5 gennaio 2000

Dal diario di Antonietta
Il 5 gennaio era la data fatidica, per rimuovere il gesso che mi aveva imbalsamato 10 mesi prima.
Ma ad aspettarmi non c’erano ali che mi facessero librare in volo come una farfalla, finalmente libera dal bozzolo.
Il rumore della sega elettrica che si muoveva sul mio corpo imbalsamato non disturbava le mie orecchie, tutte protese a sentire il tonfo di ciò che era diventato ormai inutile sostegno.
Mi svegliai dal sogno quasi subito.
Perché non riuscivo a stare in piedi?

Questo mi portò la Befana con un giorno d’anticipo il 5 gennaio del ’77, proprio perché l’opulento e ricco Babbo Natale si era fatto beffe di me regalandomi, l’anno prima, una pelliccia che non feci in tempo ad indossare e che mai indossai, perchè da quel giorno mi misi a letto ad aspettare che il tempo passasse e l’incubo finisse.
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Ne dovevo fare di strada per incontrare il dono giusto, fatto su misura per me,un altro 5 gennaio!
Dovevo mettermi in viaggio con i Magi e con loro accettare la fatica della ricerca, la stanchezza del cammino, il tempo dell’attesa.
Allora i re Magi, la stella cometa erano simboli, astratti e lontani, di una festa che non mi parlava di Dio
Ma proprio loro sono stati i simboli del presepe, che più mi hanno portato a riflettere.
Chi ero io, chi questi incomprensibili personaggi, che sembravano appartenere ad un altro copione, ad un’altra storia che non quella semplice di povera gente qualunque, artigiani, contadini, pastori, di un villaggio sperduto della Galilea di 2000 anni fa?

I re Magi sono stati i battistrada, con loro mi sono messa a seguire la stella, con loro mi sono fermata a chiedere dov’era il re dei Giudei, perché potessi adorarlo.
Poi il deserto, quel deserto che mi sono lasciata alle spalle, esteso a perdita d’occhio, la paura di smarrirmi tra le dune di quel mare di sabbia, fino a quando ho visto la stella fermarsi a indicarmi dov’era il Bambino…
Era il 5 gennaio del 2000
I lontani, i sapienti, i ricchi della terra, anche a loro, a me era, è dato vedere, sentire, adorare!
Il 5 gennaio del 2000, finalmente sono entrata dentro la grotta!
Erano secoli che camminavo, secoli, non il tempo che dista dal Natale alla Befana…
Mi sono fermata il 5,…il Signore ha avuto pietà… non mi ha fatto camminare ancora… un giorno prima sono arrivata, ma Lui era lì ad aspettarmi….Erano 2000 anni che mi aspettava…nella messa, la sera prima dell’Epifania…
La parola la stessa: ”Ti adoreranno, Signore, tutti i popoli della terra” s’incarnò nella mia vicenda personale e mi trovai, senza saperlo, mischiata ai pastori e ai re magi a contemplare il miracolo dell’amore di Dio.
E pensare che quegli strani personaggi, li solevano nascondere in un anfratto dell’ultimo monte e da lì si ricacciavano la notte della Befana.
La notte della Befana la ricordo come la più lunga, anche se noi non ci decidevamo mai a chiudere gli occhi, e spesso facevamo le finte perchè volevamo in anicipo i doni.
Tutto ciò che era stato nascosto quella notte veniva alla luce, i doni il Dono, i re, il Re.
Strane analogie che rivelano il significato arcano di questa magica notte in cui pastori e re s’inchinano davanti al Santo Bambino, perché Lui non fa distinzioni e non ha preferenze: per tutti c’è il dono infinito di un Dio fatto uomo, perché l’uomo divenga simile a Lui.

Quest’anno, quando ho visto il presepe fatto sotto all’altare, ho pensato che proprio erano rimasti in pochi, quelli che si sobbarcavano la fatica di prepararlo, e si erano ridotti a farlo la vigilia, con poche idee, e ancor meno strumenti, un presepe senza pretese, più piccolo e con tante statuine mancanti.
Erano soliti farlo in fondo alla chiesa, liberata dai banchi e da tutto ciò che era d’intralcio a farci entrare tutto, il grande fondale azzurro e i monti e i villaggi, le statuine in movimento, il deserto e la grotta più grande della città, che non lo aveva voluto quel bambino, davanti al quale erano fermi i pastori, estasiati, ammirati, stupiti..
“I pastori non ci sono entrati”, mi ha risposto don Gino, quando gli ho chiesto che fine avevano fatto; ma io subito mi sono consolata, pensando che i pastori eravamo noi, invitati a quella povertà di spirito che rende capaci le orecchie di ascoltare per primi l’annuncio degli angeli, per potere dai banchi direttamente recarci alla grotta.
Era un invito a farci piccoli, quel presepe. Ma c’era posto per tutti?
Il bambinello, sicuro ce lo avevano messo, ma era difficile vederlo, dentro la grotta. Una pecora lo copriva in parte o del tutto, a seconda del posto di osservazione, ma dietro la testa spuntavano le orecchie delll’asino, che sembravano da lontano due corna nere.
Poi il motorino, montato al contrario, faceva andare in retromarcia l’asino intorno al pozzo e nel cielo non c’era nessuna stella. Un presepe montato a rovescio, che ti faceva venir voglia di sollevare lo sguardo, di andare oltre i pizzi della tovaglia, perfetti e preziosi che scendevano da sopra l’altare e il parte fungevano da cielo di quello squarcio di mondo riuscito un po’ male.
La culla era lì sopra, ad accogliere colui che rende il presepe perfetto, quello dove non mancano i pezzi, dove trova posto un cielo senza stelle, una grotta senza pastori.
Ogni giorno la mensa è imbandita, per accogliere un Dio fatto uomo, che ubbidisce alle parole di un sacerdote, per trasformare il pane ed il vino in ciò che possiamo vedere, toccare, adorare, accogliere.
Lui, la vita, dà vita ai nostri presepi, dà loro un senso e rimette a posto le statue di gesso e i paesi e i villaggi e fa brillare le luci nel posto giusto e fa smettere di far andare i motorini al contrario, perché diventa lui il motore, che permette alla gente di smettere di fare le stesse cose, e di cominciare a camminare, tendendo le orecchie al coro degli angeli che cantano il gloria, affrettando il passo verso la luce che viene dal cielo e che illumina, in modo inequivocabile, la strada per arrivare alla grotta, andando oltre, guardando sopra…sopra l’altare.
Quel 5 gennaio del 2000, Gesù era lì ad aspettare per mostrarsi finalmente svelato a me, che ero stanca, stremata dal duro e faticoso cammino, da una marcia che sembrava non avere mai fine.
Ora non devo più aspettare che passi la notte della Befana, per sperare che mi arrivino i doni, non devo chiudere gli occhi e far finta di stare a dormire, come quando ero bambina.
Ora basta che sposti lo sguardo e ogni giorno diventa Natale e ogni momento è Epifania del Signore.
Non c’è pecora che mi ostruisca la vista, non c’è pastore o re che non mi parli di Dio.

IL MIO ALBERO

9-03-1944/9-03-2015


Ora che il mondo lo vedo girare, perché ho imparato a fermarmi, che i colori li ho stampati nel cuore, quelli dei sentimenti vissuti e accettati, mi chiedo che ne è stato del “gioco dell’oca”, dei dadi che per anni ho continuato a gettare, sperando, una volta arrivata alla meta, di vincere quell’assurda partita portata avanti da sola.
L’infanzia tradita, l’”arrangiati!” portato all’estremo, la malattia a ricordarmi che non bastavo a me stessa, la normalità cercata nello stare seduta, il farmi piacere le cose anche quando le avrei vomitate, il non volersi arrendere all’evidenza di un handicap, insopportabile per chi la vita la viveva correndo, il non voler ammettere che non c’era speranza, perché tutte le cose hanno un termine, dove sono andati a finire?
Quanti anni sono passati da quest’oggi vissuto nell’ascolto della voce che viene da dentro, di quella che mi torna da ciò che mi si pone dinanzi, che si unisce alla sinfonia del creato per portarmi prostrata a pregare per tutte le cose che sono, per quelle che riesco a capire, per quelle che non capisco, perché è dolce l’incontro con Lui quando viene improvviso a spiegarmele.
Con lo sguardo perso nel tempo, affondandovi forte le dita, cerco l’albero da cui sono uscita, per trovarvi scritto nei cerchi ciò che unisce i pezzi della mia storia.
Percorrendo la valle della memoria, lo vedo, nella terra, stendere le sue radici, insinuarsi nei suoi tanti e misteriosi meandri, fondersi con le sue viscere vive.
Lo guardo, mentre sbuca tra i sassi, attraverso le crepe del suolo, mentre cerca di sollevarsi a fatica verso il cielo, per catturarne la luce..Il mio albero è questa mia vita, che ieri mi appariva contorta, una pianta da sradicare perché, a guardarla un po’ più da vicino, non era bella per niente: la corteccia piena di tagli, di ferite che non si rimarginano, il tronco storto da un lato, mutilato nelle sue braccia, le foglie in parte ingiallite, malate, le migliori cadute ai suoi piedi, quelle che avrebbe voluto riprendersi, se ne fosse stato capace..
Il mio albero voleva vivere libero, senza dar conto a nessuno.
Lo spazio non lo voleva dividere, perché ne aveva bisogno per tenersi stretti quei rami belli e vitali che, pur togliendo forza al suo fusto, era un peccato tagliare.
Ma lo sforzo diventava sempre più grande per sostenere l’inutile peso.Il mio albero ha imparato a morire, ad amare le sue cicatrici ,quelle che segnano il tempo lungo ,faticoso e sofferto della sua crescita.
Ha imparato ad accogliere tra i suoi rami, divenuti robusti, gli uccelli che al mattino lo svegliano, i piccoli insetti che lo percorrono, attingendo la linfa da lui.
Il mio albero oggi lo guardo e ringrazio quella Croce non a caso incontrata, dove né fiori né foglie abbelliscono il legno, ma Colui che mi ha riportato alla vita.

Epifania

Quando entrai per la prima volta in quella che era la mia chiesa, non sapevo cosa avrei trovato, né subito capii l’importanza di quel gesto, l’importanza di quella parola, l’unica che mi colpì in un tardo e freddo pomeriggio invernale.
I muri bianchi e disadorni non attirarono il mio sguardo per apprezzare le opere d’arte di cui spesso le chiese sono ricolme, né mi attrasse la gente che, rada, occupava i banchi e con la quale mi mischiai, non senza pregiudizio.
Non mi distolse dai miei pensieri il loro abbigliamento, né i canti che salivano stonati dalla navata, né l’aspetto, né l’eloquio del sacerdote che celebrava la Messa.
Non fui consolata neanche dallo scambio del segno della pace, perché il mio compagno di banco nel frattempo si era assopito.
Ricordo il buio e il freddo della chiesa, ricordo le orecchie tese a non lasciarmi sfuggire una parola di tutto ciò che il sacerdote diceva, ricordo i miei occhi sgranati a riempirmi di quello scampolo di vita che bene o male veniva a popolare il mio mondo, ormai tutto vuoto e che pensavo morto per sempre, ricordo tutti i miei sensi protesi a carpire qualcosa da poter portare con me una volta che la funzione fosse finita e anche i battenti di quel luogo si fossero chiusi.
“L’uomo crede di essere Dio, ma non é Dio”.
Fu allora che il mio sguardo si posò sul crocifisso che campeggia sopra l’altare… Approdata finalmente nel porto, potevo guardare il mare in tempesta e senza paura osservare le onde che si alzavano e si inabissavano, senza che un brivido freddo impietrisse le membra ed il cuore. Potevo nuotare nel mare calmo della mia Chiesa, incurante che l’acqua bagnasse i capelli, che la testa non rimanesse sospesa sopra la vita, che sola fluiva all’interno di quell’oceano che mi aveva scoperto le sue meraviglie.
Quel Dio per tanti anni cercato nei libri, nelle dispute dotte, nella profondità dei cieli infiniti, l’avevo trovato nel mio limite, finalmente accettato, nel mio consapevole bisogno d’aiuto.
Era il 5 gennaio del 2000

Anniversario

La resa
L’estate, che era nel pieno, se non era riuscita da sempre a farmi risorgere, come avrebbe potuto quell’anno cambiare il copione? Ingloriosamente e dolorosamente sui giorni si avvolsero i giorni e luglio e agosto finirono.
Ma a settembre non c’era ad attendermi l’ansia di ricominciare un lavoro amato sopra ogni altra cosa, ma le vacanze obbligate, non chieste, temute, imposte da chi non sapeva che farsene di una che faceva così tanta fatica a spostarsi.
Il primo settembre del 1999 andai ufficialmente in pensione, non più obbligata a rispondere se e quando sarei guarita.
Potevo finalmente permettermi di andare dove volevo a curarmi, senza contare minuti, ore e chilometri. Finalmente libera di ammalarmi o guarire senza rendere conto a nessuno. Del tempo che mi accinsi a percorrere, partendo da quel momento, non ricordo gioia o dolore, ma solo la sensazione di trovarmi in un paese straniero, sempre più estranea agli altri e a me stessa, cercando il foglio smarrito di ciò che dovevo dire, fare o pensare. Ma che senso aveva continuare a declamare la parte, se tutti se n’erano andati?
Il tempo da amico divenne nemico, perché amplificava i secondi, i minuti, le ore implacabilmente accompagnati da un silenzio spettrale nel deserto di un’anima che senza meta, brancolando, continuava a cercare. Sempre più strette, le maglie della prigione aderivano alla mia pelle, imbrigliando i movimenti, impedendo agli occhi di vedere fuori il sole, i colori, la vita che aveva cessato di appartenermi.
Chi ero io, dove andavo, da dove venivo, di cosa avevo bisogno, a chi poteva importare, ora che lo spettacolo era finito? Quell’ultima parte l’avevo recitata in modo così magistrale che avevano tutti finito per crederci che ero di ferro, che niente e nessuno poteva piegarmi.
Anche io avevo finito per crederci e non mi riusciva di recitare una parte che nessuno mi aveva insegnato. L’indipendenza, perseguita per anni con forza, con tenacia, con fede, sempre più era smentita dai fatti, da ciò che inspiegabilmente mi continuava a succedere, da tutte le malattie invalidanti che sempre mi riproponevano il dramma della sua negazione. Di questa avevo fatto un valore assoluto, da quando dovetti fare a meno per forza, a poco più di un anno di vita, del caldo e sicuro rifugio di braccia che troppo presto avevano allentato la presa.
Da quel momento avevo imparato a fare da sola anche quello che nessuno mi aveva insegnato, convinta dai fatti che non avrei mai trovato qualcuno disposto a fermarsi e a chiedersi perché avevo smesso di ridere, perché avevo un solco in mezzo alla fronte, perché il mio pianto era più forte di quello di tanti altri bambini, perché avevo, una volta ricongiunta a mia madre, cominciato a , mangiare a tal punto da vergognarmene io e i miei familiari…. perché quell’andare sempre più curvo.
Arrangiati!… arrangiati!… arrangiati! A queste le parole per tutto il corso della mia vita avevo obbedito, facendole mie, tanto da diventare maestra in quell’arte. Ma era giunto il momento della resa dei conti, il momento in cui tutti i nodi vengono al pettine.
Quando non c’è più nulla per cui valga la pena di arrangiarsi, quando la tua stessa vita vale meno che niente, quando a nessuno interessa quell’arte che hai imparato a memoria, perché non serve a rispondere ai loro più segreti bisogni, quando in mano non ti rimane che un pugno di sogni svaniti nel nulla, le tue delusioni cocenti, la tua impotenza per anni negata e mascherata, la tua dipendenza pesante quanto un macigno e mai accettata, è allora che si piegarono le mie ginocchia.
Era il 5 gennaio del 2000.
….

Approdata finalmente nel porto, potevo guardare il mare in tempesta e senza paura osservare le onde che si alzavano e si inabissavano, senza che un brivido freddo impietrisse le membra ed il cuore. Potevo nuotare nel mare calmo della mia chiesa, incurante che l’acqua bagnasse i capelli, che la testa non rimanesse sospesa sopra la vita, che sola fluiva all’interno di quell’oceano che mi aveva scoperto le sue meraviglie. Quel Dio per tanti anni cercato nei libri, nelle dispute dotte, nella profondità dei cieli infiniti, l’avevo trovato nel mio limite, finalmente accettato, nel mio consapevole bisogno d’aiuto.

Tratto da "Il Gioco dell’oca"

9 marzo 1944 – 9 marzo 2008

Oggi, giorno del mio compleanno, voglio condividere con voi la gioia di non essermi affaticata invano, alla ricerca del senso di una vita lontana anni luce da quella che mi aspettavo e che credevo poter costruire con le mie mani. Le pagine conclusive del "Il gioco dell’oca", dove sono confluite tutte le esperienze antecedenti il 2000, sono più eloquenti di quanto oggi potrei dire a riguardo.

 

Il mio albero

 
Ora che il mondo lo vedo girare, perché ho imparato a fermarmi, che i colori li ho stampati nel cuore, quelli dei sentimenti vissuti e accettati, mi chiedo che ne è stato del “gioco dell’oca”, dei dadi che per anni ho continuato a gettare, sperando, una volta arrivata alla meta, di vincere quell’assurda partita portata avanti da sola.
L’infanzia tradita, l’arrangiati portato all’estremo, la malattia a ricordarmi che non bastavo a me stessa, la normalità cercata nello stare seduta, il farmi piacere le cose anche quando le avrei vomitate, il non volersi arrendere all’evidenza di un handicap, insopportabile per chi la vita la viveva correndo, il non voler ammettere che non c’era speranza, perché tutte le cose hanno un termine, dove sono andati a finire?
Quanti anni sono passati da quest’oggi vissuto nell’ascolto della voce che viene da dentro, di quella che mi torna da ciò che mi si pone dinanzi, che si unisce alla sinfonia del creato per portarmi prostrata a pregare e lodare il Signore per tutte le cose che sono, per quelle che riesco a capire, per quelle che non capisco, perché è dolce l’incontro con Lui quando viene improvviso a spiegarmele.
Con lo sguardo perso nel tempo, affondandovi forte le dita, cerco l’albero da cui sono uscita, per trovarvi scritto nei cerchi ciò che unisce i pezzi della mia storia.
Percorrendo la valle della memoria, lo vedo, nella terra, stendere le sue radici, insinuarsi nei suoi tanti e misteriosi meandri, fondersi con le sue viscere vive.
Lo guardo, mentre sbuca tra i sassi, attraverso le crepe del suolo, mentre cerca di sollevarsi a fatica verso il cielo, per catturarne la luce..
Il mio albero è questa mia vita, che ieri mi appariva contorta, una pianta da sradicare perché, a guardarla un po’ più da vicino, non era bella per niente: la corteccia piena di tagli, di ferite che non si rimarginano, il tronco storto da un lato, mutilato nelle sue braccia, le foglie in parte ingiallite, malate, le migliori cadute ai suoi piedi, quelle che avrebbe voluto riprendersi, se ne fosse stato capace..
Il mio albero voleva vivere libero, senza dar conto a nessuno. Lo spazio non lo voleva dividere, perché ne aveva bisogno per tenersi stretti quei rami belli e vitali che, pur togliendo forza al suo fusto, era un peccato tagliare.
Ma lo sforzo diventava sempre più grande per sostenere quell’inutile peso.
Il mio albero ha imparato a morire, ad amare le sue cicatrici quelle che segnano il tempo lungo faticoso e sofferto della sua crescita, ha imparato ad accogliere tra i suoi rami, divenuti robusti, gli uccelli che al mattino lo svegliano, i piccoli insetti che lo percorrono attingendo la linfa da lui.
Il mio albero oggi lo guardo e ringrazio quella Croce non a caso incontrata dove né fiori né foglie abbelliscono il legno, ma Colui che mi ha riportato alla vita
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Dal libro dell’Apocalisse di Giovanni. apostolo.
"Io, Giovanni, vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più.
Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: ” Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il “Dio con loro”.E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate”.
E colui che sedeva sul trono disse.”Ecco io faccio nuove tutte le cose”

La vita adesso. 

Non è astratta chimera
Non è leggera farfalla che non si lascia afferrare
E’ la mia vita di sempre

Dolore assillante
Sonno svanito
Lavoro negato
Attesa non sempre paziente nello studio del mi dica… di turno

Fermarsi a pensare, ad osservare il palpito sottile e nascosto della natura che cresce
Chinarsi a raccogliere le tante briciole sfuggite di mano a chi non ha tempo da perdere
Stupore inatteso di fronte allo sgorgare dell’essere
Gioia genuina
Ubriacatura sottile
Incanto perenne per ciò che non pensavo che fosse
Librarsi ardito nell’aria senza avere paura
Calore che scalda le ossa anche nell’inverno più freddo
Riposare pregando quando tutti sono intenti a dormire
Melodia dolce che attraversa la notte nel silenzio assoluto
Canto che fluisce libero e fiero dalla gola ostruita
Luce che mi circonda anche nella nebbia più fitta
Calma dentro la barca mentre fuori c’è la tempesta
Fiducia in chi è guida e nocchiero poiché è Lui che domina i venti
Osare ogni momento che passa
Sfida continua con l’io più profondo che vuole continuare a pensare
Sentirsi forte del rischio di perdere le cose che pensavo più care
Ebbrezza goduta
Ansia, attesa, possesso di Dio nell’incontro ogni giorno cercato
Spazio ristretto che si dilata
Riuscire a fermare il tempo che fugge e saperne apprezzare il sapore
Vivere senza domande di troppo
Morire senza rimpianti di nulla

Saper finalmente osservare il volto delle cose e delle persone che mi stanno davanti, amandole senza volerle cambiare, senza pretendere che diventino altre da quelle che sono.

 

A mamma e papà, di cui ho imparato ad apprezzare pian piano l’affetto silenzioso e pudico, i sentimenti profondi, ad amarne la forza e la debolezza; a loro che ho imparato ad accogliere con gioia, con tenerezza, nel mio cuore finalmente guarito, va il mio grazie sincero.
Grazie, mamma, per quel piccolo segno di croce che tracciavi sulla mia fronte, prima di andare a dormire, grazie per la tua fede semplice ma vigorosa; grazie, papà, perché nella tua lontananza ora vedo la premura per noi a cui non volevi mancasse ciò di cui tu non avevi potuto godere, quando piccolo ne avresti avuto bisogno.
Grazie, mamma, grazie papà, perché pur essendomi parsi molti i giorni in cui eravamo lontani, molti di più sono stati quelli in cui mi siete stati vicini, senza stancarvi, senza mai pensare o dire che troppo era il tempo a me dedicato.
Quel tempo ora vorrei ripescare, quel tempo sì che vorrei catturare, fermarlo nel suo continuo fluire, per  rivalutare i ricordi, facendo emergere la nostra parte migliore, a lungo celata, sfuggita alla nostra fretta impaziente e sorridere e stupire per il segno non più misterioso della presenza di Dio nella vita di ognuno di noi.

 

 

"L'uomo crede di essere Dio, ma non è Dio

 

Il gioco dell’oca

Di questo libro é nato prima il titolo: "Il gioco dell’oca", un giorno non molto lontano in cui ripensavo a questa mia vita che puntualmente mi riproponeva il dramma del fallimento, del trovarsi ogni volta lì dove ero partita.
Per quanto facessi, per quanto m’ingegnassi, per quanto tenacia e fermezza nel perseguire lo scopo non venissero meno, sempre, vicino alla meta, il masso di Sisifo mi ripiombava sopra la testa.
Il senso, per anni ho cercato, il senso di quell’irrazionale vicenda, di quell’andare sempre in salita, schiacciata dal peso del mio essere uomo, smarrita, confusa quando, ripiombata ai piedi di quella montagna, la guardavo affondare la cima nell’azzurro alto del cielo, senza poterla afferrare.
La strada comunque era quella che portava lì in alto, lontano, su quella vetta indistinta, che non si faceva domare. Ma mai, proprio mai, ho pensato che quella non fosse la strada, che esisteva un altro modo per scalare l’imprendibile sogno.
Per anni ho rilanciato la posta, per anni ho aggiustato le tecniche, valutando gli errori, perché non succedesse di nuovo.
In quella immane fatica nervi, muscoli, ossa e tutto quanto impegnavo nella titanica impresa, sollecitati oltre misura, mostravano sempre più i segni di una lotta combattuta allo stremo.
E non é a dire che non fosse una guerra importante, come lo sono tutte quelle d’indipendenza, ma… a capire che il senso di una guerra, persa in partenza, lo si cerca nell’orgoglio di chi presume di essere ciò che mai potrà essere…..
"L’uomo pensa di essere Dio, ma non é Dio"
Così, il 5 gennaio del 2000, attraverso le parole di un sacerdote, Dio bussò alla mia porta, più forte, per rispondere ai miei tanti, infiniti "perché?" a cui, dopo essersi infranti sulla montagna, da sempre solo l’eco tornava.

La copertina

(George Edmund Street) Roma San Paolo dentro le mura
Decorazione a piastrelle della navata

Questa è l’immagine che ha ispirato la copertina della mia biografia:"IL GIOCO DELL’OCA", edita da Tracce nel 2001.
Dopo aver già completato anche la correzione delle bozze, questa immagine, trovata in extremis, mi ha fatto capire perchè non arrivavo mai alla meta.
Il traguardo era tutto contornato di croci ed era esso stesso una croce.
Oggi, giorno dell’Epifania , penso a quelle croci che mi hanno permesso di entrare nel tempio dell’amore infinito di Dio.

26 Dal diario di Antonietta

 

Rubrica radiofonica a cura di Antonietta
Un caldo e affettuoso saluto a tutti amici.
La scorsa volta non vi ho salutato alla fine della trasmissione, temendo di diminuire l’efficacia della parola di Dio, che è venuta a suggellare e concludere la lettura del libro, "Il gioco dell’oca, trasformando un’esperienza personale in esperienza paradigmatica, nella quale tutti un po’ si possono riconoscere e dalla quale attingere spunti per cercare nella propria storia il progetto che Dio ha su ognuno di noi.
A tutti Dio garantisce, pur nella diversità dei percorsi, nella multiforme varietà dei carismi, cieli nuovi e terra nuova, per tutti ha una parola di perdono e di consolazione, tutti troveranno posto nella Gerusalemme santa, nelle sue braccia aperte e misericordiose, dove non ci sarà né lutto, né lamento, ma solo la gioia dei redenti dal Signore, il canto di esultanza dei salvati.
La liturgia della sesta domenica di Pasqua mi aveva offerto lo spunto per riflettere su questa parola di speranza, che riguarda tutti, proprio tutti quelli che si aprono all’amore di Dio.
“Ecco io faccio nuove tutte le cose”, dice il Signore nostro Dio, e in quel “tutte” ci sono le nostre piccole e grandi croci, i nostri dubbi, le nostre cadute, le nostre lacrime, i nostri lutti recenti e passati, la nostra disperazione, i nostri fallimenti, le nostre frustrazioni.
Dio fa nuove tutte le cose, non stendendo una mano di vernice bianca su ciò che è indecoroso vedere, come spesso accade quando si ha fretta di coprire le brutture della nostra società invereconda, cieca e malata..
Dio fa nuove tutte le cose, continuamente rinnovando la faccia della terra, perché lo Spirito possa abitarvi e operare in modo duraturo.
Quando scrissi "Il gioco dell’oca” non sapevo, che quello era solo l’inizio di una storia, che non si potrà dire conclusa, se non alla fine dei giorni assegnatimi.
Né, quando cominciai questa collaborazione con Radio Speranza, immaginavo cosa avrei detto in questi sette mesi di incontri con voi, non prevedendo che un libricino di 100 pagine potesse essere così ricco di stimoli per riflettere sulla parola di Dio più che sulla mia..Dalla meditazione su quanto ogni giorno mi ha suggerito, durante la Messa, sono nati queste trasmissioni che hanno finito per raccontare non una storia passata, ma l’eterno presente di un richiamo struggente e accorato di un Padre che cerca suo figlio, che non smette mai di sperare che un giorno torni da Lui.
Durante questo periodo l’ ho lasciato parlare, come non mai mi sono messa in ascolto, perché di storie di malattie ne è piena la terra, ne sono pieni i libri, e, se non sei medico e non hai ricette da dare, non trovi chi ti presti attenzione.
Ma Lui il Maestro, il Medico, il Guaritore, la ricetta me la dava ogni volta, ogni volta che gliela chiedevo con umiltà, per me che volevo servirlo nel migliore dei modi, per voi che chiedevo poteste attingere alla stessa corrente di Grazia.
Così una storia di solitudine antica e senza scampo è diventata storia di speranza, storia di una presenza costante, che si è realizzata non in un ieri passato e dimenticato, ma in un oggi che si dilata, in un tempo che diventa infinito, nella misura in cui si fa spazio all’infinito di Dio..
"Il tempo è nelle nostre mani nella misura in cui l’infinito è nei nostri cuori”, non ho più bisogno di scriverlo sulla prima pagina dell’agenda, come per tanti anni ho fatto, per meditarle e farle mie, ora che le ho scritte nel cuore quelle parole, e a quell’angelo mandato dal cielo, voglio dire il mio grazie, a quel bimbo piccolo piccolo, un mucchio di ossa scomposte in un corpo di cera, due occhi indifesi, ma il viso disteso, sereno di una dolcezza struggente nel languore di chi si abbandona fiducioso all’abbraccio. Sua madre, fu lei che me le sussurrò all’orecchio, mentre, a Champoluc, impaziente, pensavo al tempo che mi sfuggiva di mano..
Il dolore innocente anche a questo doveva servire, a portarmi a riflettere sul bene più prezioso che Dio ci ha donato: la vita e il tempo per poterne apprezzare il valore, quel tempo che a volte vorremmo fermare, a volte accelerare, ma raramente accogliamo per ascoltarne la voce.
Voglio ringraziare il Signore per tutti quelli che direttamente o indirettamente mi hanno parlato di Lui, mi hanno portato a Lui, per tutti quelli dei quali si è servito per accompagnarmi, curarmi amarmi, a cominciare da mia madre…per il segno di Croce che stampava sulla nostra fronte prima di andare a dormire, per le sue novene e i suoi rosari, per tutte quelle preghiere che mi infastidivano e mi indispettivano, perché sembravano sortire l’effetto contrario.
Voglio ringraziare mio padre per quella boccetta di acqua di Lourdes che mi gettò addosso con fede, con rabbia, con disperazione, quando un giorno mi vide dibattermi nel letto in sofferenze a cui nessuno riusciva a trovare rimedi.
L’11 febbraio, festa della Madonna di Loudes, andarono in frantumi con l’ultimo incidente le lenti multifocali, decretando la fine delle mie sicurezze.
Voglio ringraziare la Madonna perché mi ha aperto gli occhi ad una nuova dimensione, quella della fede che non ha bisogno di lenti per stupire di fronte alle meraviglie del creato, di fronte a tutto ciò che è uscito dalle mani di Dio.
Voglio ringraziare quell’amica un po’ snob che per Natale mi regalò un piccolo presepe, racchiuso in una piccola scatola.
Natale 2002
Più penso al presepe, e più mi immergo nel mistero della notte di Natale in cui Dio si è fatto vedere e si è donato a noi. Quando Laura, un Natale di tanti anni fa, mi regalò il minuscolo presepe messicano di ceramica bianca e blu, contenuto in una piccola scatola dipinta con tanti alberelli e stelle luccicanti, non pensai che quello era un tuo regalo, Signore, non pensai che mi volevi parlare come poi hai fatto, attraverso quel dono inusuale e stravagante che mi veniva da una non credente un pochino snob e tanto ricca.
Ho pensato che aveva avuto buon gusto nello scegliere e l’ho invidiata per la possibilità di camminare alla ricerca di cose straordinarie e di comperare ciò che voleva con i soldi che aveva. Laura era uscita fuori dagli schemi con quel presepe, come sempre si era distinta con i regali acquistati nei negozi di lusso.
Io la ricambiavo, rompendomi la testa e le braccia, con marmellate e sottaceti e conserve fatte con le mie mani.
Le ho sempre regalato cose che lei non poteva comprarsi con i soldi e anche quell’anno, soddisfatta, ricambiai il dono in tal modo, commiserandola per ciò che non sapeva fare, esaltandomi per ciò che io riuscivo a fare.
Laura, quel piccolo presepe sicuramente non ci aveva messo molto a trovarlo, mi accorsi l’anno dopo, che avevo ricominciato a girare, che i negozi ne erano pieni, ma, alla distanza, il regalo speciale che non si compra, non io ma lei l’ha fatto.
Sì perché il presepe ha cominciato a parlare a trasmettermi pace, calore, senso da dare ad un Natale che ogni anno diventava una conta di morti, un’angoscia per chi non ritorna, per gli anni che passano, per i pesi che si accumulano sopra le spalle.
7 gennaio 2003
Davanti al presepe che mi accingo a smontare penso a Nuccio, il fratello da cui mi ero separata a causa di un grazie che non gli riusciva di dirmi, ogni volta che gli portavo il regalo, il 5 gennaio di ogni anno, giorno in cui era nato.
Penso alla rabbia che con il tempo aumentava e continuavo a portarmi dietro, per quel dovere che mi pesava sempre di più e che alla fine non volli più assolvere.Penso con malinconia alle conseguenze di quel gesto che ci privarono dell’unica occasione di incontrarci e di tenere ancora in vita un legame, che nel cuore non avevamo mai cancellato.
Penso all’orgoglio che non ci permise di passare sopra a tante cose, alle occasioni mancate di gioire e di condividere affetti ed esperienze comuni
Penso poi alla sua malattia, un fulmine a ciel sereno, penso a quel tumore al cervello che lo aveva proprio fatto uscire di testa, se aveva cominciato ad andare alla Messa, tutte le mattine alle sette.
Penso alla novena che iniziò a Padre pio, si vedeva che il male faceva progressi, mi dissi allora, penso al suo desiderio di un sacerdote che gli portasse l’Eucaristia, ma quando ce lo fece capire, non c’era più tempo per ridere delle sue apparenti stranezze.
Penso al mio darmi da fare per cercargliene uno, perché i moribondi hanno diritto a vedere un desiderio esaudito, e penso a quell’Ostia bianca che brillava nella camera con le serrande abbassaste, a mia madre e mia sorella in ginocchio, a me che non potevo distogliere lo sguardo dalla luce che da essa emanava, penso al tempo che si era fermato su quell’angolo di paradiso, dove io cercavo di entrare senza ancora aver trovato la chiave
Poi penso alla strada, quella che per anni ho cercato, quella che m’indicò lui, mio fratello, un giorno che, affacciandomi alla finestra, vidi dove portava..
Era venuto ad abitarmi vicino, nel cimitero che concludeva la strada, coperto per anni da un pino, che non me lo faceva vedere.
Da allora cominciai a parlargli, a sentirlo più vicino che mai, ogni giorno che al mattino mi alzavo e vedevo la sua luce filtrare dalla grande casa dei morti, immersa nel verde della collina..
Ma pian piano le cose cambiarono e lo persi di nuovo di vista.

NUCCIO 16 gennaio 2002
Guardo invano in fondo alla strada
Tra le case e le poche piante rimaste.
Cerco un varco tra le nuove venute
Costruzioni dell’ultima ora
Per poterti di nuovo incontrare.
.
Non ti vedo su questa collina
Dove i morti riposano in pace
Dove tu sereno abitavi.

Dalla strada deserta non giungono
Che rari e ovattati rumori.
L’orologio batte il tempo che passa.
Il ronzio del computer l’accompagna.

Non rispondi.
Eppure tutto è tranquillo
Perché tu possa continuare a parlare.
.
Dove sei fratello scomparso, prima ancora che ti conoscessi?
Dove sei compagno di giochi?

La tua voce non arriva al mio cuore
Le mie orecchie non sanno tacere
Perché sento che oggi ho paura.

Paura delle cose che non si vedono
Paura delle cose che sono
Paura di una morte che mi sbarri la strada
Questa piccola che mi sta qui davanti
Paura che tutto finisca
Che rimanga sola a pregare..

Ricordi quando mi salutavi
Ammiccando con la tua lucina tremante?
Era quella in fondo alla fila
Su in alto
Non mi potevo sbagliare.
Mi piaceva parlarti dalla finestra
Mentre il caffè aspettavo che uscisse.
Eri venuto ad abitarmi vicino
E l’avevo scoperto per caso.
Il pino che ti copriva ai miei occhi
Era stato ad un tratto abbattuto
Il cipresso potato di fresco
Si sforzava di farsi da parte
Per portarmi la tua luce nel cuore.
Mi piaceva salutarti ogni giorno
E sapere che mi stavi a sentire.

Ma le foglie hanno cominciato a spuntare
Dai monconi dei rami recisi
Liberandosi dalla forma geometrica
Che le aveva tenute imbrigliate..

Il luogo che ti ospitava
Sottraendosi pian piano alla vista
Diventava sempre più piccolo
Attraverso la vegetazione opulenta
Della primavera inoltrata.

Poi sono venute le case
Numerose, a riempire gli spazi
Arroganti si sono levate
A coprire anche il cielo
In fondo alla strada

Non ti ho più potuto vedere
La mattina alzandomi presto.
Il saluto è diventato formale
Perché ad un tratto tu eri sparito.

Dove sei silenzioso fratello?
Dove sei amico fedele?

Sempre più faccio fatica a parlarti
Pur se guardo lontano in collina
La mia voce rimbalza sui tetti
Nel buio della mattina.

La distanza è diventata abissale
La tua voce non riesco a sentire.

Fratello che non vivi nello spazio e nel tempo
Di questi nostri ingombranti pensieri
Ti prego rispondimi presto
Ti prego rispondimi ancora
Come quando ti mandavo al mattino
Un bacio e una preghiera.
.……………………….
E’ tardi
Si sono accese le luci.
Sui lampioni vestiti di bianco
La neve continua a cadere.
Il cielo è sempre più cupo
Il silenzio sempre più greve.
L’orologio ha fermato i sui battiti
Perché il tempo fa fatica a passare.
Il ronzio del computer è un lamento
Che accompagna il mio pianto che sale.
.
Nella notte che avanza pian piano
Cerco ancora tra le case e il cipresso
Quella luce un pochino speciale
Con cui tu rompevi il silenzio
Per poter insieme pregare.
…………………………
Il cielo pian piano si apre
Al mattino che spegne i lampioni
Con lo sguardo perso nel tempo
Canto questa mesta canzone.
.
Le foglie spuntate sul ramo
Mi parlano della vita che si rinnova
Come anche le case lì in fondo
E i panni stesi ai balconi

Il rumore che dalla strada si alza
Non è l’eco di mesti pensieri
Non c’è più tempo per piangere
Non si può continuare a sognare
……………………
La strada che ho qui davanti
Non è quella che porta in collina
Né questa che il mattino rischiara
E’ una strada tutta speciale
Che mi porta veloce all’incontro.
Se ti cerco nello spazio del cuore
Nel calore di questo richiamo
Non mi serve guardare lontano
Né cercare la tua luce sul monte

Tu sommesso sei entrato qui dentro
Ora brilli
E non devo vedere
Ora parli
E non devo sentire.
E’ bello, insieme, ritrovarsi a pregare.
…………………………………….
Mi piacerebbe farlo davanti al presepe, ogni volta che parlo con lui, perché è lui che mi ha portato dentro la grotta e mi ha fatto vedere Gesù.
Quel 5 gennaio del 2000, giorno del suo compleanno, fu il suo modo tutto speciale, per ringraziarmi dell’amore da me gratuitamente donato, nei suoi pochi giorni rimasti.
……………….
Un altro 5 gennaio mi viene in mente, quello del 1977, che non fu come l’avevo pensato a godermi l’ebbrezza di un sogno, quella di vivere libera dalla bianca gabbia di gesso con cui mi ero fusa nei 10 mesi del tempo, che per me si era fermato.Ma allora non ci furono ali ad accogliermi per farmi volare, ma la disperazione, l’angoscia, la morte che di nuovo mi veniva a trovare.
Ma per mettersi in comunicazione con Dio non c’è albero che ne impedisca la vista, nè gesso, né handicap, se a Lui tieni tese le mani.

Ottobre 2001…
Le mani.
Ieri ho incontrato le mani di un paralitico.
Nel silenzio della preghiera pian piano hanno cominciato a parlarmi.
Erano lisce e bianche come quelle di un bimbo, che si affida a chi lo accompagni dove solo non è capace di andare.
Quell’uomo, con lo sguardo innocente, seduto sopra la sedia a cui, per accomodarlo, non erano bastate due braccia, pregava con gli occhi sereni di chi sta in paradiso.
Le mani giacevano immobili sulle gambe colpite dal male.
Ma ad un tratto, come acqua che sgorga, dalle bocche venne fuori quel canto, che pian piano divenne torrente e poi fiume che, lento e solenne, tutto accoglie nel suo letto scavato.
Fu allora che quelle mani si sono levate, per unirsi al coro degli angeli, che riempiva tutta la chiesa.
Un momento, poi mentre l’una ricadeva pesante, l’altra in alto rimaneva sospesa a salutare il Santo che passava tra i banchi.
Ieri, Gesù non l’ho visto nell’Ostia che il sacerdote sollevava sopra di noi, ma in quella debole mano che prendeva forza da Lui.

Guardo ora le mie, le mani con cui ho costruito la casa del mondo.
Sono gonfie, deformate, lì dove l’articolazione è importante per prendere, afferrare, tenere serrate le tante troppe cose che non volevo lasciarmi sfuggire.
Mentre scrivo, aspettando il mio turno, le osservo.
Con esse ho costruito i miei idoli, le mie certezze, con esse ho percorso il tempo del silenzio e dell’attesa, della paura e della rabbia, facendole muovere in modo instancabile, quando la malattia mi costringeva a fermarmi.
Ora sono andate in pensione, le mie mani, che non hanno conosciuto riposo per scialli, pupazzi, vestiti, coperte, borse e tutto ciò che da esse facevo spuntare.
Non correggono più errori che non mi competono, in compiti in classe per alunni che non ci sono.
Le guardo, disadorne e dolenti. Alle dita due anelli: la fede e un crocifisso piantato in un campo d0
i rose..
Le mie mani, oggi, hanno imparato a pregare.
22 maggio 2004
Guardo questi anelli che porto alle dita e penso a tutti quelli preziosi che Gianni, nel corso degli anni, ha regalato a me, che non ero mai sazia, penso al nostro rapporto difficile, perché per lui era una sofferenza parlare, penso ai giorni vissuti da soli, ognuno a coltivare il suo campo, penso alla Chiesa dove in quel tardo pomeriggio invernale cercai chi potesse dirmi ancora qualcosa, penso a lui che in un’altra Chiesa si trovò a fare la stessa cosa, penso a noi che a Loreto trovammo Maria, la regina delle famiglie, ad accoglierci, a consolarci, a parlarci del dono stupendo che suo figlio Gesù aveva lasciato a tutti gli sposi del mondo, la grazia del sacramento, lo Spirito, che se invocato, fa nuove tutte le cose.
Penso a quest’oggi, in cui i silenzi sono sempre meno pieni di rabbia e i discorsi sempre più pieni di Dio.
Penso alla sfida che ci siamo prefissi e che con l’aiuto del Signore vorremmo vincere: testimoniare come due “io” diventino un “noi” nella costruzione della casa nuova, trasformata in cantiere di santità..
………………………….
La fede, la croce, il rosario, le strade che portano a Dio e che fanno sì che il giorno dell’ascensione non ci sentiamo un po’ orfani perché Gesù se n’è andato, ma pieni di gioia perché con Lui possiamo salire al Padre, e rimanervi, con l’aiuto dello Spirito che continua a camminare con noi.

17 maggio 2004















25 Dal diario di Antonietta

 

Rubrica radiofonica a cura di Antonietta
Un caro saluto a tutti amici e ben ritrovati.Ci stiamo avviando verso la conclusione del Gioco dell’oca, il primo atto di una storia, che, come tante altre, si trasforma in liturgia, quando ci si accorge che Dio cammina con noi ogni momento della nostra vita, quando sperimentiamo che fa nuove tutte le cose, se ci arrendiamo alla forza del suo amore.
Da "Il gioco dell’oca"
.
L’amore donato
Quando ogni speranza annegò nell’inutilità di qualsiasi intervento terapeutico tradizionale o alternativo, scoprii che c’era ancora qualcosa da dare a mio fratello, ancora qualcosa a cui non avevo ancora pensato ma che non dovevo più cercare fuori, non aspettarmi dagli altri ma prendere dentro di me e donare senza aspettare il ricambio.
Fu nella scoperta di un amore donato gratuitamente che si consumarono, ahimè troppo in fretta, i suoi pochi giorni rimasti
Il 12 luglio del 1999 scese il sipario sul dramma che per sei mesi mi aveva tenuta attaccata alla vita.
Dal pulpito il giorno del funerale gridai che non era morto, che anzi era come non mai vivo e presente nei nostri cuori.
Mi attaccavo ai ricordi, brandelli di vita consumati insieme nella condivisione di quel poco che ci accomunava.
La sofferenza sì, quella sì che mi aveva tenuta legata a lui, da cui tutto mi aveva scaraventato lontano durante la sua vita spensierata e gaudente.
Finalmente vicini, ma troppo presto ripiombati nel buio della nostra solitudine antica..
Il senso, per un attimo carpito come balsamo alle mie insanabili ferite, mi sfuggiva ancora di mano e mi lasciava attonita di fronte al più grande e doloroso interrogativo della mia umana vicenda.
E il mio "volere é potere" di cui mi ero fatta scudo e corazza?e il mio "volli, sempre volli, fortissimamente volli", che volevo fosse inciso sulla mia lapide?
Tutto cadde davanti ai miei occhi, nulla si salvò dalla desolazione della verità ormai nuda e invereconda.
Io, che pensavo di poter risolvere qualsiasi problema, che ero capace di trarre, come un giocoliere, dal cappello vuoto, meraviglie inaspettate e incredibili, non riuscivo più neanche a tenere in mano quell’oggetto innocente di scherzo che improvvisamente mi parlava solo di morte.
Il senso – La resa
L’estate, che era nel pieno, se non era riuscita da sempre a farmi risorgere, come avrebbe potuto quell’anno cambiare il copione?
Ingloriosamente e dolorosamente sui giorni si avvolsero giorni e luglio e agosto finirono.
Ma a settembre non c’era ad attendermi l’ansia di ricominciare un lavoro amato sopra ogni altra cosa, ma le vacanze obbligate, non chieste, temute, imposte da chi non sapeva che farsene di una che faceva così tanta fatica a spostarsi.
Il primo settembre del 1999 andai ufficialmente in pensione, non più obbligata a rispondere se e quando sarei guarita.
Potevo finalmente permettermi di andare dove volevo a curarmi, senza dover contare minuti, ore e chilometri. Finalmente libera di ammalarmi o guarire senza rendere conto a nessuno.
Del tempo che mi accinsi a percorrere, partendo da quel momento, non ricordo gioia o dolore, ma solo la sensazione di trovarmi in un paese straniero, sempre più estranea agli altri e a me stessa, cercando il foglio smarrito di ciò che dovevo dire, fare o pensare.
Ma che senso aveva continuare a declamare la parte, se tutti se n’erano andati?
Il tempo da amico divenne nemico, perché amplificava i secondi, i minuti, le ore implacabilmente accompagnati da un silenzio spettrale nel deserto di un’anima che senza meta, brancolando, continuava a cercare.
Sempre più strette, le maglie della prigione aderivano alla mia pelle, imbrigliando i movimenti, impedendo agli occhi di vedere fuori il sole, i colori, la vita che aveva cessato di appartenermi.
Chi ero io, dove andavo, da dove venivo, di cosa avevo bisogno, a chi poteva importare, ora che lo spettacolo era finito?
Quell’ultima parte l’avevo recitata in modo così magistrale che avevano tutti finito per crederci che ero di ferro, che niente e nessuno poteva piegarmi.
Anche io avevo finito per crederci e non mi riusciva di recitare una parte che nessuno mi aveva insegnato
L’indipendenza, perseguita per anni con forza, con tenacia, con fede, sempre più era smentita dai fatti, da ciò che inspiegabilmente mi continuava a succedere, da tutte le malattie invalidanti che sempre mi riproponevano il dramma della sua negazione.
Di questa avevo fatto un valore assoluto, da quando dovetti fare a meno per forza, a poco più di un anno di vita, del caldo e sicuro rifugio di braccia che troppo presto avevano allentato la presa.
Da quel momento avevo imparato a fare da sola anche quello che nessuno mi aveva insegnato, convinta dai fatti che non avrei mai trovato nessuno disposto a fermarsi e a chiedersi perché avevo smesso di ridere, perché avevo un solco in mezzo alla fronte, perché il mio pianto era più forte di quello di tanti altri bambini, perché avevo, una volta ricongiunta a mia madre, cominciato a mangiare a tal punto da vergognarmene io e i miei familiari.… perché quell’andare sempre più curvo.
Arrangiati! …arrangiati! arrangiati!
A queste le parole, per tutto il corso della mia vita, avevo obbedito, facendole mie, tanto da diventare maestra in quell’arte.
Ma era giunto il momento della resa dei conti, il momento in cui tutti i nodi vengono al pettine.
Quando non c’é più nulla per cui valga la pena di arrangiarsi, quando la tua stessa vita vale meno che niente, quando a nessuno interessa quell’arte che hai imparato a memoria, perché non serve a rispondere ai loro più segreti bisogni, quando in mano non ti rimane che un pugno di sogni svaniti nel nulla, le tue delusioni cocenti, la tua impotenza per anni negata e mascherata, la tua dipendenza pesante quanto un macigno e mai accettata, é allora che si piegarono le mie ginocchia.
Era il 5 gennaio del 2000.
Grazie.
A distanza di un anno da quell’evento, questa é la preghiera che, spontanea e senza pudore, é sgorgata dalla mia bocca nella chiesa che mi aveva aperto le porte e che solo allora capii che non le aveva murate, come pensavo.
Bastava spingerle un poco.
Signore, un anno fa misi per la prima volta piede in questa Chiesa che é diventata il mio rifugio, la mia ancora, la mia casa, con l’angoscia nel cuore, con niente in mano se non la mia disperazione, con il desiderio di ascoltare parole che penetrassero nel buio della mia notte, con la sete del viandante che ha attraversato un deserto sconfinato, con gli occhi umidi di pianto per la desolazione di affetti ormai spenti, con il cuore indurito dall’incapacità di amare ancora, alla disperata ricerca di un volto, di una voce, di un sorriso, di un gesto che mi facessero capire che ero viva, che c’era ancora speranza.
Signore, quando entrai nella tua chiesa il 5 gennaio del 2000, non sapevo cosa avrei trovato, né subito capii l’importanza di quel gesto, l’importanza di quella parola, l’unica che mi colpì in quel tardo e freddo pomeriggio invernale. I muri bianchi e disadorni non attirarono il mio sguardo per apprezzare le opere d’arte di cui spesso i tuoi templi sono ricolmi, né mi attrasse la gente che, rada, occupava i banchi e con la quale mi mischiai, non senza pregiudizio.
Non mi distolse dai miei pensieri il loro abbigliamento, né i canti che salivano stonati dalla navata, né l’aspetto, né l’eloquio del sacerdote che celebrava la Messa. Non fui consolata neanche dallo scambio del segno della pace, perché il mio compagno di banco nel frattempo si era assopito.
Ricordo il buio e il freddo di questa Chiesa, ricordo le orecchie tese a non lasciarmi sfuggire una parola di tutto ciò che il sacerdote diceva, ricordo i miei occhi sgranati a riempirmi di quello scampolo di vita che bene o male veniva a popolare il mio mondo, ormai tutto vuoto e che pensavo morto per sempre, ricordo tutti i miei sensi protesi a carpire qualcosa da poter portare con me una volta che la funzione fosse finita e anche i battenti di quel luogo si fossero chiusi.
Riportai a casa una frase che a stento si fece strada nella confusione dei miei pensieri e su quella meditai.
L’uomo crede di essere Dio, ma non é Dio.
Altre volte sicuramente l’avevo sentita, l’avevo trascritta anche sul mio diario, una notte come tante altre in cui non riuscivo a dormire.
Signore, in quel giorno che sembrava uno dei tanti, uguale nella solitudine sempre più disperata, uguale nell’angoscia del prima e del dopo, uguale nell’assenza sempre più percettibile di ciò per cui valesse la pena continuare ad andare, senza meta allo sbando, mi ero ritrovata a cercare ciò che non conoscevo, che non sapevo esistesse.
Tu però sapevi di cosa avevo bisogno, non hai aspettato che chiedessi, hai solo guardato alla mia pena infinita, hai guardato alle mie mani vuote, hai guardato al deserto che aspettava di essere irrigato, hai guardato alla mia sete ancestrale, hai guardato alla mia fame d’amore, hai guardato al mio farmi piccola piccola, hai guardato al mio vuoto, che sembrava incolmabile, e l’ hai riempito pian piano di Te.
Grazie, Signore, perché Ti sei fatto incontrare, grazie per aver guardato alla mia debolezza, grazie perché hai guardato le mie lacrime, grazie perché hai guardato alle mie braccia alzate.
Grazie per avermi dissetato, grazie per avermi saziato, grazie perché in Te finalmente ho trovato l’amico, il fratello, lo sposo, il padre; grazie per questo anno trascorso in Tua compagnia, grazie perché hai ridato senso alla mia vita vissuta, nell’inutilità dello scorrere del tempo, grazie della Tua tenerezza, grazie della Tua premura costante.
Signore, in quest’anno non so cosa avrei fatto, detto o pensato se non Ti avessi incontrato, se non avessi percepito la Tua presenza vicino a me, specie nei momenti più duri e difficili.
Tu mi hai insegnato ad amare, Te prima di tutto, i miei fratelli, ma anche e soprattutto la mia vita che sembrava così priva di senso, ad amare la mia sofferenza, ad amare la mia croce.
Signore, nel grande Crocifisso che sovrasta l’altare, ho visto l’amore smisurato di un padre che ha dato se stesso per i suoi figli.
Nel sentirmi amata in modo così totale, così gratuito, così sconvolgente ho trovato la forza per aprire il mio cuore blindato e renderlo capace di accogliere il tuo dono divino e a mia volta riversarlo sugli altri.
Signore, Dio di amore e di misericordia, Ti voglio dire grazie perché mi hai mostrato tutto ciò che avevo e non vedevo, grazie perché ho imparato ad apprezzare ciò che disprezzavo, perché ho imparato ad amare anche ciò che non mi sembrava degno di considerazione, grazie perché hai ridato valore a ciò che pensavo non ne avesse.
Grazie perché ciò che mettevo al primo posto ora occupa l’ultimo, ciò che pensavo necessario ora mi sembra superfluo, grazie perché hai rivoluzionato la mia vita scardinandone i valori fittizi e ponendomi di fronte alla Tua verità semplice e grandiosa, alla Tua verità stolta, per i sapienti di questo mondo, ma l’unica capace di comprendere tutto, perché essa é il tutto.
Signore, per questo anno di grazia Ti voglio lodare, benedire e ringraziare ogni momento della mia vita, di questa vita meravigliosa che mi hai donato.
Approdata finalmente nel porto, potevo guardare il mare in tempesta e senza paura osservare le onde che si alzavano e si inabissavano, senza che un brivido freddo impietrisse le membra e il cuore.
Potevo nuotare nel mare calmo della mia Chiesa, incurante che l’acqua bagnasse i capelli, che la testa non rimanesse sospesa sopra la vita, che sola fluiva all’interno di quell’oceano che mi aveva scoperto le sue meraviglie.
Quel Dio per tanti anni cercato nei libri, nelle dispute dotte, nella profondità dei cieli infiniti, l’avevo trovato nel mio limite, finalmente accettato, nel mio consapevole bisogno d’aiuto.
Egli é stato tutto il tempo a guardare, con occhio vigile e attento perché potessi sperimentare tutto ciò che sembrava importante, é stato paziente ad aspettare la fine di quell’insulso gioco dell’oca.
E’ bastato che abbassassi la guardia, che mi spogliassi del mio "dover essere", perché mi mostrasse il suo volto nascosto dalla mia voglia di vincere.
A Lui non ho avuto bisogno di raccontare che cosa era successo. Conosceva già tutta la storia, sapeva che, per trovare qualcuno che curi la parte malata, bisogna mostrarla.
Che nascondevo un cuore ferito, piagato nel suo bisogno non soddisfatto d’amore, non l’avevo confessato a nessuno, nemmeno a me stessa … perciò da tanto cercavo la strada.Anni addietro, concludendo la lettera inviata al dottor R., mi chiedevo se l’avevo trovata, se era valsa la pena sfiancarsi a quel modo.
A distanza mi sento di dire che mai sforzo fu più proficuo, mai premio superò tanto le aspettative e i desideri, non del vincitore, ma del vinto, in una guerra persa in partenza.
Quella vetta che affondava la cima nell’azzurro alto del cielo, quella vetta ora sono sicura che vale la pena scalarla, perché non é un imprendibile sogno, ma una realtà viva e presente.
L’albero
Ora che il mondo lo vedo girare, perché ho imparato a fermarmi, che i colori li ho stampati nel cuore, quelli dei sentimenti vissuti e accettati, mi chiedo che ne è stato del “gioco dell’oca”, dei dadi che per anni ho continuato a gettare, sperando, una volta arrivata alla meta, di vincere quell’assurda partita portata avanti da sola.
L’infanzia tradita, l’arrangiati portato all’estremo, la malattia a ricordarmi che non bastavo a me stessa, la normalità cercata nello stare seduta, il farmi piacere le cose anche quando le avrei vomitate, il non volersi arrendere all’evidenza di un handicap, insopportabile per chi la vita la viveva correndo, il non voler ammettere che non c’era speranza, perché tutte le cose hanno un termine, dove sono andati a finire?
Quanti anni sono passati da quest’oggi vissuto nell’ascolto della voce che viene da dentro, di quella che mi torna da ciò che mi si pone dinanzi, che si unisce alla sinfonia del creato per portarmi prostrata a pregare e lodare il Signore per tutte le cose che sono, per quelle che riesco a capire, per quelle che non capisco, perché è dolce l’incontro con Lui quando viene improvviso a spiegarmele.
Con lo sguardo perso nel tempo, affondandovi forte le dita, cerco l’albero da cui sono uscita, per trovarvi scritto nei cerchi ciò che unisce i pezzi della mia storia.
Percorrendo la valle della memoria, lo vedo, nella terra, stendere le sue radici, insinuarsi nei suoi tanti e misteriosi meandri, fondersi con le sue viscere vive.
Lo guardo, mentre sbuca tra i sassi, attraverso le crepe del suolo, mentre cerca di sollevarsi a fatica verso il cielo, per catturarne la luce..
Il mio albero è questa mia vita, che ieri mi appariva contorta, una pianta da sradicare perché, a guardarla un po’ più da vicino, non era bella per niente: la corteccia piena di tagli, di ferite che non si rimarginano, il tronco storto da un lato, mutilato nelle sue braccia, le foglie in parte ingiallite, malate, le migliori cadute ai suoi piedi, quelle che avrebbe voluto riprendersi, se ne fosse stato capace..
Il mio albero voleva vivere libero, senza dar conto a nessuno. Lo spazio non lo voleva dividere, perché ne aveva bisogno per tenersi stretti quei rami belli e vitali che, pur togliendo forza al suo fusto, era un peccato tagliare.
Ma lo sforzo diventava sempre più grande per sostenere quell’inutile peso.
Il mio albero ha imparato a morire, ad amare le sue cicatrici quelle che segnano il tempo lungo faticoso e sofferto della sua crescita, ha imparato ad accogliere tra i suoi rami, divenuti robusti, gli uccelli che al mattino lo svegliano, i piccoli insetti che lo percorrono attingendo la linfa da lui.
Il mio albero oggi lo guardo e ringrazio quella Croce non a caso incontrata dove né fiori né foglie abbelliscono il legno, ma Colui che mi ha riportato alla vita.

La vita adesso.
giugno 2001

Non è astratta chimera
Non è leggera farfalla che non si lascia afferrare
E’ la mia vita di sempre

Dolore assillante
Sonno svanito
Lavoro negato
Attesa non sempre paziente nello studio del mi dica… di turno

Fermarsi a pensare, ad osservare il palpito sottile e nascosto della natura che cresce
Chinarsi a raccogliere le tante briciole sfuggite di mano a chi non ha tempo da perdere
Stupore inatteso di fronte allo sgorgare dell’essere
Gioia genuina
Ubriacatura sottile
Incanto perenne per ciò che non pensavo che fosse
Librarsi ardito nell’aria senza avere paura
Calore che scalda le ossa anche nell’inverno più freddo
Riposare pregando quando tutti sono intenti a dormire
Melodia dolce che attraversa la notte nel silenzio assoluto
Canto che fluisce libero e fiero dalla gola ostruita
Luce che mi circonda anche nella nebbia più fitta
Calma dentro la barca mentre fuori c’è la tempesta
Fiducia in chi è guida e nocchiero poiché è Lui che domina i venti
Osare ogni momento che passa
Sfida continua con l’io più profondo che vuole continuare a pensare
Sentirsi forte del rischio di perdere le cose che pensavo più care
Ebbrezza goduta
Ansia, attesa, possesso di Dio nell’incontro ogni giorno cercato
Spazio ristretto che si dilata
Riuscire a fermare il tempo che fugge e saperne apprezzare il sapore
Vivere senza domande di troppo
Morire senza rimpianti di nulla

Saper finalmente osservare il volto delle cose e delle persone che mi stanno davanti, amandole senza volerle cambiare, senza pretendere che diventino altre da quelle che sono.

Dal libro dell’Apocalisse di Giovanni. apostolo.
Io, Giovanni, vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più.
Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: ” Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il “Dio con loro”.E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate”.
E colui che sedeva sul trono disse.”Ecco io faccio nuove tutte le cose”
 10 maggio 2004

24 Dal diario di Antonietta

 

Rubrica radiofonica a cura di Antonietta
Canto:Cristo è risorto veramente
Un caro e affettuoso saluto a tutti, amici all’ascolto di questa trasmissione.
Abbiamo percorso tanta strada insieme, da quando timidamente mi presentai a voi con il mio bagaglio di esperienze che volevo comunicarvi. L’idea era quella di leggervi il libro che avevo scritto e al quale non pensavo potessi o dovessi aggiungere altro.
Avevo sperimentato la morte, avevo sperimentato la resurrezione, cosa poteva ancora mancarmi?
Qualcuno, agli inizi di questo cammino, mi disse che il più doveva essere fatto e che ero solo al primo gradino della scala.
Ricordo l’aria di sufficienza e di commiserazione che accompagnarono il mio sorriso a nascondere un sentimento che sapevo non mi faceva onore. Con tutto quello che avevo passato cosa avevo ancora da sperimentare?
Ma quelle parole profetiche, sussurrate all’orecchio, più vado avanti e più mi sembrano vere.
La distanza tra me e quel Dio che m’invitò a salire sulla croce, per condividere con lui la sofferenza e la prova oggi mi sembra infinita, perché sempre più mi sento smarrire a guardare il miracolo dell’amore donato da Lui che si è abbassato per raccogliermi e prendermi in braccio e curarmi e portarmi lì dove non ci sono pericoli, nel recinto sicuro del suo amore senza confini.
Estremamente distante se guardo alla mia piccolezza, il mio limite, la mia incapacità ad essere come vorrei, estremamente vicino se guardo la sua misericordia, il suo essere presente in ogni difficoltà che incontro, in ogni momento più o meno bello della mia vita.
La quarta domenica di Pasqua ci presenta Dio buon Pastore, immagine piena di significati profondi, se riusciamo a chiudere un attimo gli occhi su questa nostra civiltà tecnologica, dove i rapporti sono regolati solo dalle macchine.
Cosa può dire a noi un pastore che vive lontano dalle nostre mete abituali?
Dobbiamo trasferirci in quelle terre aride e sassose della Palestina, il luogo dove Gesù concretamente spese la sua vita, per capire quanto fosse vitale prendersi cura di un gregge, non destinato al macello, ma a dare latte e lana, quanto diventassero intimi il pastore e le sue pecore tanto da non aver paura di perderle o confonderle, dopo che, di notte, secondo l’usanza palestinese, venivano riunite in un solo recinto, perrchè le conosceva una per una , le chiamava per nome ed era pronto a morire per loro..
In Is 40, 11 leggiamo
Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna, porta gli agnellini al seno e conduce pian piano le pecore madri.
E in Giov10, 27-30
In quel tempo Gesù disse: ”Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano.Il Padre che me le ha date è più grande di me e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio.Io e il Padre siamo una cosa sola”.
Se riuscissimo a vedere con quanta cura Dio si occupa di noi, sue creature, gregge del suo pascolo, a sentire la sua voce che ci chiama per nome, a capire che non può dimenticarsi di noi, (Può una madre dimenticare suo figlio? Quand’anche se ne dimenticasse io non me ne dimenticherei!dice il Signore) non saremmo mai presi dall’angoscia per le cose che ci capitano, per le apparenti storture del mondo in cui viviamo.
La grazia è nel non ostinarsi ad indossare lenti sbagliate, quelle che non danno la possibilità di mettere a fuoco ciò che il Signore ci pone davanti
Da  " Il gioco dell’oca"
Ed era tutto cominciato da quegli occhiali andati in frantumi nell’ultimo incidente, a febbraio.
Con gli occhiali quell’11 febbraio andarono in frantumi i miei sogni, le mie speranze, la mia forza di reagire, andarono in frantumi le certezze, quelle mie, quelle del dott. R., fu rimesso in discussione tutto il programma di rieducazione posturale, il mio rendimento sul lavoro, le mie relazioni, la mia identità
Gli occhi, più che gli occhiali, dapprima, sembrarono aver subito il danno, il sinistro in particolare.
Il dottor R. dette la sua ricetta, applicando a quello incriminato, un magnete e, tanto che c’era, perché non metterne due anche ai piedi, così ci si sente più attaccati alla terra e non si corre il rischio di mettersi a volare? Vuoi mettere?
Che portassi il 42, che era sempre stata un’impresa trovare scarpe idonee per via dell’alluce valgo, che detti magneti fossero compressi in solette di ragguardevoli dimensioni che riducevano di gran lunga lo spazio all’interno dell’ipotetica scarpa, non fu per lui un problema, ma per me sì, e anche grosso.
Ma tanto, a cosa il tutto doveva servire, visto che il camminare era diventata pura utopia?
B., un altro doctor of optometry in quel di Macerata (che fortuna averne trovato uno vicino!), propose da parte sua l’uso di lenti anteguerra bifocali, spesse e divise a metà da una linea di confine più grande di una catena montuosa; salvo poi dire che non a quelli alludeva, quando mi presentai a lui con il prodotto commissionato all’unica fabbrica italiana sopravvissuta al progresso.
E pensare che il mio ottico di fiducia ci aveva messo più di un mese per portare a termine l’operazione commissionatagli ed eseguita con grande scrupolo!
Alla fine si intesero i due alchimisti del vetro e si chiarirono le idee via fax e a voce.
Ma io comunque di occhiali ne dovetti pagare sempre due paia, con la magra consolazione che … neanche con i successivi ebbi la gioia di vederci.
Ma tanto a che servono gli occhiali se uno non ha di che leggere?
Ma B. non si fermò a questo, volle fare di più per me: mi propose una rieducazione visiva associata ad una psicoterapia non disgiunta, mi raccomando, da una rieducazione alimentare.
Noi siamo ciò che mangiamo, diceva. I continui disturbi all’apparato gastrointestinale, di cui gli avevo parlato, lo indussero ad andare ben oltre il suo dottorato.
Con la rieducazione visiva non avrei conseguito un bel nulla, se non avessi cambiato vita e abitudini.
Ed io a chiedergli su cosa basava l’assunto di guru in esilio coatto. Dove trovare cibi puri e incontaminati, dove cercare le basi della sua religione, che pareva la panacea di tutti i mali dell’uomo?
Ogni volta che glielo chiedevo, al termine di quei viaggi con cadenza settimanale al suo studio, si mostrava turbato nonché distaccato e dava al discorso una svolta tale da non farti più aprire la bocca.
Nella sala di attesa ogni volta io e mio marito cercavamo, tra i giornali e gli opuscoli, a disposizione di chi non sa come riempire il vuoto del tempo che sembra non scorrere mai, qualcosa che ci illuminasse su questo fantasma di cura, su questa teoria inesistente, su questa chimera di carta.
Ma di carta era solo il foglio, su cui era scritto l’importo che ogni volta dovevo versare. Del sapore conservo il ricordo salato oltre misura.
In quei mesi del ’98, a cavallo tra la primavera e l’estate, l’A14 la consumai a forza di andare su e giù, dall’Abruzzo alle Marche, perché nelle Marche visitava un altro medico alternativo, un omeotossicologo, a cui ero approdata da poco, nella speranza di vederci chiaro su quel groviglio di mali, di sintomi e di dolori.
Anche lui parlava di cambiare abitudini alimentari, associando il tutto ad una marea di rimedi omeopatici, che, pur se insapori, di salato avevano sempre il prezzo.
L’efficacia? A volte sembrava che sì facessero effetto, altre volte mi sentivo annegare in un mare di grande incertezza.
Il fatto è che qualunque cibo assumessi in sostituzione di quello incriminato, mi dava problemi, perché se una cosa fa male allo stomaco, l’altra il fegato o l’intestino danneggia.
Per cui la strada era il digiuno perseverato e protratto fino alla morte.
Alla fine di luglio ne avevo fin sopra ai capelli di questo gioco dell’oca, di questo andare vagando, di questo nuotare in un mare di caldo, sudore, nausea, vomito, pagati a prezzo speciale.
A Civitanova c’era però una persona che praticava saldi di fine stagione: una vecchina particolare, una maga, una santona, una che sembrava guarisse ogni male e che si accontentava di un’offerta anche minima al termine di un’imposizione di mani.
Perché non tentare l’ultima carta? Perché non buttarsi alle spalle le teorie dimostrabili o dimostrate, la ragionevolezza di ciò che fai o di ciò che speri?
Così per non dire che non avevo lasciato nulla di intentato, dando ascolto alla voce di un cuore ormai stanco di false certezze, e a ciò che da sempre avevo fatto tacere, ripresi il cammino sul percorso ormai noto dell’A14. Tanto valeva provarci, chissà che santi e madonne, di cui era tappezzato lo studio e la sala d’ attesa, chissà se si sarebbero mossi a compassione.
Lei non si intenerì ai miei mali, ma alla croce di mio marito, che continuava ad accompagnarmi ogni volta; a quella sì, si intenerì tanto da dire alla fine di una serie di viaggi fatti all’alba e di corsa, per evitare la fila da lei….. cosa potevo pretendere io, che non avevo nulla di positivo?
Così ad agosto mandai in soffitta tutti quelli che ci avevano provato, eccetto il dott. R., e finii di bere per l’ennesima volta il calice amaro dell’ennesima estate ingorda e inclemente.
Agosto
L’agosto, caldo, bollente, afoso, l’agosto che soffoca ….
Agosto … che noia, che pena: l’agosto che a stento procede verso la fine delle vacanze……
Le vacanze, quelle degli altri, tra mari incantati, acque azzurre e pulite, camerieri in divisa gentili e sudati, tavole apparecchiate, balli, spettacoli all’aperto, sagre paesane, fuochi d’artificio, sapori antichi e moderni, raffinati e ruspanti, sole a picco su corpi lucidi e immobili, aria pura di montagne violate, di luoghi profanati dall’ansia di uscire fuori dalla routine….
Agosto passato a penare, da sempre passato a pensare che quella fosse la fine, che tutto si era fermato, che niente e nessuno ci libera dalle vacanze obbligate, le vacanze che ti portano su un piatto d’argento ciò che tu non hai ordinato, ma che ti spetta sempre e comunque. Il niente, il dolore, l’assenza, la lontananza, l’immobilità della morte che torna a trovarti….
Agosto, …. passato a sperare che tutto finisca, passato a trascinare con pena e affanno una vita sempre più priva di senso.
Agosto, …. mese di m…, mese dove tutti s’inebriano, dove tutti s’illudono di dimenticare ciò che li affanna.
Agosto, .… mese del nulla, mese della resa dei conti mese che avrei voluto non fosse mai stato.
Agosto … ad aspettare la fine.
Agosto, passato a pensare se si poteva risorgere, passato a sperare che tutto poi ricomincia, passato a negare che c’era la morte che c’era l’oblio eterno, infinito, perché ogni volta avveniva il miracolo delle vacanze finite!

Ma chi siamo noi per pensare che tutto avvenga secondo uno schema o un itinerario tracciato?
Quell’estate di fuoco e di morte si aprì alla rinnovata speranza di trovare di nuovo il varco alle maglie della prigione che apparivano sempre più fitte.
Ma il varco non furono gli interessi di un lavoro amato oltre misura, no quello nel giro di pochi mesi mi fu sottratto per sempre, l’unica cosa che ancora mi teneva attaccata alla vita.
La logica crudele e spietata del mondo aveva avuto la meglio sul mio desiderio di continuare, con qualche agevolazione logistica, a riempire il mio tempo trasmettendo la scienza e la sapienza che pensavo ormai tutta acquisita.
Quando, al termine della Visita Collegiale, uscì il temuto verdetto di collocamento a riposo, sembrò chiudersi la pietra tombale, perché ormai non c’era niente che potessi tentare, nulla a cui aggrapparmi, nulla capace di dare un senso, una svolta ad una vita immobile e inutile.
Ma il dolore, il maledetto dolore mai si placava, giorno e notte, senza mai tregua: l’assedio perenne di treni impazziti, di claxon sonori e stridenti, di voci urlate e scomposte, di sonni divenuti utopia, di gesti ormai tutti ingrippati, di letture che appartengono agli altri, di sole, di luce visti alla finestra, di strade non più percorribili, di feste ormai del tutto negate.
Il 1999 era alle porte.
Cosa mi avrebbe portato?
La verità sempre più mi sfuggiva di mano, quella che pensavo potersi afferrare per sempre; come farfalla, mi attraeva nei suoi voluttuosi volteggi librandosi leggera nell’aria ogni volta che stendevo le dita per catturarla.
Una fine ingloriosa aspettava il Prometeo dei miei sogni impossibili.
Canto:Davanti a questo amore
Il senso? – L’amore donato
“Volere non è potere
A violare un mondo ormai tutto concluso, a rimettere in gioco le carte, non fu, come allora mi apparve, un medico alternativo, osteopata geniale e indubbiamente capace, ma un evento imprevisto e improvviso che penetrò come un turbine nello stagno della mia vita, sollevando e mandando in frantumi solette e magneti, il dott. R. e i suoi sempre più inefficaci rimedi, ultimi idoli di cartapesta.
La notizia occupò il tempo della mente e della memoria, a tal punto che niente valse più la pena di fare, di dire, di raccontare, che non fosse in funzione di lui, del grande malato, del "malato perso" come mi dissero allora tutti, proprio tutti quelli a cui mi rivolsi.
Eppure di guai ne avevo da vendere e di persone che mi accudissero non era che non ne avessi bisogno. Ma chissà quale molla scattò quando, mancavano pochi giorni a Natale del 1998, quando sentii ciò che mai avrei voluto sentire.
Dopo i primi momenti di smarrimento, non piansi, non mi disperai per la condanna terribile che incombeva su mio fratello.
Il pensiero andò subito a come avrei potuto aiutarlo a vivere e a morire, perché di queste cose ero diventata maestra.
Sapevo tutto di medici e medicine, di diagnosi e di prognosi, di liste di attesa, di sale d’aspetto, di impegnative e di ticket, di prezzi e di esoneri, di ospedali e case di cura, di medicina tradizionale e alternativa, di raccomandazioni, qualora le porte si trovassero chiuse, lì dove pensavi avresti trovato di meglio, dove pensavi di trovare risposta al tuo bisogno d’aiuto.
Chi più di me sapeva destreggiarsi nel labirinto della pubblica e privata assistenza, quando la prima non era in grado di soddisfare i bisogni di chi aveva davvero bisogno o venire incontro alle aspettative di chi per la prima volta vi si trovava davanti?
Io sapevo tutto, io tutto conoscevo, io sapevo fare il medico meglio di qualsiasi altro medico, sapevo curare le malattie del corpo ma soprattutto quelle dell’anima: sapevo comprendere, sapevo ascoltare, sapevo fare tutto quello che la vita mi aveva insegnato a fare da sola per consolare me stessa, per aiutare me stessa.
Da sola tutto avevo imparato, confrontandomi con la mia sofferenza mai riconosciuta, mai vista nella sua verità crudele e beffarda.
Finalmente era giunto il momento di sfoderare la scienza acquisita in anni di solitudine amara, di dolore sperimentato e vissuto ogni giorno, ogni momento nel corpo e nell’anima sempre più grande, sempre più incomprensibile perché privo di senso, quel senso che da anni andavo cercando senza mai trovare risposta.
Il senso, finalmente avevo trovato il senso a quell’andare infinito e continuo su per la cima della montagna da dove ogni volta precipitavo, schiacciata dal masso che mi trascinavo a fatica da sempre.
Il mio tempo da allora fu tutto impiegato a cercare rimedi più o meno efficaci a ciò che niente e nessuno avrebbe potuto cambiare.
Poco importava che passassi le notti a star sveglia con i mille problemi che l’intervento dell’osteopata mi poneva di fronte ogni volta.
Poco importava che il giorno lo passassi a cercare una sedia, uno straccio di appoggio, per potermi spostare da un telefono ad un altro telefono per prenotare, pianificare, spiegare, istruire, consolare, rassicurare.
La mia mente era sempre lì, dove c’era bisogno di fare ciò che altri non sapevano o non potevano fare, perché impreparati, afflitti, disperati o solo desiderosi di non bere il calice amaro dell’impotenza.
All’esterno rimandavo l’immagine di un’efficienza e di una forza che m’illudevo di avere, ma che non era che la larva della mia proverbiale tenacia.
Quando ero sola mi scoprivo le piaghe, mi leccavo le ferite attenta che nessuno se ne accorgesse per non togliere nulla a lui che aveva i suoi giorni contati.
Mettendo a tacere un corpo impazzito dai nuovi stimoli dell’ultimo medico, in ordine di tempo, che stava provando a districare l’imbrogliata matassa del mio male sempre più oscuro, studiavo le mosse per rendere almeno la vita di mio fratello migliore.
Quando ogni speranza annegò nell’inutilità di qualsiasi intervento terapeutico tradizionale o alternativo, scoprii che c’era ancora qualcosa da dargli, ancora qualcosa a cui non avevo pensato ma che non dovevo più cercare fuori, non aspettarmi dagli altri ma prendere dentro di me e donare senza aspettare il ricambio.
Fu nella scoperta di un amore donato gratuitamente che si consumarono, ahimè troppo in fretta, i suoi pochi giorni rimasti.
Per anni l’avevo rincorso o ci eravamo rincorsi abbagliati dalle logiche del dover essere, senza mai fermarci e guardarci negli occhi per apprezzare i tesori nascosti pudicamente all’altro come fosse vergogna: il desiderio di amare ed essere amati.
Gesù, buon pastore ci stava chiamando per farci sentire il suo amore.
A tendere le orecchie e aprirgli il cuore fu prima lui che subito si affidò nelle sue mani, non ritenendo una debolezza chiedere aiuto a Chi poteva salvarlo. A distanza di un anno, fui io, quando le luci del mondo si spensero sulla mia voglia di vincere.
Canto:Lode al Signore che salva
26 aprile 2004

23 Dal diario di Antonietta

 

Rubrica radiofonica a cura di Antonietta

Un affettuoso saluto, amici, dagli studi di Radio Speranza, un’emittente che ce la sta mettendo tutta per comunicare la speranza, per rendere ragione della speranza, che si sforza di portare ad ognuno di voi, di noi, il fondamento di ciò che crediamo, di ciò che aspettiamo, di ciò che ogni giorno ci è dato come anticipazione della promessa.
Gesù, il Risorto cammina con noi, è entrato nella storia, non quella astratta scritta sui libri, quella che ha l’occhio rivolto solo ai grandi e ai potenti di questa terra, a quelli che sembrano tessere il filo del nostro destino di uomini.
Il Signore del tempo si è fatto piccolo, umile, uno di noi, per poterci incontrare e aiutare nelle nostre anonime storie di uomini per niente speciali, per condividere con noi la pena, l’affanno, la difficoltà del procedere, per tenere alta la speranza che un giorno lo vedremo risplendere alla destra del Padre, diventato anche nostro, grazie a quel pane spezzato, a quel sangue donato per accoglierci nella grande famiglia dei figli di Dio.
Lui, con le mani che ancora portano i segni del rifiuto e dell’ingiustizia, continua a benedire chi lo perseguita, con i piedi lacerati dai chiodi, continua a percorrere le strade del mondo, Dio mendicante che chiede, che supplica che implora la nostra attenzione a che gli prestiamo ascolto perché ha tante cose da dirci.
Come non rimanere folgorati da tanta attenzione, come non rimanere stupiti attratti da questo Gesù, che si lascia crocifiggere ogni momento dall’uomo che lo rinnega, che non lo vuole sentire, che non sa che farsene di un Dio che va controcorrente, che, nonostante tutto, continua a farsi pane spezzato per tutti gli affamati del mondo.
Un Dio che si abbassa, depone le vesti e si mette il grembiule per continuare a lavarci quei piedi di cui non vediamo lo sporco tanto distano dal nostro sguardo e dal nostro naso, non può non risorgere scendendo ancora, negli Inferi, il luogo più distante dal Padre, il luogo dove erano e sono ad aspettarlo tutti quelli a cui non è stata annunciata la buona novella.
Un Dio che risorge scendendo, non salendo, per debellare per sempre la morte, questo è il grande mistero di consolazione che le icone della chiesa orientale propongono.
Quando padre Raniero Cantalamessa in un omelia lo ha ricordato, ho avuto un brivido, perché l’immagine di un Dio che scende a liberare l’uomo dalle catene di un destino senza speranza mi rassicura più di tante in cui lo si rappresenta mentre sale.Un Dio che scende per vincere la morte, per portare luce dove sono le tenebre, per liberare i prigionieri dalle maglie della schiavitù del peccato è veramente un Dio potente, perché ci viene incontro, perché ci tende il braccio, perché ci invita ad aggrapparci a lui la roccia che non crolla, la verità che non delude, la parola che salva.
Tutto questo ho imparato a leggere nel suono delle campane quelle che non avevano smesso di suonare per annunciare la resurrezione del Signore, mentre io dormivo, la mezzanotte del sabato santo.
Ma era necessario che mi svegliassero quelle a martello, quelle che Dio non tiene legate, perché il loro suono deve scuoterci dal torpore, dall’abitudine di dare tutto per scontato, dalla convinzione che a morire sono solo gli altri, che a patire c’è sempre tempo, quelle che ci chiamano a riflettere su ciò che finisce, su ciò a cui non possiamo porre rimedio, quelle che ci portano a sollevare lo sguardo e a chiedere aiuto.
Gesù con pazienza e con determinazione mi ha portato a percorrere la strada del calvario aprendomi le orecchie per farmi ascoltare i sordi e tristi rintocchi di quelle campane che mi parlavano di morte, per portarmi poi nel giardino dove si è fatto riconoscere, chiamandomi per nome, davanti al sepolcro scoperchiato e vuoto.
Per incontrare il risorto, per parlare con lui e riconoscerlo bisogna morire, per godere della resurrezione con lui bisogna salire sulla croce: parole di consolazione e di speranza, ma anche parole pesanti, difficili da accettare e vivere senza ribellarsi o smarrirsi.
Gesù continua a parlare ai nostri cuori, attraverso gli innumerevoli segni di cui è piena la nostra storia, segni che solo orecchie vigili e attente, occhi purificati dal pianto, il cuore aperto all’amore, sono in grado di cogliere e utilizzare per correggere la rotta per godere della consolazione che l’Emanuele, il Dio con noi non è un utopia, ma una realtà viva e presente che non permette nulla che non sia per il nostro bene..
La volta scorsa, rileggendo con voi le pagine del libro relative agli anni 1997 98 in cui ben due incidenti stradali, a distanza di otto mesi, avevano rimesso in discussione tutto il lavoro dei medici che mi tenevano in cura, mi sono sorpresa per le parole usate in quella circostanza
“Se non ancora mi ero svegliata, se non ancora avevo preso coscienza che l’ora era giunta, sempre più forte la campana a martello mandò i suoi rintocchi”
Erano campane che da quel momento non mi permisero più di addormentarmi, perché dovevo bere fino in fondo il calice amaro del fallimento dell’impotenza e del limite, perché mi rivolgessi a Chi quel calice lo trasformasse in occasione di incontro, di resurrezione e di vita.
Il senso? – La morte
Che anno il ‘98! ….mi gira la testa a pensarci.
Quel vagare alla cieca, quel dubbio sempre crescente su ciò che fosse giusto, su ciò che non lo era, sull’esito di quell’andare a tentoni, spiando, guardando, studiando tutto quello che era possibile per trovare il bandolo della matassa.
Che intreccio di strade, di nomi, di cure, di luoghi, di errori, di conferme che mai, mai più potevi uscire dal fosso, dal baratro enorme che pian piano si andava scavando sotto i tuoi piedi.
Il baratro fu così grande che mancò poco che vi annegassi, in quell’anno dove tutto accadde, dove tutti i nodi vennero al pettine, dove la sconfitta e la morte sembrarono avere la meglio.
La grande abbuffata, la sbornia di medici e di medicine, di rimedi antichi e moderni, non l’avevo ancora smaltita, quando, a dicembre, un’altra, questa volta più forte chiamata, mi scosse dall’ingorgo dei pensieri ormai triti e aggrovigliati in se stessi.
Atlante
La vita corre veloce senza che ce ne rendiamo conto
Abbarbicati alle nostre idee, alle teorie inattaccabili da qualsiasi argomentazione, convinti di aver toccato il fondo del mistero, difficilmente ci fermiamo per rimettere in discussione ciò che dentro di noi si è sclerotizzato, convinti che ci siamo fermati già troppo tempo a pensare, riflettere, dedurre.
All’immagine di Prometeo a cui l’aquila di Giove di notte mangiava il fegato, che ogni giorno ricresceva più rosso che mai, a quella di Sisifo condannato in eterno a spingere un masso che ripiombava giù proprio quando era prossimo alla vetta, si era associata e sempre più si sovrapponeva, negli ultimi tempi, quella di Atlante, che sostiene sulle spalle tutto il peso del mondo.
La stanchezza pian piano aveva preso il sopravvento e sempre più spesso mi trovavo a chiedermi che senso avesse quella sfida estrema.
Come un titano continuavo a sentirmi fuori dalla mischia, in una solitudine dolorosa e sempre più angosciante.
L’idea della morte come liberazione e termine delle umane sofferenze mi aveva spesso aiutato a sopportare notti insonni passate a difendermi dagli attacchi inclementi di un corpo impazzito.
Ma non sempre era possibile, anzi sempre più spesso accarezzavo l’idea di una morte dolce, che mi avrebbe liberata per sempre da quel maledetto “dover essere”,
Io che non mi ero mai data per vinta, nemmeno dopo quell’anno da incubo, io che pensavo di poter sconfiggere la morte, quella mia, desiderandola, accarezzandola come premio alla fatica del vivere, mi ritrovai smarrita, sconcertata a pensare a quella, prossima, di mio fratello.
Eppure non era di fatto morto nei miei pensieri, nella mia vita, lui che ne aveva scelta un’altra con amici più spensierati con cui condividere pranzi, balli, gite, all’aperto?
Non senza un pizzico d’invidia venivo a sapere da mamma che era sempre fuori casa, anche quando non lavorava. Non aveva mai avuto un minuto per me, nei lunghissimi anni della mia malattia.
Non mi aveva più guardato in faccia, inspiegabilmente.
Mi ero rassegnata a non avere un fratello, anche se non avevo perso la speranza di riconquistarlo.
Così quando la rabbia per il suo disinvolto comportamento nei confronti di papà, in pericolo di vita, esplodeva in tutta la sua forza distruttiva: LA NOTIZIA.
Non era vero, non poteva essere vero.
Mi sembrava che una nemesi irrazionale e cieca si fosse abbattuta su di lui, che sveniva davanti ad una semplice iniezione, che si rifiutava di mettere piede in ospedale, con la scusa che si sentiva male, lui che non era mai andato a visitare un ammalato, che non si era mai sforzato di capire chi era in difficoltà: proprio lui si trovava ad affrontare la prova più terribile.
Un male incurabile lo aveva colpito, attaccandosi alle parti vitali.
"Adenocarcinoma polmonare con lesioni multiple intracerebrali secondarie", questa la diagnosi dei medici consultati freneticamente da me, che volevo sapere, conoscere, per combattere quell’estrema battaglia, dopo che le indagini di rito avevano messo a nudo la terribile verità.
Non siamo niente, non siamo nessuno, e la lotta non sempre paga.
Ero pronta ad accettare la mia morte, ma non quella sua.
Sola, ad aspettare il precipitare degli eventi, la mia vita si era fermata in un’attesa immobile ed attonita.
Eppure ero fuori dal cerchio della vita già da tempo, anche se sogni e speranze non erano spenti del tutto.
Non mi volevo arrendere, non volevo buttare la spugna, nonostante i ripetuti traumi alla colonna vertebrale mi riproponevano ogni giorno il terribile interrogativo. Continuare o fermarmi?
Quante volte, dopo una notte insonne, mi ero chiesta se sarei stata capace anche solo di arrivare in bagno per lavarmi e vestirmi!
Quante volte ho cercato aiuto in un calmante, per affrontare in macchina il tragitto, peraltro breve, che mi portava a scuola!
Quante volte, arrivata nei pressi dell’edificio con enorme fatica, (avevo il collo bloccato, dolori insopportabili alla testa e alle braccia) ero stata in dubbio se tornare indietro per rivolgermi ad un medico, oppure provare per l’ennesima volta se la scuola e il lavoro fungevano da antidoto!
Quello non era che l’ultimo atto di un dramma che pensavo fosse concluso con la resa incondizionata di me, che non ce l’avevo fatta a dimostrare alla Commissione fiscale che stavo bene e che, nonostante tutto, ero ancora in grado di svolgere il mio lavoro.
La morte si sconta vivendo
Il mio lavoro non era più neanche nei miei pensieri, nonché nei ricordi, né nei desideri, da quando, ad ottobre, dalla Visita collegiale usci veramente malata e che prima di nove mesi no, non potevo tornare a insegnare.
Ed erano stati buoni, generosi, quei giudici distratti che avevano fretta, perché era tardi, perché erano stanchi e non erano abituati a vedere qualcuno piangere per non andare in pensione…
Così, mossi a pietà, mi avevano dato un’ultima chance, non stilando subito il verdetto di morte.
Che strano! Per dimostrare che di danni ne avevo subiti a bizzeffe da automobilisti distratti, non uno ma due collegi giudicanti avevano trasmesso alle rispettive compagnie assicurative che stavo benissimo, che ero un fiore e che nulla mi spettava a risarcimento del danno.
Il CTU, perito nominato dal tribunale, all’orecchio mi disse, prima di congedarmi dalla visita conclusiva, che sapeva come guarirmi.
Bastava che mi facessi curare da lui!
Così vanno le cose in questo paese, o forse nel mondo, chissà!
Mi ritrovavo sempre a dover dimostrare verità difficilmente documentabili.
Non era forse successo a maggio, quando dovetti strenuamente difendermi da una diagnosi scritta, stampata, fotocopiata all’infinito, perché tutti gli uffici competenti sapessero che avevo la depressione maggiore?
A saperlo che la depressione maggiore non è uno scherzo da niente!
Il neurologo, medico mio di fiducia da almeno vent’anni, per non impelagarsi in una diagnosi veritiera, ma per lui incomprensibile (deficit posturale reattivo), mi mise quell’etichetta, quando mi rivolsi a lui per essere esonerata dall’insegnamento gli ultimi giorni dell’anno, visto che, mio malgrado, non ancora ero venuta in possesso di occhiali idonei a svolgere la mia attività didattica.
”Deficit posturale”? … chi vuole che ne sappia qualcosa di questa malattia? … alla ASL non capiscono niente …. ci mettiamo una diagnosi che non può essere contestata da nessuno: …. minimo 60 giorni con una bella “depressione maggiore”…
…no 20 giorni … no … rispondeva a me che lo supplicavo di ridurne al minimo indispensabile il numero.
Quelli che mancano alla chiusura dell’anno scolastico sono pochi……. troppo pochi per questa malattia che le ho scritto …. a questa non potranno non credere.
Sicuro che ci hanno creduto. Ci hanno creduto anche troppo.
… mi volevano togliere seduta stante patente e lavoro!
Anche lì a piangere e a supplicare che la macchina, no, la macchina non me la dovevano togliere …le mie gambe, la mia unica possibilità di movimento autonomo!
E loro a dirmi che la mia era una malattia da DNA impazzito, di quelle che prevedono l’accompagnamento.
A dimostrare che di maggiore avevo solo la rabbia non mi ci volle molto, una volta arrivata, seguendo un iter lunghissimo e stressante, davanti al giudice supremo, la psichiatra della ASL
Ed era tutto cominciato da quegli occhiali andati in frantumi nell’ultimo incidente, a febbraio.
Con gli occhiali quell’11 febbraio andarono in frantumi i miei sogni, le mie speranze, la mia forza di reagire, andarono in frantumi le certezze, quelle mie, quelle del dott. R., fu rimesso in discussione tutto il programma di rieducazione posturale, il mio rendimento sul lavoro, le mie relazioni, la mia identità
Per tre mesi m’illusi che quel senso d’instabilità, quel vedersi girare il mondo attorno, quel non poter guardare senza dolore qualsiasi cosa che non fosse fissa, ferma e dritta in basso, davanti ai miei occhi, quei dolori lancinanti al collo, alle braccia, alla schiena, quel non poter stare più in piedi neanche un minuto, tutto questo dipendesse dal fatto che non avevo abbastanza stimoli.
A conferma di ciò c’era il fatto che, appena riuscivo a guadagnare la cattedra, i disturbi scomparivano.
Ecco dicevo, la scuola è la miglior medicina.
A saperlo che, stando più in alto dei miei interlocutori fermi davanti a me, i fuochi delle lenti non davano più problemi! Erano centrati.
Al dottor R., per capire che non era questione di denti ma di occhiali, ci vollero tre mesi, perché fino ad allora non aveva fatto che limar denti, quelli del ponte fatale di 10 anni prima e poi gli altri, tutti quelli ritenuti responsabili di quegli ondeggiamenti paurosi sulle ascisse e le ordinate degli esami posturometrici.
Le corde tirate spasmodicamente sulle braccia, sul collo, sulla schiena, sulle gambe, sui piedi, tendini e muscoli impazziti nell’estremo tentativo di mantenermi in piedi senza che svenissi dal dolore, quelle cercava di allentare con il suo sempre più convulso accanimento sui pochi denti scampati all’inseguimento di un sogno.
Eppure la sua faccia l’avevo vista rabbuiarsi da subito, il suo volto, cordialmente serafico e ironico, sempre più mostrava il distacco che nasce dalla paura e dal dubbio, perdendo la consueta baldanza.
Che c’entrano gli occhiali?mi dissi; ma ormai ero abituata ai colpi di scena.
Una corsa quella vigilia del ponte del primo maggio sulla tangenziale est, intasata di camion a rimorchio, di tir, di macchine che scappavano, fuggivano dalle grinfie della città, sotto una pioggia battente, con noi che eravamo partiti da Pescara la mattina e che avevamo sulle spalle una montagna di chilometri!
Ancora una volta, arrivata a destinazione, pensai che ne ero venuta a capo, che avevo trovato il bandolo della matassa.
A Peschiera Borromeo era ad aspettarmi, tempestivamente avvisato dal mio vacillante puntello, un nuovo specialista, doctor of optometry.
Costui, dopo due ore, passate da me a inseguire pallini, palline, aste, luci di tutti i colori, eroi di bambini che correvano veloci sul piccolo schermo di un occhiale da pagliaccio, mi disse che, sì di occhiali sbagliati si trattava, ma il peggio era … ti pareva che ne uscivo pulita! mi dico …era che gli occhi avevano un difetto, il sinistro in particolare.
Che tipo di difetto avessi, ora che ho cambiato ben sei paia di occhiali, e mi sono sottoposta ad ogni tipo d’indagine, ad ogni genere di sevizie, l’ ho capito, ma da sola e da sola ho cercato il rimedio.
Non che gli interpellati, e sono tanti, si siano discostati tanto dal vero, ma ognuno diceva un pezzetto di verità, fra tante cose sbagliate. Era come un puzzle che aveva confuso i suoi pezzi con quelli di un altro.
Così, attraverso il labirinto delle idee, attraverso i cunicoli di strade che divergono, attraverso un cammino infaticabile di fede e di delusioni, di aspettative disattese, di sogni infranti, di speranze fugaci, di tenacia indiscussa di chi, non si voleva piegare, era, è stato e fu un gioco trovare il pezzo mancante del puzzle?
La croce, il pezzo mancante del puzzle, in questo incredibile ma affascinante gioco dell’oca segna il traguardo di quello che per anni ho pensato fosse un gioco assurdo e crudele, ma che oggi mi parla di una Pasqua che non ha mai fine.
Con l’auspicio che ognuno di noi nel suono delle campane riconosca la voce di Dio che, comunque suonino, ci comunica il suo amore per noi vi saluto e vi do appuntamento alla prossima trasmissione
19 aprile 2004