 1998, mentre, sovrappensiero, tornavo dall’ennesima terapia (questa volta alla spalla destra), un altro soprappensiero mi piomba addosso, facendo volare in frantumi gli occhiali multifocali da poco acquistati.
Il colpo non fu tanto violento, ma la paura sì, tanta, tanta da farmi irrigidire come una lastra di marmo, così da sentirmi sulla testa, sul collo e su tutta la colonna un dolore lancinante di corde spezzate.
Mi precipitai al Pronto Soccorso, senza che altri mi ci spingessero, come era avvenuto otto mesi prima.
Cominciai con 15 giorni di prognosi che poi divennero mesi e poi anni, perché la storia non è ancora finita.
Se non ancora mi ero svegliata, se non ancora avevo preso coscienza che l’ora era giunta, sempre più forte la campana a martello mandò i suoi rintocchi.
La scuola, il dottor R., i permessi per potermi curare, il preside, i certificati, i controlli che non mentissi, da parte della A.S.L., da parte della Compagnia assicurativa, ….vertenze di soldi, d’idee, scontri fittizi e reali con gente che pensa, presume, che ne sa più di te, che ti assale, ti annega, ti esalta, ti copre d’insulti, ti compiange, ti spiega, ti indottrina, ma mai nessuno che ti ascolta davvero, nessuno …nessuno.., nessuno…
Ma io chi o cosa stavo ascoltando? Nel suono delle campane dovevo cercare il senso di una festa che doveva venire.
Con le orecchie tese a percepire quanto hanno da dirci, uniamoci nella preghiera per questo nostro mondo così sordo alla voce dello Spirito.
12 aprile 2004

21 Dal diario di Antonietta

 

Rubrica radiofonica a cura di Antonietta
Canto:Davanti a questo amore
Un caro saluto a tutti,  amici che non ci avete abbandonato, nonostante le difficoltà di ricezione di questi giorni.
La tentazione di cambiare programma, premere un pulsante per sintonizzarsi, una volta per tutte, su un’altra frequenza è stata grande, quanto quella di spegnere la radio e non pensarci più.
Fuor di metafora, cambiare strada spesso non è una necessità ma una tentazione che ci viene quando il percorso è irto di ostacoli che non ce la sentiamo di affrontare.
Ma più spesso la difficoltà nasce dal fatto che ci ostiniamo a percorrere strade sbagliate e non vogliamo sentire ragioni.Ogni volta che le cose non vanno come vorremmo, dovremmo chiederci dove stiamo andando e perché.
Ma il tempo di fermarsi e riflettere non lo troviamo e neanche lo cerchiamo, tutti intenti a fare, muoverci, agire in una qualsiasi direzione che ci anestetizzi dai pensieri angosciosi di sofferenza e di morte.Passiamo la vita a esorcizzarla, a far finta che non ci sia, che non ci riguardi, convinti che è cosa che capita agli altri, augurandoci di morire nel sonno così non saremo costretti a pensarci..
Viviamo con gli occhi bendati, ostinandoci a negare l’unica cosa certa che non ha risparmiato neanche il figlio di Dio, che ha voluto in tutto essere solidale con l’uomo da condividerne persino il destino di morte, non scegliendo sicuramente la più indolore.
Già morire è una brutta parola, che fa venire i brividi lungo la schiena, solo a pronunciarla..Ma cosa significa, cosa nasconde questo evento, su cui Gesù ci chiama a riflettere, specie nella Settimana santa che stiamo vivendo?
“Se qualcuno vuole venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno, e mi segua. .Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà”.( Lc 9,22-24).
A quale morte Gesù ci chiama? Forse a quella fisica che è scontata per tutti? Sicuramente no, visto che non c’era bisogno che si scomodasse tanto perché ne prendessimo atto.
Il senso lo dobbiamo cercare in quel rinnegare noi stessi, che non è automatico, che non dipende dalle circostanze e dagli altri, è quel farsi da parte, diventare piccoli piccoli, appoggiandosi a Lui perché la morte sia sconfitta per sempre.
Rinnegare se stessi è morire alle nostre idee, ai nostri progetti, alla nostra volontà, per fare spazio alla Sua, questo è l’invito che dobbiamo accogliere, mettendoci in cammino alla volta di Gerusalemme, dove ad aspettarlo c’era l’unica morte che dà la vita, quella spesa per gli altri.
Il deserto fu la palestra dove imparò a morire, come uomo, lottando contro la tentazione del successo, del prestigio, del potere, delle conoscenze e delle parentele che contano, dell’autosufficienza, lui che era Dio e che volontariamente aveva rinunciato a tutto questo il momento in cui, incarnandosi, aveva consegnato la sua volontà al Padre.
Nel deserto imparò a morire a sé stesso fidandosi di Lui, dando allo Spirito la possibilità di riempirlo a tal punto da non temere nulla, nemmeno la morte.
Pur sapendo a cosa andava incontro, Gesù non decide di cambiare strada, cercandone una più agevole e meno pericolosa, perché la molla del suo agire era l’amore, che lo legava al Padre e a tutti quelli a cui Lui l’aveva mandato.
“Io sono la via, la verità la vita”, le parole di Gesù, e dobbiamo credergli, se per testimoniarne la verità, ha pagato un prezzo così alto.
Ma solo se ne facciamo esperienza, ci accorgiamo che queste ci danno la forza di scavare, strade lì dove apparentemente non esistono e arrivare con certezza ad un traguardo che non delude.
La scorsa volta concludendo la lettera al dottore di Milano, mi chiedevo se avevo trovato la strada, se era così importante cercarla, se era valsa la pena sfiancarsi a quel modo.
Era il 1996 e la mia fiducia la riponevo ancora tanto negli uomini e nei loro rimedi.
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Da "Il gioco dell’oca"
Quante cose erano successe da quando Daniela mi aveva annunciato che aspettava un bambino!
Erano passati appena due mesi da quando inaspettatamente me la vidi comparire all’Istituto di riabilitazione che ormai da un anno frequentavo.
Piccola, minuta, con gli occhi smisuratamente grandi, era tornata al lavoro dopo un lungo periodo di assenza.Ne avevo sentito parlare come l’unica fisioterapista del Centro che avrebbe potuto aiutarmi. Ma non pensavo fosse possibile.
Il suo terzo bambino, affetto da una rara e terribile malattia genetica, si era ammalato ancora. Questa volta era stato il cervello a farne le spese, attaccato da un carcinoma.
L’avevo immaginata con il volto scavato, prostrata dal peso di una croce così pesante.
Appena la vidi, capii subito che l’esperienza del dolore le aveva dato una forza non comune per se e per gli altri.
La paura di non trovare le parole per parlarle dei miei problemi, poca cosa di fronte a ciò che le era capitato, svanì di fronte alla sua capacità di mettersi in comunicazione con la sofferenza altrui.
Così mi potei presentare a lei con la mia disperazione e con la voglia mai doma di provare ancora l’ultima chance.Mi confermò la diagnosi dell’osteopata, dal quale ero in cura già da un anno senza successo.
La cosa incredibile era che esisteva un rimedio!
Mi parlò del metodo Bertelè, un programma di rieducazione posturale, assicurandomi che ce l’avrei fatta.
Così cominciai la nuova avventura con una gran voglia di riuscire e con lo spirito di sempre, incurante dei tremendi dolori alle gambe e alle braccia, che si scatenavano dopo ogni trattamento e che mi riducevano spesso all’immobilità.
Ero confortata però dal fatto che, da quando avevo iniziato la cura, di tanto in tanto il dolore sembrava allentarsi, concedendomi un po’ di tregua.
Aspetto un bambino, disse.
Come farò adesso?
Anche l’ultima esile speranza mi sfuggiva di mano.
Subito mi vergognai di aver egoisticamente pensato a me più che a lei. L’aspettava una gravidanza a rischio, quando era ancora alle prese con la terribile esperienza dell’ultimo nato.
Come potevo illudermi che potesse continuare ad occuparsi di me? A torto pensai che non l’avrei più rivista.
Mi dica dove ha studiato; quand’anche fosse la luna ci andrò.
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La luna, quella che aveva incantato Giovani e me quel pomeriggio che non sembrava mai finire, la luna, il luogo dei sogni irrealizzati e irrealizzabili, lontana quanto basta per non deluderti, se ti venisse la voglia di farci un viaggio, trascorrervi una vacanza.
Senza acqua, né aria, sicuramente ti passerebbe la voglia di andare così lontano, per trovare ciò che hai vicino, a portata di mano e non te ne accorgi.
La luna era Champoluc, dove la dottoressa inventrice del metodo applicato da Daniela si trasferiva l’estate con tutto il suo staff, ma a differenza di questa, non bisognava prendere un’astronave, per arrivarci, e di aria e di acqua ne aveva d’avanzo per dare vita ad un paesaggio da mozzafiato con il massiccio del Monte Rosa che si stagliava alle spalle e i boschi e i torrenti e il sole che faceva brillare la neve sulla cima del grande ghiacciaio e le case immerse nei fiori e tutto quanto neanche la fantasia riesce ad inventare.
Poi l’albergo di lusso, i terapisti, la dottoressa impeccabile con il suo camice bianco e i malati…
Già i malati erano l’unica cosa stonata in quella cornice di sogno.
Erano quasi tutti bambini e ragazzi, gli ospiti dell’albergo, affittato per l’occasione dall’equipe del Centro di ascolto,qualche mamma, qualche nonna e…molte badanti.
Erano i figli dei ricchi che se lo potevano permettere di parcheggiarli in quel luogo per andare finalmente in vacanza.
Il dolore innocente, quello incontrai in quel luogo, la luna che, come quella che si staglia nel cielo, ha il suo rovescio, se poco poco ti ci avvicini.
I malati, i grandi malati li avevo incontrati negli ospedali, ma i bambini no, mai… anzi sì, ora ricordo, il primo anno che insegnai a Francavilla in un Istituto di poliomelitici.
Allora non avevo strumenti per vedere, i loro occhi tristi, i loro stanchi sorrisi.
Non mi parlarono le loro stampelle, né la disarmonia dei loro corpi straziati.Non mi accorsi che non c’erano madri, né nonne, né badanti che li accudissero, che erano stati affidati alla carità e alla pietà dello stato che non sapeva o poteva fare di meglio che lasciarli chiusi là dentro.
Trent’anni dopo mi trovai a soffrire con loro e per loro, quelli che la società accantona e nasconde, per la prima volta affondando i miei occhi nei loro, cercando di carpirne il sorriso con una stretta più forte della mano, con il tocco leggero delle dita ad imitare una carezza, con l’incapacità di andare oltre per paura di perdermi.
Quando, finite le terapie, una sera con la dottoressa ci recammo alla baita, arroccata sulla montagna, per incontrare un prete in esilio che celebrava le messe in soffitta, e ci mettemmo a parlare di Dio, urlai con quanto fiato avevo in gola, che Dio è amore, per convincere me prima di tutti, ma fui prontamente smentita da chi pensava di saperne di più.
Lui, il santone, mischiando sacro e profano, non ci stava ad affermare ciò che lo avrebbe portato nella sfera dei giusti, del Giusto che non si dovette nascondere per proclamare la verità e che in esilio c’era venuto per testimoniare l’amore,. L’amore del Padre che aveva donato suo figlio per celebrare la Pasqua con noi e la messa non avesse mai fine.
Canto:Gloria al Signore che salva
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Da "Il gioco dell’oca"
1996
L’esperienza fatta a Champoluc, non aggiunse nulla a ciò che ormai avevo capito, grazie alle sollecite e sapienti cure di Daniela.
Dalla dottoressa mi aspettavo molto di più di quello che fu in grado di darmi.
Ma se da un punto di vista umano, fin dal primo momento, qualcosa non funzionò tra me e lei, da un punto di vista strettamente professionale, mi dette indicazioni e consigli di cui feci tesoro.
Fu grazie a lei che conobbi il dottor R., fu lei che mi fece notare la mia intrinseca difficoltà ad accettare il dolore, ad andargli incontro senza irrigidirmi.
Non volle sapere nulla di me, non prestò ascolto né quella volta, né le successive a ciò che le andavo dicendo, come se già tutto sapesse.
Quell’esperienza mi aiutò a capire che non esistono verità assolute e che tanto più grandi sono le aspettative, tanto più doloroso è doversi ricredere.
Comunque eseguii a puntino tutto quello che lei ritenne utile al mio caso, comprese le terapie che fui costretta a fare a Pesaro, in attesa che Daniela tornasse al lavoro.
Il ricordo di quei viaggi con scadenza settimanale è allucinante.
Continuai, nonostante che, dopo ogni trattamento, non fossi in grado per molti giorni di muovermi senza essere straziata da spasmi dolorosissimi..
Continuai perché ci credevo, perché non avevo scelta, perché non si dicesse che gettavo la spugna alla prima difficoltà, perché ero convinta che quel metodo era giusto.
Ma ci sono terapisti e terapisti.
In quel periodo ne cambiai tanti, ma non tutti riuscivano a dare al mio corpo gli stimoli giusti per farlo tornare a funzionare.
Ero sicura che prima o poi qualcuno ci sarebbe riuscito, anche se non sapevo quando.
L’unica a non crederci fu la dott. B. che mi congedò in occasione dell’ultima visita con un laconico biglietto, in cui si diceva che quella terapia non faceva per me.
Non furono dello stesso avviso Daniela e il dott. R., che mi consigliarono di insistere.
Convinta che era solo questione di tempo, mi armai di pazienza, pronta ad affrontare qualsiasi disagio, dolore o sofferenza, pur di arrivare alla meta.
Avevo trovato la strada. Chi avrebbe potuto fermarmi?
Così, almeno pensavo.
La strada passava per Champoluc, per i suoi boschi, per le sue montagne, ma anche e soprattutto per le persone che vi incontrai, per la sofferenza di cui traboccava l’albergo che ci ospitava, per quell’uomo, ritenuto un santone che non voleva credere alla misericordia di Dio, per il desiderio di cercarla lì dove mai avrei pensato che fosse, per Daniela che doveva mostrarmela tutta, non attraverso l’handicap del suo bambino malato, né quello di tanti suoi pazienti di cui continuava a parlarmi, ma nel suo donarsi a tutti quelli che a lei chiedevano aiuto o di cui lei percepiva il bisogno.
Daniela mi mostrò il volto misericordioso di Dio attraverso l’amore che passava per lei, per le sue mani, per il suo cuore, quell’amore che non risparmiò l’Innocente, il figlio di Dio dal patire e dal morire, perché si smettesse per sempre di soffrire e di morire..
Solo ieri Gesù, a cavallo di un asino entrava in Gerusalemme, in un tripudio di folla osannante, poi il tradimento, l’abbandono, il Calvario, la croce.
E’ questa la fine della strada?
……………………………………………………….
5 aprile 2004
Venticinque anni, tanti ce ne sono voluti, perché mi accorgessi dove portava la strada che ogni mattina osservavo affacciandomi dal balcone della cucina.
Era bella, piena di vita, al tramonto, l’estate, quando i bambini, attratti dalla frescura, si divertivano a giocare a pallone o si lanciavano sulle biciclette e i tricicli, perché di macchine ce n’erano poche e la strada era chiusa lì in fondo.
L’estate le piante di more s’insinuavano tra i muretti sbrecciati, le coppiette si stringevano più forte dietro le piante di fichi, una festa, le sere di agosto con il sole che, tramontando, restituiva un po’ di ombra alla terra assetata della strada, che non era ancora stata asfaltata.
Che portasse al cimitero non me n’ero mai accorta, per via di quel pino che hanno tagliato da poco e che lo nascondeva ai miei occhi
Ora è dritta, davanti a me, mentre scrivo e penso alla festa che deve venire, ma che sento già invadere l’aria e permeare di sé i cuori guariti dal pianto e dalla paura..
Quante morti dovevo subire, quante accettare per guardare oltre il pino tagliato e non smarrirmi, quel pino che per tanti anni aveva materialmente e idealmente chiuso e concluso la strada, nascondendo ai miei occhi le tombe del cimitero, sparpagliate sulla collina, ombreggiate dal verde degli alberi che tenevano al riparo da sguardi indiscreti il sonno dei suoi abitanti.
Dovevo imparare a morire, pian piano sentirmi l’accetta addosso di quel figlio che se ne andava, nella sua casa di sposo, di quel pino tagliato di fresco che mi aveva svelato il segreto che nascondeva, l’accetta di quel bambino che con la sua malattia mi aveva tolto Daniela e di quell’altro che reclamava sua madre perché voleva nascere e aveva tutti i diritti a portarmela via, l’accetta di quella terapia ritenuta miracolosa, che avrebbe dovuto liberarmi dall’handicap da cui volevo fuggire, l’accetta impietosa di una fine che arriva inaspettata, quella di mio fratello, la prima volta che non avevo trovato rimedi.
Quel fratello mi era venuto ad abitare vicino, dopo anni di lontananza e lo potevo vedere ogni mattina, quando mi alzavo e aspettavo che uscisse il caffè, dalla finestra della cucina.
Questa strada ora osservo e mi parla di morte e di vita attraverso le foglie degli alberi che sono spuntate sui rami, attraverso il sole che ogni giorno scompare dietro le case del cimitero, attraverso la luce che lo rischiara quando al mattino si alza nel cielo, attraverso la forma mutata di una strada, da poco asfaltata, dove prepotenti lampioni oscurano le piccole luci della grande casa dei morti che riposano sulla collina.
…………………………….
Un Dio di amore che è venuto a predicare la morte, come avrebbe potuto convincermi? Come io avrei potuto convincere gli altri che era vero il contrario?
Nell’ultima cena ho trovato la chiave per entrare dentro il mistero di una morte che dà la vita, di un albero spoglio issato sulla collina, che continua a germogliare e a saziare tutti quelli che hanno fame e sete di amore, tutti quelli che cercano Dio.
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Preghiera
Signore ti ringrazio perché mi hai dato la vita, per godere della vita, non della mia Signore, ma della tua quella che tu hai donato sulla croce, quella che ci chiami a donare ai nostri fratelli.
Ti lodo ti benedico perché sei un Dio di amore, perché mi chiami all’amore, perché in me e in ogni uomo hai messo il desiderio insopprimibile di te.
Ti ho incontrato inchiodato ad una croce, mentre ti cercavo nel cielo, nelle stelle, nello spazio infinito, azzurro e astratto dei miei sogni, delle mie fantasticherie .infantili..
Ti cercavo Signore dovunque c’era grandezza, potenza, gloria, ti ho incontrato nudo, piagato, sofferente, coronato di spine, inchiodato ad un legno..Ti ho cercato nella vittoria, ti ho incontrato nella sconfitta, ti ho cercato in alto e ti ho incontrato mentre ti accingevi a lavarmi i piedi.. Ho guardato il tuo volto sfigurato, il tuo corpo piagato, la tua nudità blasfema e ti ho riconosciuto. Quel volto dell’amore che non riuscivo a trovare lontano, tu l’ hai mostrato a me nella pena dipinta sul volto dei miei fratelli che cercavano una carezza, un bacio, un gesto di tenerezza a cui tu mi chiamavi, l’amore che non dovevo aspettarmi dagli altri ma che dovevo dare a quelli incontrati sulla mia strada.
Signore ti ringrazio dell’invito che fai ad ogni uomo prima di metterti in cammino sulla strada che porta al calvario, quello di cenare con te, ti ringrazio di quel pane e di quel vino, viatico indispensabile perché possiamo aspettare senza paura la tua ora, la nostra ora.
Canto:Davanti a questo amore
5 aprile 2004