8 Dal diario di Antonietta

Rubrica radiofonica a cura di Antonietta
Benvenuti all’ascolto, amici di Radio Speranza e ogni giorno un po’ più anche miei.
Siamo arrivati all’ottavo appuntamento con questa rubrica della quale il Signore si serve per parlare non solo a me, ma a tutti voi.
Spero che il suo messaggio vi arrivi il più possibile chiaro e incontaminato e mi auguro che la mediocrità e la mancanza di talenti eccezionali rendano più puro l’annuncio.
Infatti, quando non abbiamo nulla da portare è allora che possiamo portare Cristo nella sua interezza.
Le parole di madre Teresa di Calcutta mi tornano sempre alla mente, quelle che dicono: "Noi non possiamo fare grandi cose, ma possiamo rendere grandi le cose che facciamo con l’amore".
E’ appunto di amore che vi voglio parlare oggi, amore a cui tutti siamo chiamati per donarlo nella misura in cui riusciamo ad accogliere quello che Dio ci vuole dare e per cui ci ha creati.
Creati per amore, chiamati all’amore. Nessun uomo trova pace fino a quando non s’incontra con l’amore di Dio, che ci ha amati per primo e per sempre.
Passiamo la nostra vita a rincorrerlo, a rincorrere chi non ci vuole bene o non ce ne vuole abbastanza, a sperare che qualcuno si fermi a guardarci, ad accettarci per quello che siamo, ad amarci nonostante le nostre debolezze, la nostra miseria, la nostra incapacità ad essere migliori, più belli, più giovani, più bravi, più sani, più ricchi, più intelligenti, più fortunati …
La storia di ogni uomo deve passare nel crogiuolo dell’amore non ricevuto, non dato, delle relazioni interrotte a causa di un "devi essere o avresti dovuto essere o dovresti essere"
Quante storie sballate, finite male per non essersi sentiti all’altezza della situazione, all’altezza degli eventi, all’altezza di amici, parenti, conoscenti…
La malattia dell’uomo è malattia d’amore e tale è stata la mia, quella di cui voglio parlarvi, perché ognuno vi riconosca, qualcosa che lo riguarda, che gli appartiene o gli è appartenuto.
Nonostante io sia qui per testimoniare come la vita cambi se ci s’imbatte in un Dio che ci ha amati fino in fondo, senza sconti, donando tutto se stesso per ricondurci nelle braccia del Padre, pure mi riesce difficile parlare del prima, come cosa che non mi appartiene e della quale provo vergogna.
Meno male che Dio non è schizzinoso e ci salva proprio attraverso i nostri errori, le nostre debolezze, le nostre storie apparentemente sbagliate.
E’ giunto quindi il momento che metta da parte l’orgoglio e vi legga come guardavo alla mia vita passata, nel 1996, quando scrissi al medico di Milano che mi aveva invitato a raccontare la storia della mia malattia perché ne voleva fare uno studio.
Lui la chiamò "sindrome da deficienza posturale" e forze non era tanto lontano dal vero, visto che si tratta di malattia che nasce dalla difficoltà ad assumere la posizione giusta.relativamente all’appoggio.
Non era forse il mio caso, visto che non riuscivo ad appoggiarmi a nulla che non fossi io?
Avevo perso l’appoggio da quando…(Leggo a pag. 27 de "Il Gioco dell’oca")
La famiglia: arrangiati!
Stando a quanto racconta mia madre, già a due anni era un’impresa difficile farmi visitare da un medico: mi facevo prendere da crisi isteriche, tanto violente che ben presto nessuno ritenne più oppor-tuno farvi ricorso, tanto più io.
In effetti non è che non avessi problemi, ma ho imparato a risolverli da sola, sopportando tutto quello che mi capitava con naturalezza.
In casa c’erano già troppi malati, perché si prendesse in considera-zione una banale malattia di bambino.
Allora eravamo ancora tre: mio fratello, nato nel 43, gracile, inappetente, svogliato, disperazione di mia madre, ossessionata dall’incubo della tubercolosi che nella sua famiglia aveva mietuto più di una vittima, io del 44, nel complesso sana, e mia sorella, del 45, colpita da poliomelite poco dopo la nascita.
Mia madre, maestra elementare, ogni giorno doveva raggiungere il posto di lavoro lontano da Pescara, con mezzi di fortuna, partendo ad ore impossibili per tornare ad ore altrettanto impossibili.
Mio padre lavorava in ferrovia e faceva i turni di notte.
Di giorno dormiva. Non ricordo di averlo mai visto.
In una situazione del genere era naturale che era sempre la sotto- scritta a fungere da pacco postale.
1945
Avevo solo diciotto mesi, quando fui affidata ai miei zii di Popoli per colmare il vuoto di una casa senza figli. I miei, del resto non avevano difficoltà a farne, visto che la mia vacanza coincise con la nascita di mia sorella.
L’intenzione era quella di offrirmi ciò che a casa non avrei mai potuto avere. Ma chi spiega ad un bimbo che è giusto essere strappato dalle braccia di sua madre ?
Allora non mi posi queste domande, mentre mi fu sempre incomprensibile l’insistenza di mio zio a voler spianare il solco che, peren-ne, mi attraversava perpendicolarmente la fronte.
Mi pareva una pretesa assurda, perché una cicatrice non si cancella e per me, bambina, di una cicatrice si trattava, anche se non sapevo quando e come mi ero fatta male.
Di quel periodo ricordo il silenzio innaturale di stanze estranee dove con cocciuta pazienza mi ostinavo a far bene ciò che mia zia mi andava insegnando: spolverare con scrupolo i miei pochi giocattoli, portare a termine una sbilenca sciarpetta per una bambola che non possedevo.
Ad allontanare i fantasmi della notte bastava il semplice e significativo gesto di una mano calda che mi chiudeva gli occhi, a cui non sapevo e non potevo rinunciare, specie quando i miei zii smisero di portarmi la sera al cinema con loro, seccati dal fatto che continua- mente chiedessi di andare in bagno.
1946
Tornai a Pescara l’anno dopo, quando le suore si convinsero che ero abbastanza grande per frequentare il loro asilo. Infatti non me la facevo più addosso.
Avevo poco più di due anni.
Non mi è facile mettere a fuoco i lineamenti delle persone che si occuparono di me in un arco di tempo che mi sembrò interminabile. Invano cerco il sorriso di un volto amico, la carezza rassicurante di una persona cara, il calore di un abbraccio.
Mia nonna, nella cui casa trascorsi gran parte della mia infanzia, era tutta presa a far quadrare un misero bilancio, ricorrendo agli espedienti più impensati. Il poco diventava molto nelle sue mani veloci ed esperte, abituata da sempre a lottare per la sopravvivenza, dopo che la morte di mio nonno l’aveva lasciata all’improvviso senza alcun reddito, con cinque figli da sfamare.
La vita l’aveva resa dura, quasi insensibile ai bisogni dell’anima. Quelli del corpo, invece sì che li sapeva soddisfare con una non comune abilità nel rendere appetibile qualsiasi cibo, anche il più povero…
Nel lungo e buio corridoio per anni mi sono confrontata solo con me stessa alle prese con bambole di pezza che puntigliosamente mi costruivo, come anche le palle di carta che il muro, dove le lanciavo, mi restituiva inerti e senza vita.
La grande e luminosa casa di mia madre mi accoglieva di tanto in tanto, ma della sua presenza nessuna traccia, tranne il piccolo se-gno di croce che stampava sulla nostra fronte prima che ci addor-mentassimo. Gli altri abitanti di quel luogo fantastico e meraviglioso, che si affacciava su un giardino ridente e pieno di segreti da scoprire, ondeggiano nel vuoto della mia memoria.
1951
Quando i miei poterono permettersi di andare a vivere da soli (prima stavano dai nonni), io tornai a casa, finalmente giunta alla meta del mio lungo vagabondare.
All’entusiasmo iniziale si sostituì un disagio sempre crescente che compensai con un inesauribile efficientismo. In verità ero rientrata perché non ero più di peso e potevo, essendo cresciuta, dare una mano
Avevo sette anni.
1954
Ne avevo dieci quando i miei decisero di avere un altro figlio: per goderselo, finalmente.
Mia madre stava per rimetterci la vita, quando nacque mia sorella, anche lei con seri problemi fisici, che però si risolsero nel giro di un anno.
Finalmente avevo una bambola in carne ed ossa, io che me l’ero costruite di stoffa fino a quel momento!
Mia madre me l’affidò volentieri, ma pretese sempre di più da me.
Da quel momento la mia vita assunse sempre più le caratteristiche di un impegno a tempo indeterminato. Mia sorella riempiva le mie giornate in una sorta di gioco, che a volte mi sembrava gravoso, ma indubbiamente mi gratificava.
Mi occupavo di lei a tempo pieno e contemporaneamente aiutavo mia madre nelle faccende domestiche. Queste ultime sì che mi pesavano, mentre portare in braccio per chilometri il mio bambolotto (non avevamo soldi per comprare un passeggino) mi rendeva felice. Ero fiera del mio dolce fardello, anche se le braccia mi dolevano e la schiena sembrava spezzarsi.
Io allora fui madre a tutti gli effetti, quella madre che, purtroppo, non avevo mai potuto avere accanto a me
Ricordo la gioia che mi dette il vederla staccarsi da me e barcollando fare i primi passi. E che dire di quando sillabò la prima parola?
Ricordo anche l’ansia e la fatica, ogni mattina, nel doverla preparare e portare con me all’istituto di suore che entrambe frequentavamo. I miei fratelli, iscritti alla scuola statale, in centro, erano esonerati da qualsiasi incombenza.
Ad ogni difficoltà, ad ogni problema che mi si presentava mia madre rispondeva: arrangiati!

A questo imperativo ho imparato ad obbedire per tutta la vita.
Per esistere ho nascosto il dolore, la paura, la rabbia, convincendomi di essere forte invulnerabile.
1955
Fui oggetto d’interesse quando mi vennero le prime mestruazioni, che ricordo con vergogna.
Tutti intorno a me, come se fossi malata.
Ma io mi sentivo bene e mi meravigliavo di tante premure, di cui avrei fatto volentieri a meno. Per fortuna durò solo un giorno quella incomprensibile tortura.
1957
Prima che ritornassi al centro dell’attenzione dovettero passare due anni. Fu quando, in terza media, una compagna mi chiese se per caso non fossi cinese, per via del mio colorito giallo.
In verità non ricordo di essermi mai specchiata fino a quel momento, o perché a casa gli specchi non c’erano, o perché non ne avevo mai sentito l’esigenza.
Riferii l’accaduto a mia madre che quella volta chiamò il medico.
Un uomo senza volto disse che si trattava d’itterizia e mi prescrisse un mese di riposo. Solo questo ricordo: il riposo.
Non dovevo più lavare piatti, pulire per terra, ricevere ordini.
Anch’io ero malata!
Le nausee i tremendi pruriti ai piedi e alle mani mi sembravano nulla in cambio delle attenzioni di cui ero fatta oggetto.
Quel periodo lo ricordo come il più bello della mia vita.
Per un mese non andai a scuola, incredula che un tale miracolo po-tesse avvenire: senza problemi, senza responsabilità, finalmente felice!
1958
L’atteggiamento sempre più curvo, i piedi piatti e la mole eccessiva (a 14 anni pesavo 100 chili) indusse mia madre ad occuparsi di me ancora una volta.
Per i primi due problemi fu chiesto il parere ad uno che pare se ne intendesse.
I tacchi e una bella "guepière" furono le prime protesi che misi per correggere il mio corpo.
Per l’obesità, visto che non si riusciva a farmi smettere di mangiare, mia madre si preoccupò di farmi fare dei vestiti che nascondessero il più possibile quella vergogna.
Ci si mise anche mio zio, fratello di mia madre, a voler risolvere il problema. Mi portò con se, nella sua casa a Bologna, e cominciò l’opera di rieducazione.
Lui, che era in perenne lotta con i suoi chili di troppo, senza successo, si mise d’impegno ad eliminare i miei: al ristorante, mentre lui trangugiava tortellini, pretendeva che io ordinassi caffellatte; al quinto piano lui saliva con l’ascensore, io a piedi.
Si mise in mente anche di raddrizzarmi la schiena, costruendomi una rudimentale protesi fatta con un asse di legno, chiodi e spago.
Non indossai mai quell’arnese, senza sapere che la vita teneva in serbo per me aggeggi molto più infernali, ai quali non avrei potuto sottrarmi.
Quegli anni e i successivi furono accompagnati da dolorosissimi ascessi ai denti e da coliche terrificanti che spesso si concludevano con uno svenimento, ma ai quali non davo e non davano mai peso.
Per me era importante superare la crisi per riprendere la mia vita normale.
Non ho mai avuto il minimo dubbio che tutto si sarebbe rimesso a posto nel giro di poco tempo.
Era come se quelle cose non capitassero a me e quasi mi meravi- gliavo se qualcuno le prendeva sul serio. L’imponente fasciatura al ginocchio destro a causa di una rovinosa caduta, di cui porto ancora il segno, non solo non meritò l’attenzione di un addetto ai lavori, ma fu esibita da me come un trofeo.
Anche un incidente stradale, di cui fui causa inconsapevole, e vitti-ma, mi vide leccarmi le ferite di nascosto con grande vergogna.
1960
Con ancor più grande vergogna vissi le interminabili sedute da un sedicente dentista, molto stimato da mia madre, che si protrassero per anni fino a quando trovai il coraggio di parlarle del fastidio che mi procurava il suo voler curare i denti in piedi.
Mia madre andò su tutte le furie, accusandomi di infangare con le mie fantasie una persona timorata di Dio, che andava tutte le dome-niche a messa.
Fu forse allora che cominciai a dubitare di me?
Certo che a raccontarla ora, la storia, sicuramente non dimenticherei dei particolari importanti, anzi essenziali.
Per fortuna che Dio non ha permesso che dimenticassi quel segno di croce che mia madre stampava sulle nostre fronti ogni sera, prima che ci addormentassimo.
A quei tempi era l’unica cosa consentita, perché i figli non si toccano e si baciano di notte, solo quando dormono.
Così gli antichi predicavano e ci voleva coraggio ad andare controcorrente, visto che a guardarti non c’era solo il marito, ma tutta la sua famiglia , con la quale eri andata a vivere.
Il discorso valeva per le donne, perché gli uomini non erano soggetti a certe debolezze.
Avrei cominciato partendo dal nome , Antonietta, quel nome che mi era sempre sembrato un dispetto di chi me l’aveva affibbiato, con la scusa che non ci si poteva sottrarre alla tradizione di imporre i nomi dei nonni, prima paterni e poi materni.
E siccome io ero la seconda mi toccò quello di una nonna che non mi aveva allevato e che avevo avuto modo di conoscere poco, visto che morì quando io ero ancora piccola.
La parola di Dio mi aiutato a dare valore a ciò che pensavo non ne avesse
Isaia, 43, 1-3 a.4-5
"Non temere, perché io ti ho riscattato,
ti ho chiamato per nome:tu mi appartieni.
Se dovrai attraversare le acque, sarò con te,
i fiumi non ti sommergeranno;
se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai,
la fiamma non ti potrà bruciare;
poiché sono il Signore tuo Dio,
il Santo d’Israele, il tuo salvatore.
Perché tu sei prezioso ai miei occhi,
perché sei degno di stima e io ti amo
Queste le parole che mi portarono a riflettere su quanto sia importante il nome che ci viene dato, perché nel nome Dio ha scritto tutta la nostra storia, presente passata e futura, inserendola nel suo progetto di salvezza.
Così, illuminato dall’alto, è venuto alla luce, per risplendere tutto, il tesoro prezioso che questa nonna aveva lasciato in eredità, a tutti noi, nipoti che godiamo oggi della consolazione di una famiglia unita e in pace,una famiglia che la vide madre di cinque figli a cui insegnò l’arte di amarsi, comprendersi e aiutarsi per tutta la vita, pur essendo nati da padri diversi
Nonna Antonietta me la ricordo con un rosario in mano quando scoppiavano i temporali e lei ci chiamava a raccolta sul suo lettone a recitare le avemarie.
Alla Madonna affidava le sue paure, a lei si rivolgeva perché il Padre celeste non facesse distinzioni nel salvare tutti quelli che le erano stati affidati.
Nel mio nome è scritto un passato che deve diventare presente, nel rispetto per gli anziani, nella testimonianza che la famiglia è un valore imprescindibile, nell’essere operatrice di pace, nella devozione alla nostra mamma celeste perché ci aiuti a sentirci figli di un unico padre e fratelli in Gesù.
Il 13 giugno , festa di S.Antonio da Padova, non sono mancati mai gli auguri da parte di tutti quelli che in me volevano ricordare il suo nome
Se penso che, ad un certo punto, non potendo cambiare il mio nome, pensai almeno di cambiare il santo di riferimento, scegliendo s.Antonio abate, monaco, che si confaceva meglio al mio desiderio di isolarmi dal mondo.
Solo più tardi ho capito che non a caso il santo protettore è quell’Antonio da Padova divenuto santo per la sua infaticaticabile opera di evangelizzazione per la quale non si risparmiò , fino a minare fortemente la sua salute sì da morirne.
Nel mio nome c’è quindi scritto anche l’invito a tenere gelosamente per me i tesori che Dio mi ha dato ma a spenderli perché tutti ne godano e siano salvi.
Invito voi tutti a fare altrettanto, a chiedervi perché vi chiamate così e a cercare anche nel vostro il progetto che Dio ha su di voi.
Dimenticavo.Come secondo ho il nome di Maria, come anche le mie sorelle , una devozione che  ho scoperto tardi, ma che oggi non smette di produrre frutto.
Le nostre mamme non avevano paura ad ammettere che da sole non ce l’avrebbero fatta a provvedere ai bisogni dei figli, così li affidavano, anzi li consacravano alla Madonna.
Questo pensiero mi commuove e mi consola, perché ho sperimentato quanto non paghi il confidare solo in se stessi.
 3 dicembre 2003

7 Famiglia oggi:riflessioni di coppia

Canto: Cristo è risorto veramente (Risorto per amore)

Rubrica radiofonica a cura di Gianni e Antonietta
Benvenuti all’ascolto di questa trasmissione, amici. Dagli studi di Radio Speranza vi salutano Gianni e Antonietta.
Siamo entrati nella quarta settimana d’Avvento e con Giovanni, il nipotino, domenica, abbiamo acceso l’ultima candelina, perché ormai la meta è vicina.
Grande è la sua eccitazione davanti alla grotta che aspetta di essere illuminata da dentro, a Natale, quando, per la venuta del Bambinello, accenderemo la grande lampada alogena, che vi abbiamo nascosto all’interno, perché la luce che emana offuschi tutte le altre.
Constatare che non è così difficile rendere felice un bambino, quando il senso alle cose non lo danno i doni portati il 25 dicembre, ma una storia che lo rende protagonista non solo a Natale ma tutta la vita, ci conferma che la fede è l’unico dono che dà un senso a tutti gli altri. .
Le statuine del presepe, come lo scenario dentro cui si muovono, sono diventati interlocutori del mondo di affetti e di sentimenti, nascosti nel piccolo, grande cuore di Giovanni, del suo bisogno di amare e di essere amato.
Così si commuove per la capretta, che sembra non volerne sapere di essere presa dalla pastorella o per il signore, che sente freddo perché ha tolto il cappello davanti a Gesù. La sera augura la buona notte e manda baci a tutti i personaggi di questo piccolo mondo, che abbiamo riprodotto nello scaffale della libreria della sala, e ci chiede di spegnere le luci perché tutti possano andare a dormire.
Con un pizzico di malinconia, abbiamo percorso, a ritroso, i Natali non rallegrati dalla gioia di un bimbo che ti aiuta a scoprire il fascino nascosto dentro le più semplici e umili cose.
"Io ho ciò che ho donato" ha lasciato scritto il più celebre poeta della nostra terra e sono parole sacrosante, perché il bimbo il Signore ce l’aveva mandato 32 anni fa, precisamente il 17 dicembre del 1972, ma non potevamo dargli ciò che non avevamo.
Il giorno del suo compleanno ci facevamo in quattro per organizzare giochi e preparare leccornie di ogni genere per la sua festa, come anche ci affannavamo a cercare regali che lo lasciassero con il fiato sospeso, quando al mattino gli davamo gli auguri.
Ma lui non era mai contento e noi pensavamo che, se ci avesse fatto una lista delle cose che gli piacevano, non ci saremmo sbagliati, e sarebbe stato felice.
Quella lista la fece e con il passare degli anni si allungò a dismisura fino a comprendere una casa e un elicottero che non potevamo comprargli.
Di feste non volle più sentire parlare, perché non sapeva proprio che farsene, quando il protagonista non è il festeggiato ma lei, la festa, proprio come accade a Natale..
Parole che ci tagliarono in due e c’indussero a riflettere sul perché di un sorriso che non riuscivamo più a suscitare.
Il presepe venne ben presto soppiantato dall’albero, nell’illusione che forse le luci potevamo moltiplicarle nella speranza di stupirlo, ammaliarlo con i decori che la fantasia ogni anno rendeva più ricchi e sontuosi.
Ma la soddisfazione durava giusto il tempo di un complimento, non di Franco, ma di quelli che in tutta fretta venivano a farci gli auguri.. Ben poca cosa rispetto al tempo che avevo impiegato a cercare e a impacchettare regali o a quello della fatica del preparare cibi che finivano per farci star male.
Quando mi ammalai sembrò spegnersi del tutto quella luce che aveva animato e riscaldato tanti Natali della nostra infanzia, quando un bacio era il premio alla letterina, nascosta sotto il tovagliolo di papà con la complicità della mamma indaffarata a preparare un pranzo speciale, un pranzo di cose che non si dimenticano, cose che non eravamo abituati a mangiare.
Ero tanto stanca alla fine che smisi, anzi smettemmo di andare alla Messa la notte della Vigilia e poi anche il giorno dopo, sembrando una buona scusa il fatto che a tutto non si poteva arrivare.
Ma la coscienza non era tranquilla, per cui ogni anno proponevo agli alunni lo stesso tema: " Il Natale, festa del consumismo o di cos’altro?", cercando nelle loro risposte quella che non riuscivamo più a darci.
Vogliamo ringraziare il Signore per questo tempo nuovo rigenerato, un tempo in cui ci viene solo di desiderare cose buone per gli altri, un tempo in cui l’attesa non è dei doni ma del Dono che Gesù viene a portarci. Vogliamo benedirlo per Giovanni che sempre più ci fa innamorare di tutto ciò che viene da Lui, di una festa che si prepara con Lui e per Lui..
Da quando Gesù lo abbiamo fatto nascere non solo nella capanna, ma anche nei nostri cuori, ci viene sempre più spesso il desiderio di comunicare questa gioia a qualcuno che ha bisogno del calore di una famiglia unita e serena.
E’ stato questo il primo passo per vivere in modo più autentico il Natale e tutte le feste dell’anno.
Ma poi ci siamo chiesti se era giusto donare amore due, tre volte l’anno e non farlo invece sempre, adottandolo come stile di vita.
La pagina che andremo a leggervi è stata per noi ottimo spunto di riflessione. L’abbiamo trovata sulla copertina della rivista "Qualevita", bimestrale di riflessione e informazione non violenta, a cui siamo abbonati.
F…come felicità.
Due uomini molto malati, occupavano la stessa stanza d’ospedale. A uno dei due era permesso mettersi seduto sul letto, che si trovava giusto vicino all’unica finestra della stanza. L’altro doveva rimanere sdraiato. I due fecero conoscenza e divennero amici. Parlarono delle mogli e delle famiglie, delle case, del lavoro e dei viaggi che avevano fatto. Ogni pomeriggio l’uomo che stava nel letto, vicino alla finestra poteva sedersi e passava il tempo raccontando al suo compagno di stanza tutte le cose che poteva vedere fuori dalla finestra.Quello dell’altro letto cominciò a sentire meno lunghe le ore, vivendo di riflesso 8i colori del mondo esterno. La finestra dava sul parco con un delizioso laghetto. Le anatre e i cigni giocavano nell’acqua mentre i bambini facevano navigare le loro barche giocattolo.
Giovani innamorati camminavano abbracciati tra fiori di ogni colore e c’era una bella vista della città in lontananza. Mentre l’uomo vicino alla finestra descriveva tutto ciò nei minimi dettagli, l’uomo dall’altra parte della stanza chiudeva gli occhi e immaginava la scena. Una notte l’uomo vicino alla finestra morì pacificamente nel sonno. Timidamente l’altro uomo chiese all’infermiera se poteva spostarsi nel letto vicino alla finestra. Fu accontentato. Lentamente, dolorosamente, l’uomo si sollevò su un gomito per vedere per la prima volta il mondo esterno. Delusione: la finestra si affacciava su un muro bianco. L’uomo chiese all’infermiera che cosa poteva avere spinto il suo amico morto a descrivere delle cose così meravigliose al di fuori di quella finestra. L’infermiera rispose che l’uomo era cieco e non poteva nemmeno vedere il muro. Forse, voleva solo fare coraggio all’amico. La felicità di rendere felici gli altri.
Canto: Io vedo il re (Risplendi Gerusalemme 3)

Testimonianza.
Francesco l’ho conosciuto ad Ofena, nel settembre del 2001, quando, con Antonietta abbiamo partecipato alle giornate di preghiera organizzate dal gruppo del Rinnovamento dello Spirito Santo di Chieti di cui lui fa parte.
All’inizio non mi ero accorto che era "non vedente". Antonietta addirittura lo giudicò un maleducato, perché durante la Messa non gli aveva stretto la mano per darle il segno della pace, Aveva il difetto, se così si può dire, di sembrare del tutto normale con gli occhiali dalle lenti trasparenti, con gli occhi sempre aperti e vigili, pronti a voltarsi verso la fonte della parola o del rumore dominante, come se riuscisse veramente a vedere ciò che lo circondava.
Poi, al momento della Comunione, la verità si è manifestata in tutta la sua crudeltà: quando, messosi in piedi, restò fermo finché sua moglie non lo accompagnò alla mensa, con i suoi passi non decisi, titubanti, attenti a non inciampare, a percepire, dai movimenti di chi lo accompagnava, tutti gli ostacoli che pian piano incontravano: le porte, i gradini, i mobili, le sedie. Ogni cosa era una difficoltà da superare, e lui poteva farlo solo se riceveva l’aiuto di qualcuno al suo fianco.
Relazionarsi con persone del genere è sempre difficile, soprattutto nell’approccio iniziale, quando non sai mai come comportarti, come non fargli pesare il suo handicap, facendo attenzione a come parli, perché nelle tue frasi non siano presenti parole come guardare, vedere, scorgere, ecc…perché potrebbero ferirlo.
Dopo pranzo ci siamo ritrovati sulle panchine del viale "Belvedere", in quel luogo che domina tutta la vallata del Tirino, quasi fino all’abitato di Bussi. Lui era assorto, solitario, con la sua sigaretta in bocca, che, felice, gustava fino all’ultima spira il fumo, il suo vizietto, quello di cui non riesce ancora a fare a meno. Sua moglie, con alcune amiche, stava sulla panchina a fianco, e chiacchierava del più e del meno, ma con molta allegria e serenità.
Lasciai che Antonietta si avvicinasse alle signore in conversazione, mentre io mi dirigevo verso Francesco.
All’inizio le solite frasi fatte, poi il discorso andò sul luogo in cui eravamo, perché lui, che sapeva di trovarsi in un posto isolato, non si spiegava come mai, nei momenti di silenzio della natura, sentiva da lontano arrivare rombi di motori di veicoli che andavano a forte velocità, come se ci fosse un’autostrada, e rumori caratteristici di grosse macchine da lavoro in movimento, come se ci fosse un cantiere, o campi in coltivazione.
Mi chiese di descrivergli tutto, e io, non senza apprensione per la paura di sbagliare con chi era più sfortunato di me, cercai di capire come fare per entrare nel suo mondo, traslocando in lui, per fermarmi a quelle cose che avrebbero fatto scattare la sua immaginazione e portato un po’ di colore al suo mondo senza luce.
Pensai che più era importante descrivergli non il contorno delle cose, ma l’impressione che le stesse comunicavano a chi le guardava.
Non so cosa di preciso gli dissi.
Ricordo che gli parlai di una valle molto grande, circondata da monti elevati, le cui creste erano prive di vegetazione, di gruppi di alberi alti e frondosi, intorno a case isolate, raggiunte da strade tortuose e bianche, dei terreni arati o lasciati a prato che si stendevano intorno, del colore della terra, variegato di giallo o di marrone a seconda della composizione che li rendeva più o meno fertili.
Gli parlai del cielo azzurro, attraversato da piccole nuvole bianche che si rincorrevano e giocavano tra di loro, spinte da un leggero vento che le portava verso la nostra destra.
Gli descrissi gruppi di case lontane, abbarbicate sui fianchi delle montagne, che formavano i paesi vicini, piccoli e apparentemente fermi nel tempo, lento e stanco a passare.
Gli parlai del lungo fiume che correva sotto di noi e che non riuscivamo a sentire perché troppo lontano, degli alberi che ne accompagnavano il corso, delle foglie che si agitavano al vento e che cominciavano a cambiare colore per l’avvicinarsi dell’autunno.
Gli parlai ancora della strade che veloci scendevano da luoghi lontani per avvicinarsi alla pianura, dove, molto lontana, sicuramente scorreva un’autostrada, nascosta allo sguardo.
Un panorama bellissimo, che però era turbato dalle grosse macchie bianche delle cave, da cui qualcuno nel tempo aveva provveduto a strappare ghiaia, sabbia o roccia, per usarli nella costruzione di strade o di case, provocando ferite alla dolcezza ondulata dei monti che si susseguivano armoniosamente. Erano macchie violente e impressionanti, nel complesso verde nei suoi più vari toni, macchie che facevano male al cuore, perché, nel paesaggio da Eden, riportavano l’attenzione della persona che lo contemplava alla cruda realtà che vede l’uomo protagonista della sua vita e arbitro spesso cieco delle sorti della terra che Dio gli ha donato.
Quando finii, stette zitto per un po’, poi con gli occhi lucidi mi disse: "Ringrazio il Signore, perché sono riuscito a vedere ancora. Le tue parole mi hanno descritto i luoghi, inviato alla mia mente i colori, comunicato le sensazioni. Mi hanno trasmesso l’amore di Dio per questa nostra terra e per noi, che indegnamente la abitiamo. Grazie Gianni". e mi strinse in un abbraccio forte e sincero.
Ancora oggi, quando capita l’occasione, continua a ringraziarmi, descrivendo agli altri interlocutori quel momento dolce e tenero che, attraverso me, il Signore gli ha concesso di vivere con tutti i suoi sensi, anche quello di cui deve necessariamente fare a meno.
Ho imparato, frequentandolo per l’amicizia che nacque quel giorno, a sorridere delle sue battute quali quelle che tendono a far dimenticare che non vede."Guardiamoci negli occhi…" diceva con ironia, oppure: "Non mi ti far vedere più da me, altrimenti ti …."
Lui stesso sorrideva di quel "difetto" che, tutto sommato sembrava non pesargli più di tanto.
Ma il peso di questo "difetto" lo si notava tutto, quando parlava di sua moglie e dei suoi figli. Quando ringraziava il Signore perché era riuscito, prima di perdere del tutto la vista, a vedere il volto dolce e sollecito della moglie, nel pieno della giovinezza e della grazia, e quello tenero dei figli ancora piccoli, che oggi può solo immaginare, accarezzandoli e baciandoli.
Quando parla di questo, il turbamento trasforma i suoi lineamenti anche se solo per un attimo e capisci che la ferita non è del tutto rimarginata.. Ma non l’ho mai sentito lamentarsi per questo. Ha sempre e solo ringraziato il Signore per quanto di grande e prezioso gli ha donato, offrendo a Lui quel piccolo "difetto", fonte di dolore nascosto, ma anche e soprattutto di crescita spirituale, di maturità e di grazia.
La sua conoscenza mi è rimasta dentro. Poche persone mi hanno segnato come lui, Francesco è vicino al mio cuore per tutto quello che mi trasmette ogni volta che lo incontro, per gli insegnamenti di vita che non si stanca mai di darmi, specialmente quando non riesco ad andare d’accordo con me stesso, nei momenti purtroppo frequenti di depressione. Pensare a lui e alle sue parole è la migliore medicina per risalire la china e guardare in alto a Chi si fa vedere attraverso gli occhi del cuore.

Canto :Ad una voce (Ad una voce 3)
Abbiamo accostato queste due storie perché ci sembravano importanti per prepararci al Natale nella maniera giusta, utilizzando il tempo dell’attesa come occasione per incontrare Gesù nei fratelli che ci ha messo a fianco, nelle persone che ci ha affidato..

L’amore, parola inflazionata in questo periodo natalizio e non solo, è ciò che il verbo incarnato è venuto a testimoniare e ad insegnarci.Guardando a lui, la luce, riusciremo a portarla a quelli che non vedono.
L’icona è Maria, paragonata alla luna che illumina il buio della notte, ma che scompare quando viene il giorno, Maria che ha saputo attendere nel silenzio, meditando nel cuore tutto ciò che le veniva da Dio.
Maria che sotto la croce, ha unito la sua storia a quella di Giovanni, il discepolo che Gesù amava, perché l’amore divenisse il lievito della Chiesa nascente, quel fermento che solo Lui, incarnandosi nel suo seno, poteva rendere vivo ed efficace.
L’amore rende riconoscibile Gesù in ogni fratello che cammina con noi, nella quotidianità dei gesti più elementari come i discepoli di Emmaus che lo riconobbero nello spezzare il pane, dopo averlo ascoltato e invitato nella propria casa..
Concludiamo con una preghiera che abbiamo trovato nel testo di Romolo Taddei.dal titolo: "Compagni di viaggio"

" Signore Gesù, aiutaci, ogni volta,
ad incontrare coloro che ci sono stati affidati
con lo stile con cui tu incontrasti i discepoli sulla strada di Emmaus.
Aiutaci ad accostarci a loro con discrezione e rispetto,
senza imporre la nostra presenza e la nostra autorità.
Aiutaci a camminare con loro
Misurando il nostro passo alle loro forze e alle loro esigenze,
senza mai costringerli a subire il nostro.
Aiutaci a partire dalle loro domande,
dai loro problemi, dai loro desideri, dai loro valori.
Ricordaci che le persone, con le loro storie,
vengono prima dei programmi, dei testi, della nostra mentalità,
delle nostre esigenze e di quelle delle nostre comunità.
Aiutaci a rispondere senza false sicurezze,
senza retorica, senza frasi fatte, senza luoghi comuni;
ma con risposte vere e sincere che facciano ardere il loro cuore,.
Signore Gesù, aiutaci a farti riconoscere nello spezzare il pane:
nei gesti d’amore, di rispetto, di professionalità, di attenzione, di servizio.
Signore Gesù, donaci di avere la possibilità di indicarti presente
In famiglie e comunità che ti credono, ti vivono e ti testimoniano"..

In questi pochi giorni che ci separano dal Natale, mentre prepariamo la festa, ci siamo ripromessi di non dimenticare chi è il festeggiato e come vuole che lo festeggiamo, perché non abbia a rimproverarci del fatto che al centro della scena abbiamo messo cibo e regali e non Lui, l’uomo nella sua fragilità, nella sua povertà, nel suo limite, nei suoi bisogni più profondi che aspettano da noi di essere soddisfatti.
Auguri a tutti
Canto: Cristo è risorto veramente (Risorto per amore 1)
20 dicembre 2004

Chiamati alla santitàconiugale

I coniugi sono chiamati a santificarsi insieme, a diventare santi, non "nonostante il matrimonio", ma "attraverso il matrimonio", attraverso quel marito o quella moglie che non è come lo vorremmo o come lo vorrebbe Dio. Nel matrimonio il vincolo, il patto diventa Sacramento, vale a dire DONO di Dio.
Cosa significa? Dio, il giorno delle nozze, dona ai coniugi l’anello, la fede, la fedeltà al patto, il rapporto, il vincolo di alleanza che rende possibile la realizzazione del progetto comune, che deve identificarsi con il progetto di Dio.
La comunione attraverso il corpo e lo spirito, l’apertura alla vita, vale a dire la fecondità spirituale e biologica dipenderanno da quel vincolo di cui Dio ha garantito l’indissolubilità, se la grazia del sacramento viene alimentata, chiesta, perseguita, accolta.
Dio ha affidato alla coppia il compito di renderlo visibile al mondo."Da questo riconosceranno che siete miei discepoli, da come vi amate"
Sulla natura Dio ha costruito il suo progetto di dare la vita al mondo.Infatti l’uomo e la donna sono naturalmente attratti l’uno all’altra. (Il problema è che questa attrazione non dura in eterno. L’amore è una scelta che si fa per far stare bene l’altro.)
L’unità dell’essere, del pensare e dell’agire è propria della Trinità, è attributo di Dio.
Dio è amore e, attraverso l’amore, dà vita al mondo, dà vita attraverso lo Spirito che è il frutto, il dono dell’amore, è la relazione che intercorre tra il Padre e il Figlio.
Dio con la creazione dell’uomo e della donna ha smesso di creare, affidando quindi alla coppia il compito di procreare, prendendo esempio da Lui.
L’amore è felice quando porta frutto.
L’amore è la relazione che intercorre tra l’uomo e la donna, quando decidono di sposarsi.
L’amore presuppone un io che ama e un tu che è amato.
Perché l’amore si realizzi è necessario uscire fuori da sé.
Dalla capacità dell’uomo di amare, uscendo fuori da se, consegue la possibilità di somigliare a Dio.
La santità consiste nell’essere, nell’appartenere a Dio, nel vivere in Dio le cose umane.
Dio alla coppia dà la possibilità di vivere la relazione " da dio", donando il Sacramento, che è permanente.
Così, come i sacerdoti non cessano mai di essere preti, i coniugi non cesseranno mai di essere coniugati, una volta che si sono promessi amore e fedeltà per sempre davanti a Dio.
Gli sposi celebrano il matrimonio, sono ministri del sacramento, amministratori e depositari del dono.
Il dono che Dio fa alla coppia è il dono del vincolo, della relazione, vale a dire della capacità di tenere fede all’alleanza, anche quando questa appare squilibrata, perché uno dei due non corrisponde.
La santità si consegue, cercando di rendere efficace la grazia del Sacramento.
E’ un po’ come quando ci regalano un apparecchio che non sappiamo come funziona o ne conosciamo solo pochi aspetti.
La coppia che si sposa in comune rispetto a quella che si sposa in chiesa ha lo svantaggio di vivere nella casa che umanamente ha preparato, anche bella e confortevole, se vogliamo, senza accorgersi che quella non è che il garage o la cantina di un castello bellissimo, con ogni genere di conforto.
La santità è entrare in questa nuova e sconosciuta dimensione e cercare di abitare tutte le stanze di quel castello, perché anche altri vi possano essere accolti.
Il compito della coppia è di amarsi come Dio ci ha amato.
Il matrimonio è icona del vincolo che unisce Cristo alla Chiesa.
Non si diventa santi facendo cose straordinarie, ma rendendo straordinarie le cose ordinarie.
Come?’ Vivendo ogni momento il noi, collegando ogni cosa a Dio e all’altro, agli altri.
Come ogni battezzato, per diventare santo, deve attingere alla fonte dell’amore, cioè Dio, per  riversarlo sui fratelli, attraverso l’ordinarietà della vita, gli sposi con il matrimonio sono chiamati alla santità accogliendosi vicendevolmente e divenendo nello scambio quotidiano dell’amore veicoli dell’amore di Dio
Il Sacramento del matrimonio è Sacramento di ministero, per cui la grazia è data alla coppia perché insieme siano icona di Dio nella capacità che hanno di essere uno e distinto, di vivere la comunione, l’eternità, l’infinito, la fecondità, la trascendenza.
La santità è vivere consapevolmente il Sacramento, che più degli altri può parlare agli uomini assetati d’amore.
Con il Battesimo si appartiene a Cristo singolarmente, con il Matrimonio si appartiene a Lui insieme coniugati.
La spiritualità dei coniugi, non è la spiritualità della rotaia, perché, sposandosi c’è un nuovo modo di vivere, si vive in relazione all’altro.(F.C.13, come Cristo ama la Chiesa).
"Amatevi come io vi ho amato", "ama il prossimo tuo come te stesso", "da questo riconosceranno che siete miei discepoli, da come vi amate".
Il comandamento di Gesù è chiaro: saremo giudicati sull’amore, al nostro prossimo, che nel caso degli sposi è il proprio coniuge.
L’amore vero è quello che è capace di perdonare non sette, ma settanta volte sette.
"Se amate colui che vi ama, che merito ne avete? Anche i pagani lo fanno".
Essere santi significa decidere se appartenere a Cristo o no, essere riconoscibili dal modo in cui amiamo il nostro prossimo, riusciamo a perdonarlo, rendendo Dio visibile attraverso questa capacità divina, di morire per amore.
Morire non significa porre fine alla nostra esistenza terrena, ma abbandonare, liberarci di tutto ciò che ci appartiene materialmente e spiritualmente. Tutto deve essere portato alla mensa comune, perché di due idee, pensieri ecc. venga fuori un’idea nuova che nasce dalla morte delle nostre idee personali o una cosa nuova quando si mettono in comune risorse e carismi.
La santità nasce da una morte che genera vita, da un quotidiano vissuto nell’ascolto e nella condivisione, dove chi ci mette tutto è Dio, e dove noi non siamo che umili operai della sua vigna a cui viene chiesto di lavorare perché cresca rigogliosa e porti frutto. La coppia è chiamata insieme; ma non necessariamente allo stesso momento gli sposi sono in grado di dire di sì a Dio consapevolmente.
Anche nella coppia c’è chi arriva prima dell’altro.Qualcuno,a volte, non arriva mai.
Dio ci chiederà conto di cosa avremo saputo fare con la persona che ci è stata affidata.A Lui non interessa che la cosa sia esteticamente perfetta, ma che sia il frutto dell’impegno comune.
Per quelli che non collaborano, pensiamo a cosa dobbiamo inventarci perchè un bambino pasticcione e svogliato arrivi con il nostro aiuto a leggere, scrivere, disegnare ecc.
E non preoccupiamoci per chi arriva ultimo, perchè tutti, i primi e gli ultimi avranno un trattamento uguale.
Il salario, infatti, è Lui, infinito che, per quanto lo si voglia dividere, sempre infinito rimane.
Da una catechesi di mons.Renzo Bonetti
febbraio 2006

14 Famiglia oggi:riflessioni di coppia

Rubrica radiofonica a cura di Gianni e Antonietta

Canto: Dio ha tanto amato il mondo (CD – "Risorto per amore" 10)

Cari amici all’ascolto di Radio Speranza un caldo e affettuoso saluto da Gianni e Antonietta.
Siamo in Quaresima, il tempo del digiuno e della conversione, il tempo del deserto per incontrare il Signore. Abbiamo pensato che la sigla della trasmissione dovevamo cambiarla e, se pur a malincuore, l’abbiamo fatto, perché è opportuno che non dimentichiamo qual è stato il prezzo pagato per il nostro riscatto, che la tentazione non ci venga di dare per scontato che tutto si aggiusta e che noi possiamo continuare a vivere come abbiamo sempre fatto, tanto Cristo è risorto e non dobbiamo temere più nulla.
La Quaresima ci chiama a ripercorrere con Gesù le tappe che lo hanno portato a non cedere allo smarrimento, alla tentazione di anteporre beni immediati al bene duraturo e sommo, per tutta l’umanità, a perseverare nell’amore come scelta di vita, spesa non per sé ma per tutti quelli a cui il Padre l’aveva mandato. Il sacrificio di Cristo è finalizzato a che la famiglia di Dio diventi famiglia dell’uomo e che tutti insieme possiamo gridare "Abbà, Padre" il nome più dolce e più intimo, con il quale i figli possono chiamare Chi ha dato loro la vita.
Essere testimoni del suo amore è il compito di ogni credente, che ha sperimentato la resurrezione e la vita, quella vita che ogni anno in primavera, nel tempo di Pasqua, cova nascosta nel grembo della natura e che porta frutto solo se con pazienza, con vigilanza, con operosità viene accompagnata alla piena maturazione dalla preghiera e dall’amore gratuitamente donato ad ogni fratello, proprio come ha fatto Gesù.
L’esempio della ruota di S. Antonio Abate ci ha aiutato a capire come le due cose siano strettamente connesse. I raggi, come gli uomini, man mano che si avvicinano al centro, cioè a Dio, riducono la distanza che li divide. Gesù è venuto a dare unità al mondo disgregato e diviso dal male, è venuto a portarci la buona novella dell’amore che salva, nella famiglia, nella Chiesa, nel mondo.

Questa settimana abbiamo fatto esperienza di cosa significhi essere famiglia, in quella nostra d’origine, quando siamo andati a far compagnia a mia madre che ci aspettava per condividere con noi il pasto che con le sue mani tremanti, ci ha voluto preparare per forza, in quella che abbiamo formato, quando stanchi alla sera, dopo un giorno vissuto di corsa, ci siamo guardati negli occhi e senza parlare ci siamo capiti e accolti, quando Giovanni ha fatto irruzione nel silenzio della nostra casa stanca di parole e ci ha chiesto se poteva dormire nel nostro lettone, per consentire al papà di mantenere la promessa, fatta alla mamma a novembre, il giorno del suo compleanno, di portarla al cinema.
Ci siamo sentiti famiglia, quando la comunità parrocchiale, insieme ai figli e ai nipoti, si è stretta intorno a Miranda e Romano, per il loro 50° anniversario di matrimonio, grati al Signore perché ci ha mostrato che con il Suo aiuto è possibile essere fedeli, amarsi e onorarsi tutti i giorni della vita.
Ci siamo sentiti famiglia, quando abbiamo preparato il più grande e pantagruelico banchetto di carnevale che mai Chiesa abbia accolto, dolci e leccornie di ogni genere, frutto della solidarietà di tanti fratelli che hanno messo a servizio tempo, fatica, e denaro per finanziare un sogno, quello di far volare a Colonia quanti più giovani della nostra parrocchia, a qualunque gruppo appartengano, per rispondere al richiamo del Papa, che in loro ripone la grande speranza di un’umanità rinnovata.. Insieme ai giovani abbiamo sognato, con loro ci siamo lasciati portare dall’entusiasmo, per prendere coraggio e credere che non era fatica vana distribuire foglietti con su scritta la parola di Dio: "Non voi avete scelto me ma io voi" (Gv 15,16) e invitare i compagni di banco della domenica a fermarsi e a prendere in considerazione che potevàmo vederci di nuovo e che il martedì e il venerdì c’è una splendida occasione per sentirsi famiglia nel gruppo Sacra Famiglia e insieme lodare e ringraziare il Signore.
Quando ce l’hanno detto che dovevamo parlare a degli sconosciuti ci è sembrata una pazzia, e abbiamo pensato ai testimoni di Geova che dovevano averne di coraggio, per fare sempre quello che noi con difficoltà eravamo chiamati a fare per la prima volta, a due a due, nella nostra parrocchia." Mentre uno parla, l’altro preghi", questo era il mandato.
Ci siamo guardati e abbiamo letto, dipinta sui volti, la stessa domanda. Di questo piccolo sparuto esercito di gente mal equipaggiata, giovani e vecchi, sani pochi, malati molti, cosa avrebbe potuto farne il Signore? Con quali parole avremmo potuto fermare la gente che, finita la Messa ha solo fretta di uscire per tornare alle quotidiane faccende, agli impegni abituali? Abbiamo pensato che il compito più difficile l’aveva il Padreterno, che non si scoraggia e meno male che è onnipotente.
Abbiamo ricordato, per farci coraggio, cosa aveva escogitato per noi, per prenderci all’amo, il Signore. Annamaria e Graziellina, nell’ambito della missione diocesana del 2000, quando bussarono alla nostra porta, erano consapevoli che da sole non avrebbero convertito nessuno, anche perchè naturalmente sono timide e di aspetto minuto. Ma se io sono qui, e se Antonietta è qui, è proprio per quel loro sì detto al Signore, affidando a Lui l’esito dell’impresa.

Canto: Come tu mi vuoi (CD – "Io scelgo te"2)

Ricordo quando mi suonarono difficili e dure le parole del Vangelo quando parla di " servi inutili", ma come riuscii a capirle e a farle mie ripensando ad una pezza di fodera.
Pescara 26 novembre 2001
Quando eravamo bambini, all’ora di pranzo ci mettevamo sulla strada, fuori al cancello per vedere il carretto dei nonni che tornavano dal mercato, dove erano andati a vendere la stoffa.
Ricordo le pezze lunghe e pesanti dei tessuti invernali, quelle corte e leggere delle fodere e dei tessuti di seta.
Noi bambini eravamo sempre eccitati quando dall’angolo spuntava il grande carretto, spinto a fatica dai grandi, che sotto ogni tempo così si guadagnavano la vita.
Ricordo l’ansia e la gioia di poter, una volta che era entrato in giardino, correre per prendere in braccio una o più pezze di stoffa, così da renderci utili e da accorciare il tempo dell’attesa del pranzo.
Gli adulti ci lasciavano fare, sorridenti ci davano ciò che ognuno poteva portare a seconda dell’età, ma con apprensione ci seguivano con gli occhi, quando ci affidavano ciò che spesso finiva per terra sporcandosi.
Così tutti noi piccoli, per quello che sapevamo e potevamo fare, i grandi per quello che dovevano per forza fare, contribuivamo a che la stoffa fosse rimessa in ordine negli scaffali della sala, dove poi si apparecchiava per mangiare insieme il frutto del lavoro di tutti.
Noi bimbi ci illudevamo che fosse così e i grandi ce lo facevano credere, ma quante volte hanno pensato che avrebbero fatto volentieri a meno della nostra collaborazione, perché continuavamo a combinare disastri.
Così è il Signore che ci chiama a servirlo senza che noi sappiamo far nulla, ma lo fa per farci partecipare con più gioia e soddisfazione al grande banchetto che ci ha preparato.
E’ importante, in questo tempo che ci dona di vivere, che sappiamo aspettare con pazienza al cancello, che siamo disponibili a prestare le nostre deboli braccia per portare i vari fardelli.
Non c’è dubbio che Lui ne dosi il peso secondo la statura, la robustezza e l’età di ognuno, proprio come facevano mio padre e mio nonno.
Voglio ringraziare il Signore perché, attraverso questa parabola, mi ha parlato del servizio, dell’importanza che assume nell’ambito del suo progetto, ma specialmente dell’inutilità di quanto ognuno di noi fa, ma che comunque serve per farci crescere e gustare con più consapevolezza e gioia ciò che ci ha preparato, ciò che era già pronto senza che noi lo guadagnassimo.
Ringrazio il Signore di quella pezza di fodera che da bimba ho portato, che mi ha fatto capire quanto sono poco importante, ma quanto valgo per Lui.
Voglio benedirlo perché mi ha ricordato che solo i bambini ci possono aprire il senso delle parabole.
Ridiventare bambini è la strada maestra per entrare nel regno dei cieli che, ogni volta che ci riusciamo, si trasferisce su questa terra e trasforma la nostra storia di schiavi, di servi inutili in storia di figli, a tutti gli effetti eredi di quel patrimonio di grazia che proviene solo da Lui.

Spesso ci siamo trovati già scritte le cose che non sapevamo come dire, e ci siamo stupiti di come ci abbiamo messo così tanto tempo ad accorgerci che il più bel libro scritto da Dio è la Bibbia, in cui il Nuovo Testamento dà luce e senso al Vecchio, che la nostra storia prende colore e acquista un senso, solo se letta alla luce di Cristo, il Verbo di Dio, la Parola incarnata, che ci insegna come si vince l’aridità e il deserto dell’anima.
La convinzione che non avevamo nulla di nostro da portare ci ha spinto ad alzarci presto, e a cercare nel raccoglimento della nostra Chiesa, prima della Messa, quella luce che non riuscivamo a vedere.
L’esperienza del profeta Elia, che sull’Oreb aveva teso le orecchie per sentire passare il Signore, ci hanno spinto a tacere su tutte le parole si affollavano nella nostra mente, perché avvertissimo le sue modulate sul mormorio del vento leggero.
Bisognava che facessimo silenzio per sentire, per vedere la Parola che salva, che non delude, che non cerca approvazione, né applausi, che mette in relazione l’uomo con Dio, comunicandogli il suo amore, perché non rimanga senza parole, quando agli altri lo deve annunciare.
Era in quell’ostia bianca e immacolata che il sacerdote ha consacrato sopra l’altare, la fresca sorgente che ha cominciato ad alimentare il nostro serbatoio inquinato e a corto di acqua limpida e fresca.
Canto: Pane di vita (CD – "Il tuo amore è grande" 6)

"Quando non avete nulla da portare è allora che portate Gesù nella sua interezza", sono le parole che sono arrivate, portate dal soffio del vento leggero.
"Date voi stessi da mangiare".
Sembra un paradosso, che Gesù chieda agli apostoli di collaborare a che tutti siano sfamati. Ma che Dio è questo che non riesce a fare le cose da solo e ha sempre bisogno di qualcuno che gli dia una mano, gli dica di sì per portare a compimento il suo disegno di salvezza per tutti quelli a cui l’ ha destinata?
Un Dio che ha chiesto la collaborazione di una donna per incarnarsi, e continua a chiederla ad ogni uomo per entrare nella sua storia e trasformarla in dono a tutti quelli che ne sono toccati..
Un dono, quello di Dio che si trasforma in una miriade di doni, quando si entra nella logica del dare se stessi, perché altri siano capaci di dare, di perdonare, di amare.
L’uomo ha bisogno di chi si fermi anche un attimo ad ascoltarlo, a chiedersi il perchè di un mesto sorriso o di una ruga che, più profonda, attraversa il suo viso.
Egli è sempre più solo e sempre più inascoltato rimane il suo grido, ovattato dalle pareti di una casa deserta di affetti o di un ospedale, dove rari samaritani s’incontrano, per lenire il suo pianto e curare le sue ferite.
L’idea di amore, che la nostra società ci trasmette attraverso i mass media, contrasta vistosamente con quella predicata dal Vangelo.
Solo in chiesa o in luoghi a lei vicini sentiamo parlare di un sentimento che diventa una scelta di vita, quella che porta a donarsi tutto all’altro, collegandolo a ciò che ogni uomo è destinato ad essere: dono da parte di Dio a tutta l’umanità.
Abbiamo ringraziato il Signore per quel piccolo pezzo di pane con il quale si è comunicato a noi, durante la Messa, per quello esposto nella teca dorata e lucente che don Gino, con caparbietà, continua ad esporre ogni mattina perché nessuno rimanga a secco, l’abbiamo ringraziato per tutti i fratelli in cui lo incontriamo, l’abbiamo ringraziato per Paola, che ci ha lasciato, e abbiamo ricordato la preghiera che Antonietta, lo scorso anno aveva fatto per lei

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7 luglio 2002
Paola è dono di Dio, è mezzo e strumento di grazia.
Negli occhi di Paola, o Dio, ho visto te, la tua mitezza, la tua sofferenza, la tua dolcezza, il tuo amore per noi, Signore.
Tu, Signore, attraverso di lei brilli e ti manifesti; tu ce l’ hai donata e ce l’ hai fatta amare, ed ora te la vuoi riprendere.
So, Signore, che è cosa tua, come tutte le cose create. Tutto Signore ti appartiene, tutto ciò che di bello e di buono esiste. Signore, Paola é tua in modo indiscusso perché è cosa bella, opera delle tue mani.
Oggi, quando sono andata a trovarla, in ospedale, non ho visto il suo volto gonfio e tumefatto, né i corti capelli da poco ricresciuti dopo lo scempio che ne aveva fatto la chemio, né la ferita profonda dietro l’orecchio dell’ultima speranza da poco naufragata, non ho visto i cerotti che le coprivano le vene martoriate, né sotto le coperte, le gambe immobili, per il male che si era propagato alle anche.
Ho visto, Signore, i suoi occhi spalancati e luminosi, il volto disteso e sereno, il sorriso aperto e gioioso ad accogliere i volti turbati di chi si recava a trovarla.
Attraverso le mani bianche e sottili comunicava il calore di un cuore pieno d’amore per gli altri, in quelle ho visto le mani di chi ha trasformato la sua vita in preghiera e offerta continua di sé.
Mentre si muovevano continuavano a parlarmi di te, Signore, più che ogni altra parte del corpo, un corpo in rovina, attaccato nelle sue fibre più profonde da un male subdolo che non perdona.
Signore, Paola non chiede per sé che di fare la tua volontà nell’abbandono fiducioso nelle tue braccia.
Signore mio Dio, pur se sappiamo che niente avviene a caso e neanche un capello verrà perso di quanto hai creato, che niente delle cose che da Te vengono sarà disprezzato, vogliamo osare chiederti l’impossibile.
Padre, eterno e misericordioso, accogli questa preghiera, fatta nel tempo della nostra storia mortale, un tempo in cui le cose ci si presentano con i colori e i profumi del mondo, un tempo in cui gli affetti dell’anima sono ancora indirizzati a ciò che sentiamo con le nostre orecchie e vediamo con i nostri occhi, un tempo in cui il dolore di un uomo ci fa compassione quando teme per la sua compagna che se ne sta andando, lasciandogli due piccoli angeli a cui dovrà provvedere da solo.
Signore questa sorella tu l’ hai donata a sua madre, a suo padre, a suo marito, ai suoi figli e a noi che abbiamo potuto conoscerla e apprezzarne la comunione costante con te.
Signore, ti prego, non toglierci prima del tempo il tuo dono, fa’ che possiamo ancora di più apprezzarlo, fa’ Signore che in lei possiamo continuare a contemplarti ed amarti.

Il Signore ha ascoltato la preghiera dei suoi cari e di quanti hanno avuto la grazia di conoscerla e di essere consolati da lei, quella preghiera a cui io ho dato voce, consegnandogliela, quando sono andata a trovarla in uno dei suoi tanti ricoveri all’ospedale. Non aveva dubbi che lei, l’interessata, al Signore avrebbe detto ancora una volta di sì.
Quando lo scorso mercoledì delle ceneri, la bara è entrata nella chiesa, che nei giorni precedenti si era stretta intorno ai giovani per condividere un sogno, a una coppia per rendere grazie al Signore, e all’ostia esposta sopra l’altare per riempirsi di luce, il coro ha intonato il canto: "Risplendi Gerusalemme", tutti ci siamo commossi, pensando a quanto aveva sofferto, a quanto aveva dato e a quante cose le erano state negate.
Ma le parole del libro della Sapienza ci hanno fatto guardare in alto per vedere risplendere in cielo la luce di una stella che si era aggiunta a tutte le altre per continuare ad illuminare la terra.

Sapienza 3,1-9
Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio,
nessun tormento le toccherà.
Agli occhi degli stolti parve che morissero;
la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina.
Ma essi sono nella pace.
Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi,
la loro speranza è piena d’immortalità.
Per una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati
e li ha trovati degni di sé:
li ha saggiati come oro nel crogiuolo
e li ha graditi come olocausto.
Nel giorno del loro giudizio risplenderanno,
come scintille nella stoppia, correranno qua e là.
Governeranno le nazioni, avranno potere sui popoli
E il Signore regnerà per sempre su di loro.
Quanti confidano in lui comprenderanno la verità;
coloro che gli sono fedeli vivranno presso di lui nell’amore,
perché grazia e misericordia sono riservate ai suoi eletti.
Canto: Risplendi Gerusalemme (CD – "Risplendi Gerusalemme" 9)

14 febbraio 2005

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La comunità : luogo di perdono e di festa

Il tema di questo incontro mette in relazione tre parole:”comunità”, perdono”,festa” che sembrano non averne tra loro, almeno per gli studiosi di sociologia e per tutti gli addetti ai lavori, in quanto la comunità, intesa come luogo dove si mettono in comune delle cose, molto raramente è un luogo di festa o, se questo accade, raramente la festa dà gioia e pace e serenità anche quando stai fuori.
Conosciamo tanti tipi di comunità, e quelle di cui si parla di più sono quelle di recupero, che negli intenti vogliono riprodurre un clima di famiglia, per rimettere in piedi chi vi fa ricorso e restituire loro la dignità perduta.
Nello stesso tempo la parola”festa” , nella sua etimologia, richiama il focolare domestico, la casa, e quindi un ambiente familiare.
Il “perdono” unisce la parola “comunità”alla parola “festa”, vale a dire che la chiave perché in una comunità si faccia festa è l’esercizio del perdono.
Di quale comunità vogliamo parlare? A quale comunità apparteniamo?
Subito ci viene in mente il gruppo a di cui facciamo parte, chiamato “Sacra famiglia” che ci vede qui riuniti oggi, ma anche la nostra famiglia d’origine o quella a cui, sposandoci abbiamo dato vita, la parrocchia, famiglia di famiglie, per finire alla Chiesa, assemblea di tutti i credenti, di tutti i figli di Dio. Dalla più piccola alla più grande, in ognuna siamo chiamati a testimoniare l’amore di Dio, a metterlo in circolo, a dare vita a chi non ce l’ha, a portare acqua a chi non sa o non può o non vuole attingere direttamente alla fonte.
L’amore è fonte di vita e il gruppo di preghiera è la piccola serra del Signore, è il luogo dove si coltiva questa pianta in via d’estinzione, capace di produrre frutti che non marciscono e capaci di soddisfare gli appetiti di tutti gli scontenti, gli arrabbiati, i depressi della terra.
La preghiera è il necessario collegamento alla fonte della vita, nella sottomissione a chi ci dà luce, forza e calore per crescere e portare frutto.Ma la preghiera da sola non basta ,se non nasce da un accordo con i fratelli.
Se osserviamo la croce, vediamo che un’estremità è conficcata nella terra e l’altra si protende verso il cielo, mentre le altre due che si allargano ad abbracciare gli uomini, per farli entrare nella comunione con Dio.
L’accordo, di cui si compone la melodia, è fatto sempre con tre note, ma non c’è strumento che funzioni bene se non lo si accorda con qualcosa che funga da unità di misura.Quindi non basta accordarsi per fare qualcosa(anche i delinquenti lo fanno per portare a termine un misfatto), ma è necessario che ognuno si sintonizzi con il Signore, la nostra perfetta e ineguagliabile unità di misura.
” Se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”dice Gesù ( Mt18,19-20).
L’accordo a cui ci chiama il Signore è quello che nasce dall’ascolto della sua parola, che è parola di giustizia e di verità, è quello che viene irrobustito e capace di far fluire il bene nelle più piccole e nascoste parti del Corpo Mistico, dall’Eucarestia e tutti gli altri Sacramenti attraverso cui Dio ci dona l’amore.
I Sacramenti sono il frutto del perdono di Dio, del suo amore testimoniato fino alla donazione totale di se,attraverso l’incarnazione e morte per donarci lo Spirito.
“l’uomo non vive di solo pane, ma …..di quanto esce dalla bocca del Signore” troviamo scritto nel Deuteronomio.(Dt8,1-4)
La parola di Dio è il nutrimento che serve per attraversare il deserto senza che il vestito si logori addosso e il piede si gonfi.
La parola di Dio è parola di perdono, è testimonianza d’amore.
Con la sua parola ci parla dell’alleanza stretta con il popolo d’Israele alla quale non è venuto mai meno, neanche di fronte alle defezioni più vistose.
Il perdono di Dio si è fatto carne in Gesù , la Parola che è all’origine di tutte le altre e le spiega e le comprende, la Parola che incarna il perdono di Dio e ci rende capaci di fare altrettanto
I Sacramenti sono il segno tangibile del perdono di Dio, sono un “super dono”, se così si può dire, visto che i nomi non hanno il superlativo, al contrario degli aggettivi.
Con il Battesimo Dio ci riporta alla condizione originaria, riammettendoci nella sua casa, il giardino dell’Eden; con la Cresima, ci riconferma nella comunione con Lui, con l’Eucarestia ci dona se stesso, sostituendosi a noi per l’espiazione dei nostri peccati;con la Riconciliazione ripete il suo perdono, tutte le volte che glielo chiediamo; con l’Unzione degli infermi si piega sulle nostre ferite visibili e invisibili e le cura e le guarisce; con il Sacramento del Matrimonio in cui dona la Grazia, , cioè gli strumenti per amare per tutta la vita il coniuge, nella sua inadeguatezza, povertà, incapacità ad essere come vorremmo, con l’Ordine attraverso il quale fornisce i mediatori ordinari della sua grazia, i sacerdoti, ministri ordinari di perdono.
Tutti i Sacramenti, quindi, sono finalizzati a dare vita all’uomo, a renderlo felice, vale a dire fecondo, capace di dare vita agli altri, capace di portare frutto, attraverso la vita donatagli da Dio.(Non è un caso che la parola “felicità” si riporta al verbo greco”phyo”, “sono fecondo, produco, porto frutto”).
Ma il Sacramento che più degli altri ci nutre è l’Eucaristia, perché in esso è Dio stesso che si fa cibo e bevanda per noi, un Dio che in Cristo Gesù è diventato pane e Parola, quella che viene spezzata e condivisa nella mensa eucaristica., per soddisfare gli appetiti di tutti gli affamati e gli assetati del mondo..
In effetti il pane e la parola sono il necessario viatico per chi deve attraversare il deserto, per quelli che vogliono arrivare alla terra promessa.
Pane e parola sono gli ingredienti per fare comunione, pane e parola sono quelle che si spezzavano attorno alla mensa delle prime famiglie cristiane(At2,42;4,32), pane e parola sono gli ingredienti di cui sono sempre più prive le nostre mense, le mense delle famiglie degli uomini.
La comunione è il valore più alto a cui una comunità deve tendere e questa si ottiene soltanto quando la parola è parola di perdono, di accettazione dell’altrui diversità, è commozione per l’altrui fragilità, è tenerezza per ciò che non riesce a fare, è dono gratuito perché l’altro abbia la vita.
La comunione è frutto di condivisione del pane, di ciò che si è e di ciò che si ha, condivisione di beni materiali e spirituali, dei talenti(carismi) che Dio ha affidato ad ogni uomo per metterli a servizio della sua Chiesa.
Dio con l’Eucaristia ci chiama alla responsabilità verso chi ci ha messo a fianco, “il prossimo”(superlativo di “prope” vicino); ci interpella sulla responsabilità verso il fratello debole; la storia di Caino e Abele ci parla di questa responsabilità.”Dov’’è tuo fratello?” chiede Dio a Caino(Gn4,9).
L’Eucaristia ci parla della nostra responsabilità nei confronti, di tutti i fratelli uniti a noi nel suo Corpo Mistico.
Le parole della consacrazione” Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo che è dato per voi.Fate questo in memoria di me”(Lc22,17-20) ci dicono che celebrare e fare memoria non è compito solo del sacerdote che consacra il pane e il vino, ma di ogni battezzato chiamato a fare ciò che ha fatto Gesù.
Il perdono è la strada scelta da Dio per darci la vita, il perdono è il concime che alimenta e fa crescere le piante, nelle piccole e grandi serre dove si coltiva l’amore. Il perdono è testimonianza d’amore, il perdono porta pace e gioia nelle nostre comunità e di conseguenza nei luoghi dove viviamo o operiamo.
Gesù è venuto tra noi a mostrare il vero volto del Padre.
Ai comandamenti scolpiti sulle tavole della legge, tre a sinistra che contemplavano i doveri verso Dio, sette a destra per i doveri verso il prossimo, Gesù ha sostituito un comandamento nuovo che li riassume tutti, “ama il prossimo tuo come te stesso” , volutamente ignorando i doveri verso Dio, scritti sulla tavola di sinistra.
“Se non ami il fratello che vedi, come puoi amare Dio che non vedi?”
Se hai un’offerta per l’altare…va’a riconciliarti..)(Mt5,24)
Per amare Dio bisogna passare attraverso un amore umano, per apprezzare il suo sacrificio bisogna fare esperienza di amore non corrisposto sì da desiderare il suo che non si è arreso di fronte al tradimento dei suoi più intimi amici, del suo “prossimo”
“Amatevi come io vi ho amato”, questa è la perfezione dell’amore.
Ma come ci ha amato Dio?
Perdonandoci non sette volte, ma settanta volte sette, per cui il comandamento nuovo può esprimersi così:”Perdona il prossimo come perdoni te stesso.Perdonatevi come io vi ho perdonato.”
Dio testimonia che, pur se sbagliano, continua ad amare i suoi figli e non li abbandona, ma si serve delle prove per far capire loro ciò che conta veramente nella vita, ciò che è essenziale, chiarificando il desiderio, dando ad ognuno il nutrimento necessario che alla fine si rivela l’unico che dona la vita:il perdono.(Dt8,1-4)
Solo così il deserto lo si può attraversare senza che la veste si logori addosso e il piede si gonfi.
Tutta la storia d’Israele è una storia d’amore tra Dio e il suo popolo, un amore che non dipende dalla bravura di chi si è scelto, né dalla disponibilità a lasciarsi aiutare e trasformare da Lui..
L’amore basta all’amore e non ha giustificazioni, almeno quello di Dio.
Riconoscersi peccatori, non bravi, non buoni, bisognosi di perdono, ci porta ad accogliere il perdono che viene dall’alto, a lasciarci nutrire dall’amore gratuito di Dio e a desiderare di trasmetterlo anche ai nostri fratelli.
“Eterna è la sua misericordia” ripetiamo in un salmo tra i più conosciuti, riconoscendo a Dio la capacità di perdonare all’infinito..
La società in cui viviamo sente la necessità di perdonare, tanto da prevedere nelle sue leggi forme di perdono come l’amnistia, il condono, l’indulto, la grazia.
Il giubileo, nelle società antiche, serviva a condonare i debiti contratti, perché la società deve poter ricominciare da capo e non può essere sempre in conflitto con se stessa.
Ma noi sappiamo perdonare? Che tipo di perdono è il nostro?
Il testo di Giulia Paola Di Nicola e Attilio Danese “Per…dono”edito da Effatà ci aiuta in tal senso.
Vi scopriamo forme illusorie di perdono che non conoscevamo come quello superficiale che rimanda l’esplosione del conflitto; quello ragionevole, che cerca di scusare l’altro; quello impotente, conveniente che avalla il comportamento scorretto; quello umiliante, rinfacciato,pesante,indolente per incapacità relazionale, quello l blak out, differito per penalizzare l’altro,quello accomodante,paternalista, che dissolve l’altro, il perdono abusato,ombelicale per l’incapacità a vivere la mancanza di serenità in famiglia, il perdono predicato,minimalista, sotto condizione,vicario, generico che non implica uno sforzo personale e un rapporto personale.
Tutti questi perdoni sono falsi imperfetti perché non hanno come effetto quello di mettere in circolo l’amore che fa crescere l’altro nella gratuità del dono.
Gli imperdonabili sono quelli che non hanno scusanti, quelli che umanamente è impossibile perdonare, ma che solo il nostro perdono può riabilitare e trasformare in creature nuove.
Gli imperdonabili.devono stupire per ciò che inaspettatamente viene loro concesso e da lì ripartire per una vita nuova. In questo caso fondamentale è l’intervento della Grazia per riuscire a fare ciò che Dio ha fatto per noi.
Ma frutto della Grazia è anche il riconoscersi bisognosi di perdono. Solo chi si sente imperfetto riesce a comprendere l’altrui inadeguatezza.
Bisogna fare esperienza di perdono per poter perdonare.
“Amatevi come io vi ho amato” Ma come ci ha amato Dio? Come ci ha perdonato?
La storia d’Israele è storia di alleanza, fedeltà, perdono.La nostra storia gode dei frutti del perdono.
Il perdonodi Dio è gratuito, parte dall’amore e dalla fiducia nei riguardi dell’uomo. Un dono gratuito e inaspettato allarga il cuore e spinge a fare altrettanto, perchè la carità è contagiosa.Chi si sente perdonato è spinto a perdonare. Chi ha fatto esperienza dell’amore gratuito di Dio non può sottrarsi all’azione della Grazia che opera in tal senso.
Il perdono di Dio educa quindi a fare altrettanto. Come?
Sicuramente l’invocazione allo Spirito che ci dia occhi per guardare e cuore per amare come Dio ha fatto con noi non è senza frutto, ma anche la lettura della Parola ci aiuta in tal senso. La vicenda di Giuseppe è emblematica.(Gn42-45)
Giuseppe, venduto dai suoi fratelli, pur desiderando riabbracciarli, appena li riconosce, si trattiene e li fa un po’ soffrire perché capiscano e imparino dall’esperienza concreta il difficile cammino della presa di coscienza del male fatto.
Il perdono non può prescindere dalla memoria di quanto è accaduto. Perché la ferita si rimargini bisogna guardarla e curarla, lasciandola scoperta.
Il perdono che parte dalla decisione di mettere una pietra sopra il passato serve solo a far imputridire la piaga.
Il perdono è memoriadella crisi, è vedere lo strappo come occasione di crescita, come opportunità per creare un vincolo più saldo. Il perdono è l’altra faccia dell’amore che nasce dalla tenerezza che suscita la compassione per l’altrui fragilità.
(Pensiamo a quale sentimento proviamo nei confronti di un bambino che non riesce a fare bene ciò che per i grandi è normale)
La capacità di perdonare a prescindere e nonostante tutto, viene da Dio e umanamente non può esserci perdono perfetto, ma solo approssimazioni che non sono liberanti e non promuovono la persona.
Ogni cristiano è chiamato a dare vita, a far crescere l’altro, a partorirlo a Cristo Gesù e in quest’ottica deve essere visto il perdono: come opportunità data all’altro di entrare nella corrente della Grazia, la corrente della vita.
Il perdono a cui ci chiama Cristo è un perdono al fratello che ci ha messo accanto, il più vicino, quello che ci scomoda di più e quello che ci sembra imperdonabile, quando tradisce la nostra fiducia.
Quando si perdonano i tedeschi per l’olocausto o noi Cristiani chiediamo perdono per la barbarie implicita nelle crociate facciamo molta meno fatica di quanta ne implichi aprire il cuore all’imperdonabile coniuge che ci tradisce con una donna o con i suoi hobby, le sue amicizie, il lavoro ecc. o il condomino che vuole sempre avere ragione o ci butta l’acqua sul balcone, quando annaffia le piante o la collega pettegola che ha sparlato di noi ecc.
Il perdono dà vita a chi lo dona e a chi lo riceve, perché ristabilisce la comunione a cui Dio ci ha chiamati, quella che pensiamo di fare, quando andiamo alla Messa e prendiamo l’Eucarestia, magari ogni giorno, dimenticando che il Corpo di Cristo è la comunità dei credenti, e a quella dobbiamo dare da mangiare e da quello dobbiamo farci mangiare, lavare e farci lavare i piedi, perdonare e farci perdonare.
Ma certe persone non lo meritano il perdono, ci diciamo e ci sentiamo bravi anche solo se ci teniamo alla larga.
Gesù è maestro del perdono.Nei Vangeli vediamo che gli imperdonabili, sono quelli con i quali si mischia, i peccatori condannati senza appello da scribi e farisei.
Quando, dopo la resurrezione, compare nel cenacolo, passando attraverso le porte chiuse, saluta i disertori con le parole:” Pace a voi!”(Lc24,36).(Il perdono che prescinde)
Sempre nel Vangelo di Giovanni (Gv21,16)troviamo una pagina illuminante nell’ultimo dialogo tra Pietro e Gesù risorto, sulla sponda del lago di Tiberiade.”Pietro mi ami tu?”gli chiede per due volte usando il verbo “agapào” e solo all’ultimo il verbo “filèo”, adeguandosi alla risposta di Pietro che conosce solo quel modo di amare, espresso dal verbo filèo che usa in tutte le tre risposte.(Gesù continua ad abbassarsi anche dopo la resurrezione. Il perdono è frutto di una discesa, di un abbassamento)
La lavanda dei piedi che san Giovanni riporta come segno del dono che Cristo si apprestava a lasciare agli uomini ci fa entrare più intimamente nel mistero del perdono divino.(Gv13,1-17)
Gesù lava i piedi agli apostoli, prima di mangiare, nonostante questo servizio fosse riservato solo ai non circoncisi. Gesù maestro, il Rabbì comincia la condivisione del cibo, abbassandosi, indossando il grembiule, mettendosi sotto. Ecco il perdono parte dalla convinzione che non siamo migliori degli altri, passa attraverso un farsi carico di ciò che dell’altro è sporco e manda cattivo odore, sfocia in un desiderio di liberarlo da ciò che lo rende indegno, inadeguato.
Gesù, lavando i piedi ai discepoli, li rimette in piedi, restituisce loro la dignità perduta.
Per perdonare è necessario riabilitare l’altro, partendo dalla sua discolpa, facendo uno sgombero nella nostra casa perché vi possa entrare l’altro e possa parlare al nostro cuore con la sua storia. Divenire casa accogliente per l’altro, ascoltandolo, mettendoci nei suoi panni, è una strada che possiamo percorrere alla ricerca di elementi che mettano in luce l’innocenza dell’altro.
Gesù è diventato per noi casa accogliente, nella quale spesso ci rifugiamo, ma ci ha chiamati ad esserlo l’uno per l’altro.
Quando si trasloca, si sgombra la casa. Il trasloco è quello che Dio ci chiama a fare, quando vogliamo capire e farci capire, quando vogliamo comunicare, mettere in comune quello che abbiamo e non abbiamo, per far posto all’altro.
Dio ci ha dato l’esempio, quando ha indossato i nostri panni, preso la nostra carne per comunicarci il suo amore in modo tangibile.
Continuiamo a guardare come opera Dio.
Dio, spinto dall’amore verso l’uomo che ha fatto a sua immagine e somiglianza ha fiducia in lui e perdona perché sa che la riabilitazione porta l’uomo a rifarsi una vita, vale a dire a passare dalla morte alla vita.
Imparare a perdonare è un cammino di crescita, un percorso di vita per noi e per gli altri.
Ma dove dobbiamo esercitare il perdono?
Sicuramente nella comunità di cui facciamo parte a cominciare dalla più “prossima”, che è quella in cui siamo nati o quella che abbiamo con il nostro coniuge formato.
Ma poiché non si improvvisa il perdono, ecco che è necessario esercitarsi. Di qui l’immagine della serra, il gruppo di cui facciamo parte, dove ci si abbevera alla stessa sorgente.
Il nostro gruppo si chiama “Sacra famiglia”non a caso, perché ad essa vuole ispirarsi nei valori, nelle scelte, nelle azioni perché Dio si renda visibile in mezzo a noi.
Dio ha scelto di incarnarsi in una donna,ma ha avuto bisogno di due sì, quello di Maria e quello di Giuseppe .L’accordo è fondamentale per far incarnare e rendere presente Gesù.
Gesù ha scelto di vivere in una famiglia, i cui membri erano legati tra loro attraverso l’amore a Dio e all’altro.Nella Sacra Famiglia i membri erano sottomessi a Dio e sottomessi l’uno all’altro.(Maria era sottomessa a Giuseppe Gesù a suo padre e a sua madre ecc.)
Oggi la famiglia che fa notizia è quella che non funziona.Lo stato,a corto di famiglie su cui legiferare, si propone di aumentarne il numero legittimando quelle di fatto.Le famiglie oggetto di discussione sono quelle che non danno garanzie ma le pretendono dallo stato, quelle che non pensano che l’indissolubilità sia un valore, che la diversità sia una risorsa, che la stabilità un’assicurazione a tempo indeterminato per la felicità dei figli..
Il Dio in cui crediamo è un Dio famiglia, è Dio Trinità, un Dio che ha creato l’uomo a sua immagine, maschio e femmina, perché della diversità facesse una ricchezza, chiamati il maschio e la femmina a continuare la sua opera creatrice.
Il Dio della Bibbia è padre e madre, fratello e sposo e ci ha dato la vita perché fossimo a tutti gli effetti figli ed eredi del suo patrimonio di grazia e di amore.Il suo è un linguaggio familiare.
La famiglia in cui Dio ci ha chiamati è caratterizzata dall’amore profuso gratuitamente ad ogni uomo, chiamato di volta in volta “figlio”,”fratello”,”sposo”.
(Appartenere ad una famiglia significa essere una di queste cose.)
Dio testimonia il suo amore con la fedeltàalla promessa, al vincolo, all’alleanza che ha stretto con l’uomo, alleanza unilaterale, alleanza che con lo spirito Santo effuso da Cristo l’uomo è in grado di non rompere.La disponibilità alperdononon sette ma settanta volte sette è garanzia di stabilità e di realizzazione della promessa.
La famiglia, luogo privilegiato scelto da Dio per fare della diversità una ricchezza, della crisi una risorsa, dell’unione una possibilità di vita, ha bisogno di persone che attingano direttamente alla fonte dell’amore, per metterlo in circolo lì dove i serbatoi sono vuoti.
Concretamente il gruppo deve fortificare i suoi componenti per testimoniare e rendere visibile Dio fra gli uomini, per rendere visibile il capolavoro di Dio, la famiglia, a cui ha dato il compito di trasmettere la vita, di continuare la sua opera creatrice..
L’uomo è uno e se impara a perdonare non farà differenza fra il fratello con cui si incontra una volta alla settimana e il marito o la nuora o la cognata che hanno comportamenti imperdonabili
Il perdono più difficile è quello che si dona a chi ci ha tradito, ha tradito la comunione, chi ha tradito la nostra fiducia, chi ci parla alle spalle, chi non riesce ad essere buono.
La volontà concreta di perdonare porta al perdono con l’aiuto di Dio.
La comunità che perdona è la comunità dove si fa festa, si esprime la gioia di essere felici, cioè di dare vita, rendere fecondi, portare frutto.La comunità che perdona è quella dove la vita circola liberamente e lo Spirito di Dio fa nuove tutte le cose. La comunità che perdona è messaggera di pace, portatrice di lieti annunzi.
Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono, diceva Giovanni Paolo II. Il perdono è la giustizia di Dio , perché in Lui misericordia e giustizia s’incontreranno, perché ciò che preme a Dio è la nostra salvezza e per la nostra salvezza è stato disposto a tutto.
La pace che molti pensano di realizzare con i discorsi e con gli striscioni, si costruisce nelle nostre famiglie, qualunque sia il numero e la tipologia dei suoi componenti (Negli atti degli Apostoli troviamo famiglie sui generis:famiglie di vedove, di eunuchi, di coppie senza figli.Ciò che le accomunava era il pane e la parola condivisi.Nessuno può sottrarsi al vangelo della famiglia, pur se vive solo), attraverso la composizione dei conflitti, alla luce del Vangelo, nello sforzo di tenere aperto il cuore per riaccogliere chiunque si smarrisca nella notte.
Così lo stile di vita del cristiano non differisce quando è dentro l’appartamento da quando ne esce fuori, perché le relazioni intessute sull’esempio della Sacra Famiglia di Nazaret non dipendono dal tempo,dal luogo e dalle persone per testimoniare la presenza di Dio fra gli uomini.
Concludiamo con l’impegno ad accogliere e fare nostra l’esortazione di san Paolo agli Efesini(Ef 4,29-32):”Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca;ma piuttosto parole buone che possono servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano,E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio,col quale foste segnati per il giorno della redenzione.Scompaia da voi ogni asprezza,sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità.Siate invece benevoli gli uni verso gli altri,misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato voi in Cristo.”
.
Relazione al gruppo “Sacra famiglia” del RnS

2 Famiglia oggi:riflessioni di coppia

Rubrica radiofonica a cura di Gianni e Antonietta 

 

Canto: Cristo è risorto veramente (CD – “Risorto per amore” 1)

Benvenuti all’ascolto di Famiglia oggi, cari amici. Vi salutano, dagli studi di Radio Speranza, Gianni e Antonietta.
Eccoci qui, cari ascoltatori, spettatori muti di quanto andremo a dire o a fare. L’impresa non è facile, come già vi abbiamo detto la scorsa volta, perché, guardando in faccia l’interlocutore si entra in una relazione più vera che permette di non disattendere a quelle che sono le aspettative e i bisogni dell’altro.
Ecco vogliamo partire dal guardarsi negli occhi, dal mettersi di fronte, per capirsi e per instaurare una comunicazione più profonda.
Nella società in cui viviamo siamo tutti protesi a guardare chi non ci guarda o a parlare con chi ha lo sguardo rivolto altrove.
Basta pensare ai tanti spettacoli televisivi o alle comunicazioni mediatiche, via fax, via internet, via cellulare eccetera. È incredibile come in una società così tanto all’avanguardia, per quanto riguarda la comunicazione, capace di arrivare fino ai paesi più sperduti della terra e adesso anche del cielo, almeno nelle intenzioni e nello sforzo della ricerca scientifica, poi ci si sia dimenticati dell’essenziale: che un rapporto vitale si instaura non solo con la mente o con la bocca o con una parte di sé, ma con tutto il corpo.
Gli occhi sono la finestra alla quale affacciarsi per entrare nel mondo e nella storia dell’altro.
Saper guardare è saper amare.
Paradossalmente quando ci si sposa non ci si mette l’uno di fronte all’altro, nel momento che ci si impegna ad amarsi e ad onorarsi tutti i giorni della propria vita.
Non ci si guarda negli occhi quel giorno, né quando andiamo insieme a piedi o in macchina, né la sera quando ci sediamo in poltrona davanti al televisore o quando, distesi a letto, ci raccontiamo l’uno all’altro, abitudine che cade in disuso, man mano che si allontana il giorno del sì.
Si procede affiancati, e ci si dimentica di quello spazio sacro che è rappresentato dalla distanza dei nostri occhi, quello che da fidanzati provvedevamo a mantenere vivo e a coltivare negli incontri desiderati e rubati alle attività e ai doveri dello studio, del lavoro o della famiglia di appartenenza.
Eppure, se ci pensiamo, solo l’uomo, unico tra tutti gli animali, ha bisogno, per accoppiarsi, di mettersi di fronte all’altro.
Se il Signore ha per gli uomini pensato una modalità diversa da quella degli animali per accoppiarsi non è un caso, perché dalla coppia voleva qualcosa di più.
Della creazione dell’uomo e della donna la Genesi dà due versioni differenti che si integrano a vicenda.
Ci vogliamo fermare sulla prima (Gn 1 26-31)
Dio disse: " Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra"
Dio creò l’uomo a sua immagine;
a immagine di Dio lo creò.
Dio li benedisse e disse loro:
"Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra;
soggiogatela e dominate
sui pesci del mare
e sugli uccelli del cielo
e su ogni essere vivente
che striscia sulla terra"
Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona.
Alla coppia, la cosa molto buona, ultima in ordine di tempo ad essere creata, Dio ha affidato il compito di continuare la sua opera creatrice, attraverso un mettersi di fronte, guardarsi, specchiarsi, perdersi nell’altro, rispondendo ai suoi più segreti bisogni, nell’accettare le sue inadeguatezze, nell’accogliere con gratitudine la sua diversità come ricchezza e occasione di crescita comune.
Il primo parto a cui Dio chiama la coppia è l’altro, colui che viene portato alla vita attraverso l’amore, perché l’uomo e la donna insieme siano datori di vita per i figli e per tutti quelli a cui sono mandati.
Io e Gianni solo da poco abbiamo capito quanto sia importante tutto questo e abbiamo cominciato con la cosa più semplice, cambiando il posto a tavola, che ci aveva visto per tanti anni l’uno a fianco all’altro davanti al televisore, che, all’ora dei pasti, ci informava su tutte le cose brutte che accadono nel mondo, facendoci dimenticare tutte le cose belle che potevamo dirci, per crescere e fortificarci nel cammino comune, per rinsaldare l’alleanza a cui ci eravamo impegnati il giorno del matrimonio.
Ma questo è il passo più recente, non l’ultimo, di quel cammino incominciato 33 anni fa nella più completa nebbia.
Quando ci siamo sposati, infatti, non ci siamo posti troppe domande, anzi nessuna, presi dall’entusiasmo di coronare un sogno per cinque anni accarezzato.
Sposarsi in chiesa era naturale a quei tempi come respirare e ci saremmo sentiti sicuramente tagliati fuori se avessimo scelto un’altra strada.
Di una cosa comunque eravamo certi: il matrimonio è indissolubile, perché la promessa l’avevamo fatta davanti a Dio e davanti agli uomini e, se con gli uomini a volte si può trovare qualche compromesso, con Dio proprio non ce la sentivamo di scherzare, perché avevamo timore di Lui.
Il Dio, di cui ci avevano parlato, era un Dio severo, che non perdona e che ci mette poco per mandarti all’inferno alla prima scappatella.
Eravamo pieni di buoni propositi, di figli ne volevamo tanti, sì che il problema del controllo delle nascite sembrò riguardare gli altri, non noi.
La società non si era ancora laicizzata, il nuovo Concordato era di là da venire e il Diritto di famiglia, che entrò in vigore quattro anni dopo, riconoscendo ai coniugi, almeno sulla carta, pari diritti e pari doveri, aggiunse anche quello di potersi avvalere della divisione dei beni, cosa che ci affrettammo subito a fare.
A distanza di tempo spesso abbiamo ripensato a quella che ritenevamo una conquista per entrambi, ma che oggi ci appare la più grande stortura di una legge umana, che, di fatto, nega ciò che il matrimonio va a celebrare: l’unione, il patto, l’alleanza che si instaura tra l’uomo e la donna il giorno che si dicono sì per tutta la vita, basata sulla condivisione di tutto ciò che hanno per affrontare con minor sforzo la fatica del viaggio.
Il divorzio e l’aborto, conquiste della cosiddetta società civile, ci videro spettatori impotenti di fronte all’inizio della catastrofe.
Occupati a coltivare il nostro piccolo orto, cercavamo di tenerlo pulito dall’infestazione dell’erba cattiva, ma non usavamo la stessa zappa, né condividevamo la fatica del dissodare il terreno, né la gioia di cogliere i frutti del nostro lavoro.
Ad un anno dal matrimonio la malattia di Antonietta ci ha colto impreparati e ci ha chiamati a provvedere senza avere gli strumenti indispensabili per uscirne indenni.
Malattia che si è prolungata negli anni e che, lungi dall’essersi risolta, ha occupato lo spazio dei nostri pensieri, sì che io cercavo di evadere fumando pacchetti di sigarette, guardando la televisione fino a notte fonda e immergendomi fino a scoppiare nel mio lavoro, Antonietta, invece, pensando al da farsi, a come poteva guarire, affidando a medici e medicine il compito di risolvere i suoi problemi.
Il figlio che era nato dalla nostra unione ci ha consolato e tenuto uniti fino a quando non ha cominciato a diventare grande e a porsi delle domande a cui non sapevamo dare risposte credibili.
Due io che non riuscivano a diventare un noi, nonostante all’apparenza non c’era cosa che non facessimo insieme.
Ma la fatica di andare da soli, quel procedere sotto il peso di problemi sempre più grandi che ci erano piombati addosso alla lunga ci ha sfibrato tanto che in noi sempre più si radicava il tarlo di un’insofferenza l’uno dell’altra, non più gestibile.
Che senso aveva rimanere insieme, quando la casa era diventata un pensionato e i silenzi duravano mesi?
Le motivazioni che ci avevano portato a sposarci, erano venute meno, perché lo stare insieme non era più fonte di gioia ma solo fonte di tensioni, rancori, aspettative sempre più disattese.
La sospirata felicità diventava sempre più un’illusione coltivata per troppo tempo invano.
Ma cosa mancava, cosa non aveva funzionato perché le aspettative andassero deluse? Ci eravamo forse sbagliati, quando pensavamo di amarci? E la felicità che pensavamo di raggiungere era solo un’illusione?
Solo qualche giorno fa mi è venuto il desiderio di cercare l’etimologia di questa parola, ma non ho avuto bisogno di strumenti eccezionali, mi è bastato un semplice vocabolario che recita così: felicità: essere felici, essere fecondi portare frutto. Essere appagati.
Ma dovevamo imbatterci in un altro matrimonio per svegliarci dal sonno.
Canto: "Luce del mondo"
Nel 2001  nostro figlio decide di sposarsi, dopo 11 anni di fidanzamento e noi ne siamo felici, per lui, perché almeno avrebbe trovato nella sua nuova casa il calore che non riuscivamo più a trasmettergli.
Quando ci portò il libretto che aveva preparato per la cerimonia, non prestammo attenzione a ciò che era scritto sulla prima pagina, ma fummo attratti, incuriositi incantati dall’omelia dei due sacerdoti chiamati a celebrare le nozze proprio su quella pagina che non pensavamo avesse grande valore.
La lettera di Dio agli sposi, il dono, fu l’occasione che il Signore ci mise davanti per cominciare a ripercorrere la nostra storia alla luce di Chi l’aveva pensata e scritta per noi, prima che noi nascessimo.
II "DONO DELLE NOZZE" DI DIO
Vi presentate a Lui in abito da sposi. Vi sedete e lo ascoltate.
Allo sposo dice:
La donna che hai al fianco, emozionata con l’abito da sposa, è mia. lo l’ho creata.
lo le ho voluto bene da sempre; ancor prima di te e anche ancor più di te.
Per lei non ho esitato a dare la mia vita. Te la affido.
La prenderai dalle mie mani e ne diventerai responsabile.
Quando l’hai incontrata l’hai trovata bella e te ne sei innamorato.
Sono le mie mani che hanno plasmato la sua bellezza, è il mio cuore che ha messo dentro di lei la tenerezza e l’amore, è la mia sapienza che ha formato la sua sensibilità e la sua intelligenza e tutte te qualità che hai trovato in lei.
Però non potrai limitarti a godere del suo fascino. Dovrai impegnarti a rispondere ai suoi bisogni, ai suoi desideri.
Ha bisogno di tante cose: ha bisogno di casa, di vestito, di serenità, di gioia, di equilibrio psichico, di rapporti umani, di affetto e tenerezza, di piacere e di divertimento, di presenza umana e di dialogo, di relazioni sociali e familiari, di soddisfazioni nel lavoro e di tante altre cose.
Ma dovrai renderti conto che ha bisogno soprattutto di Me, e di tutto quello che aiuta e favorisce questo incontro con Me: la pace del cuore, la purezza di spirito, la preghiera, la Parola, il perdono, la speranza e la fiducia in Me, la Mia vita.
Sono io e non tu il principio, il fine, il destino di tutta la sua vita!
La ameremo insieme.
lo la amo da sempre. Tu hai incominciato ad amarla da qualche anno, da quando te ne sei innamorato.
Sono lo che ho messo nel tuo cuore l’amore per lei.
Era il modo più bello per dirti: Ecco, te la affido, e perché tu potessi godere della sua bellezza e delle sue qualità.
Quando le dirai: Prometto di esserti fedele, di amarti e di rispettarti per tutta la vita, sarà come se mi rispondessi che sei lieto di accoglierla nella tua vita e di prenderti cura di lei.
Da quel momento saremo in due ad amarla. Anzi ti renderò capace di amarla "da Dio", regalandoti un supplemento di amore che trasforma il tuo cuore di creatura e lo rende capace di produrre le opere di Dio nella donna che ami.
E’ il mio dono di nozze: quello che si chiama la grazia del sacramento del matrimonio.
Non ti lascerò mai solo in questa impresa. Sarò sempre con te e farò di te lo strumento del mio amore, della mia tenerezza; continuerò ad amare la mia creatura, che è diventata tua sposa, attraverso i tuoi gesti di amore.
Lo stesso discorso Dio lo fa alla donna!
L’incontro con il dono ci interpella e ci chiama a rispondere. Da quando sono entrate nell’uso le liste di nozze, si esonerano parenti e amici dal pensare al regalo e gli sposi dalla delusione di vedersi recapitare ciò che non desiderano.
Tutti preoccupati della festa non si pensa a mettere in lista la cosa più importante, anzi non invitiamo neanche al pranzo di nozze Chi, comunque, il regalo ce lo fa ugualmente, anche se non lo ringraziamo. Stiamo parlando di Dio che non se la prende e sa aspettare che ci ricordiamo di lui.
Gli dei antichi si comportavano in diversa maniera.
Eris, la dea della discordia, non invitata alle nozze di Peleo e Tetide, i genitori di Achille, si vendicò scatenando una serie di eventi che portò alla distruzione di Troia.
Paride fu lo strumento usato nel desiderio di possedere una donna non sua, Elena.
Il Dio della Bibbia, quello che, invece, noi adoriamo, parla tutt’altro linguaggio e va contro gli schemi che imponeva e ancora impone la società.Occhio per occhio dente per dente è la legge che lui è venuto a sostituire con quella consolante di un amore che non si tira indietro neanche di fronte alle defezioni più vistose.
Vogliamo concludere pregando con il Salmo 8
O Signore, nostro Dio,
quanto è grande il tuo nome su tutta la terra!
Sopra i cieli s’innalza la tua magnificenza.
Con la bocca dei bimbi e dei lattanti
Affermi la tua potenza contro i tuoi avversari,
per ridurre al silenzio nemici e ribelli.
Se guardo il cielo
Opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissate,
che cos’è l’uomo perché te ne ricordi,
il figlio dell’uomo perché te ne curi?
Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli,
di gloria e di onore lo hai coronato:
gli hai dato potere
sulle opere delle tue mani,
tutto hai posto sotto i suoi piedi;
tutti i greggi e gli armenti,
tutte le bestie della campagna;
gli uccelli del cielo e i pesci del mare,
che percorrono le vie del mare.
O Signore, nostro Dio,
quanto è grande il tuo nome su tutta la terra!
Con l’augurio che la gratitudine ci apra il cuore alla speranza che Dio mantiene sempre le sue promesse, vi salutano Gianni e Antonietta.
Canto: Cristo è risorto veramente (CD – “Risorto per amore” 1)

 

15 novembre 2004